lunedì 31 maggio 2010

VENT'ANNI CON CELESTINA

Era l'estate del 1968 quando la vidi e me ne innamorai subito.
Mi piaceva il suo colorito, l'armonia delle sue grazie, l'eleganza della sua linea.
E poi, ancora lo ricordo, non mi costò molto: novecentosessantamila lire. In contanti però.
Ce ne andammo subito a passeggio per le strade di Roma e io mi pavoneggiavo come se avevo chissà che fra le mani.
Naturalmente ho dovuto abbandonare quella precedente che non era di prima mano ma abbiamo trascorso due anni insieme che, tutto sommato, non sono pochi.
Dopo vent'anni però fui costretto a lasciarla.
Quante ne abbiamo passate insieme. E che ricordi.
Come Ulisse-Odisseo non mi sono fatto incantare da Atena, Calipso, Nausicaa o dalle sirene. Non l'ho mai tradita.
Certo le tentazioni le ho avute. Prima la Uno, poi la Punto, poi la Lancia, però ho resistito, sono stato sempre fedele alla mia cara Celestina Fiat 1100/R.
A parte i viaggi cioè due volte a Parigi, una volta a Londra, altre volte a Siena, Firenze, Milano, Torino, Asti, Cuneo, Napoli, Messina, Palermo, Trapani ricordo alcuni episodi con lei protagonista.
1) Nel 1969 mio figlio frequentava la quinta elementare e con alcuni compagni di classe aveva formato una squadretta di calcio. Un giorno mi chiese se il sabato successivo, nel primo pomeriggio, potevo portare con la Celestina lui e alcuni amici a fare una partitella a pallone alla Passeggiata Archeologica.
Questo è un luogo di Roma che, formato da alcuni parchi pubblici, si trova di fronte al Circo Massimo, confina con la FAO, le Terme di Caracalla e altre antichità, tutto all'aperto, con molto verde ed è frequentato da tanti ragazzi, da giovani e da meno giovani partecipanti a varie attività sportive.
Mi resi prontamente disponibile, ma sarebbe stato meglio se non l'avessi fatto.
Il giorno dell'appuntamento si presentarono sotto casa 11 (undici) ragazzini e con mio figlio 12 (dodici), i quali già vestiti con gli indumenti adatti mi dissero di essere pronti per andare. A quell'epoca avevo ancora i capelli dove infilai le mani per la disperazione. Non avevo un pullman ma soltanto una 1100/R con quattro sportelli, un portabagagli e un vano motore. Quando dissi che non potevo portarli tutti vidi nei loro volti una grossa delusione mentre mio figlio invece mi tormentava dicendomi che si sarebbero ristretti e che ci sarebbero entrati. Andò a finire proprio così: quattro davanti, accanto a me che guidavo, gli altri otto in quello che per definizione era il sedile posteriore ma che in quell'occasione divenne un carro bestiame. Giunti sul luogo prescelto, fermai Celestina e iniziai a cercare di districare i dodici corpi avvinghiati. Fu uno spettacolo per i passanti che passeggiavano nei paraggi. Si formò persino un gruppetto di "spettatori" i quali, al termine dell'operazione di conteggio dei corpi, si misero anche ad applaudire. Io mi sarei sotterrato molto volentieri. Invece rimasi e dovetti fare finanche l'arbitro della partitella. Per ritornare a casa stessa operazione dell'andata. Se qualche "pizzardone" si fosse accorto della questione io sarei finito in galera per tentata strage.
2)Verso l'inizio della primavera del 1971 terminato l'orario di lavoro, ero solito recarmi tre sere la settimana a casa di un professore il quale, privatamente, m'insegnava disegno tecnico. Mi aveva preso questa passione e tentavo di imparare qualcosa. Quando tornavo a casa capitava che mi esercitavo a disegnare fino a notte inoltrata perdendo ore di sonno preziose. Infatti una sera, verso le ventidue, dopo la lezione di disegno, salii a bordo di Celestina e mi avviai per rientrare a casa. Percorsi due o trecento metri mi prese una botta di sonno tremenda tanto che finii col tamponare una grossa auto FERMA! Il rumore fu talmente assordante che oltre a svegliarmi fece accorrere alcune persone tra le quali l'autista dell'auto da me investita che era targata CD – Corpo Diplomatico. A differenza di ciò che temevo non accadde nulla e l'autista, dopo che terminai di spiegargli la causa di quel fatto certo increscioso, si mostrò molto comprensivo nei miei confronti. Mi andò bene, direi fin troppo.
3)Un giorno, maggio del 1988, uscii di casa verso le 8:30 del mattino per recarmi al lavoro ma quando varcai il portone mi accorsi che Celestina non si trovava dove ogni giorno la parcheggiavo. Mi misi alla sua ricerca facendo su e giù per la strada sperando che, senza farci caso, l'avessi parcheggiata in un altro punto. Niente da fare. Mi avevano rubato Celestina. Vicino casa avevo sia il Commissariato di PS sia la Stazione dei Carabinieri. Mi recai presso quest'ultima e dissi al Maresciallo di turno che dovevo fare la denuncia per il furto della mia auto. Mi chiese:
= che auto è?
= una Fiat 1100/R colore celestina targata...
= ha detto una Fiat 1100/R ?
= certo
= senta signore lei è sicuro di questo furto?
= come sarebbe a dire...
= sarebbe a dire che una macchina come la sua non la ruba nessuno
= io la parcheggio sempre sotto casa e non c'é più
= va bene. Allora facciamo questa denuncia, mi dia tutti i dati...
Feci la denuncia, presi un bus e andai al lavoro. Scesi alla fermata vicino lo studio, mi guardai intorno e nel parcheggio dove lasciavo l'auto tutti i giorni lavorativi vidi la Celestina proprio davanti ai miei occhi. Chiesi al parcheggiatore-abusivo da quanto tempo stava lì la mia auto e lui mi rispose di averla trovata sin dalle prime luci dell'alba. Poi, improvvisamente, mi ricordai che la sera prima ero tornato a casa con un mezzo pubblico dimenticandomi di Celestina. Di corsa andai in ufficio, chiamai la Stazione dei Carabinieri e mi feci passare il Maresciallo il quale non appena gli raccontai quello che era accaduto sbottò in una grassa risata e mi disse:
= e io che le avevo detto?
Qualche mese dopo Celestina, forse turbata da quello che era successo, cominciò a mostrare segni di stanchezza per cui decisi che era giunta l'ora di separarci.
L'ho accompagnata in un posto ameno alla periferia di Roma a fare amicizia con altre della sua stessa età o quasi.

giovedì 27 maggio 2010

ALEA IACTA EST

Ho pensato di dare questo titolo al mio scritto affinché si possa dire di me d'essere abbastanza istruito. Il che non è vero.
L'ho fatto sì per darmi delle arie, ma anche perchè mi ronzava in testa da un bel po' di tempo vista la decisione presa.
Ho deciso di prendere atto definitivamente che sto rimbambendo ogni giorno di più.
E non mi si venga a dire che ci sono persone che hanno un'età superiore alla mia - ormai vicina a quota ottanta - e che non sono rimbambiti affatto. Lo so benissimo e faccio loro tanti auguri perché restino ancora sulla breccia così come sono, ma io non faccio parte di questa categoria.
Bando alle parole e andiamo ai fatti.
Vediamo se me li rammento. Tutti i giorni faccio sempre gli stessi gesti sin da quando mi sveglio, ma non per paranoia, no, soltanto perché così evito di dimenticare qualcosa anche se non è una cosa importante.
1) Mi alzo, apro alcune finestre, sempre e solo quelle, mi preparo e faccio colazione, prendo le pillole del mattino ed entro in bagno dove disbrigo le abituali faccende. Quando ne esco una vocina interna mi fa:
= rientra in bagno
= perché
= hai dimenticato qualcosa
= che cosa
= entra e vedrai.
Gli occhiali! Quando sono entrato me li sono tolti, li ho poggiati sempre nello stesso posto e lì l'ho lasciati. Grazie vocina.
2)Mi siedo davanti a Pasquale, inizio a leggere le prime pagine di alcuni quotidiani, i blog Grillo e Travaglio, i programmi TV delle principali reti alla scoperta di qualcosa di interessante da vedere -il più delle volte "non c'è trippa per gatti" – e torna la vocina:
= allora?
= allora che
= non saluti Pasquale?
= ecco, ecco...buongiorno Pasqua'
= non devi dimenticarlo mai.
Ma 'sta vocina qua è amica mia oppure di Pasquale?
3) Esco di casa per il mio consueto giro con in tasca una piccola lista di cose da acquistare, ma non sempre giacché quando si tratta di una sola cosa sono certo di rammentarmelo. Dopo circa un'ora, il ritorno. Sto per aprire il portone quando rispunta la vocina e mi dice:
= dove vai
= dove vuoi che vada, rientro a casa
= e il latte?
= è vero, vado a comprarlo, grazie
= se non ci fossi io.
Si vanta pure la vocina.
4) Acquistato il latte prendo le chiavi dalla tasca e, fino alle prime due per aprire portone e vetrata tutto fila liscio, ma quando mi trovo davanti la porta di casa cominciano i problemi. Le due chiavi sono perfettamente uguali come misura, ma non come intaglio. E dire che su tutte loro ho applicato un piccolo autodesivo con scritto sopra il numero corrispondente alle serrature che devo aprire progressivamente. Dopo due o tre inutili tentativi riecco la vocina:
= la vogliamo aprire o no questa porta?
= sto cercando la chiave
= non è quella
= e qual'è allora
= la prima che hai infilato sopra.
Possibile che la vocina ne sa più di me?
5)Ieri, senza dirlo a mio figlio che vuole sapere sempre come e dove sto, sono uscito di casa per sbrigare una certa faccenda all'anagrafe del mio Municipio riguardante mia moglie. Il figliolo, essendo le ruote della sua auto le mie gambe, voleva accompagnarmi il giorno dopo. Non gli ho dato ascolto e, detto fatto, esco di casa piuttosto presto e mi avvio verso le fermate dei mezzi pubblici vicinissime a casa mia dove transitano almeno tre bus che effettuano la fermata a Piazza Venezia. Sto per arrivare alla fermata più vicina quando ecco arrivare un bus con sopra proprio la scritta che fa al caso mio, anzi fa capolinea proprio lì. Arrivati a Piazza Venezia dove dovrebbe fermarsi, il bus continua la sua corsa. Un po' preoccupato domando a qualche passeggero il perchè non si ferma definitivamente . Una signora mi spiega che dovevo scendere prima quando il bus aveva effettuato una fermata, adesso proseguirà la sua corsa facendo un ampio giro per poi ritornare al capolinea che a me interessa. Va bene, facciamoci questo giretto. Allora: via del Plebiscito, Piazza del Gesù, Corso Vittorio, Largo Argentina, Via delle Botteghe Oscure e finalmente eccoci arrivati al sospirato capolinea di Piazza Venezia. Vado ad un'altra fermata lì vicina per prendere ancora un bus che mi possa portare a Via Petroselli e noto cinque o sei pali con tanto di cartelli che indicano il passaggio perlomeno di sedici linee. Pazientemente consulto il percorso di ciascuna linea e riesco ad individuare qualche bus che fa al caso mio. Arriva il primo, salgo e, appena riparte, per sicurezza chiedo al conducente se effettua la fermata a Via Petroselli. Mi risponde che ne fa una non proprio lì davanti ma un po' prima: e ti pareva! Giunto alla destinazione da me tanto anelata sbrigo - per modo di dire perché ci metto due ore abbondanti – quello che avevo da sbrigare. Mi accingo a provare di ritornare a casa. Di fronte all'Ufficio Anagrafico c'è una fermata di bus con cartelli indicanti una ventina di linee. Controllo accuratamente il percorso di ognuno di essi e comincio a sentire un senso di smarrimento. Certo, è trascorso molto tempo dall'ultima volta che ho usato più di un mezzo pubblico, ma sentirmi perso così non mi era mai capitato. Domando a un passante fermo anche lui in attesa quale mezzo devo prendere per arrivare vicino casa, lui me lo dice, poco dopo arriva il mio bus, salgo e quarantacinque minuti dopo sono a casa, sano e salvo.
Vocina, vocina dove sei andata a finire?
Perchè mi hai abbandonato proprio nel momento di maggior bisogno tanto che il mio rimbambimento ha toccato la vetta più alta dell'Everest?
E perché cara vocina sono stato costretto a vagare tra le strade ed il traffico infernale della capitale senza alcun tuo suggerimento?
Forse sarebbe stato più opportuno che mi fossi fornito di un navigatore satellitare GPS. Esistono quelli per i pedoni?

domenica 23 maggio 2010

CONFESSO, SONO STATO UNO STRAROMPI

Però soltanto fino a quindici anni fa, quando sono andato in pensione definitivamente.
Da allora ho smesso di esserlo e quindi posso considerarlo un difetto andato in prescrizione.
A pensarci bene qualche residuo c'è ancora, ma mi limito a farlo soprattutto tra me e me: io stra-rompo e l'altra parte di me dice di non rompere. È un discorso un po' strambo ma così è.
Il titolo di questo scritto si riferisce esclusivamente al periodo in cui ho lavorato, per oltre trentacinque anni, nell'ambito di studi notarili.
Avrei un bel po' di episodi da raccontare a dimostrazione di quanto sto straparlando, ma uno di questi risalente al 1960 mi ha spinto a farmi mettere nero su bianco proprio per ricordare a me stesso quanto lo fui. Appunto strarompi. Quell'anno lavoravo in uno studio al centro di Roma.
Tra i vari compiti che mi erano stati assegnati dal boss c'era, purtroppo, anche quello di dovermi occupare personalmente dell'eventuale assunzione di dipendenti quando si fosse resa necessaria per procedere alla sostituzione di qualcuno/a o per nuovi ingressi richiesti dall'incremento del lavoro.
Per tale scopo si pubblicava una offerta di lavoro su un paio di quotidiani nella quale si precisavano i requisiti richiesti tra i quali uno “importante”:quello di possedere una bella calligrafia.
Mi viene da sorridere perché oggi, nell'era dei computer, chi si preoccupa più di avere una calligrafia almeno leggibile mentre invece in quegli anni, gli atti, i rogiti notarili si dovevano scrivere a penna. Soltanto verso i primi anni settanta, se non ricordo male, venne introdotta la possibilità di scrivere gli atti stessi con la macchina da scrivere usando però un nastro indelebile munito di una particolare stampigliatura iniziale e finale ai sensi della legge in vigore.
Solitamente si presentavano per essere assunte giovani ragazze appena diplomate, anche in stenodattilografia, rarissimi invece i giovani. Ormai avevo fatto una decennale esperienza nel campo notarile e, anche se a me seccava molto, era piuttosto semplice selezionare la o le persone con le maggiori possibilità di essere assunte. Mi dava fastidio il fatto di dover decidere io e dire alle giovani tu si oppure tu no per favore ripassa.
Un giorno, a seguito di un annuncio, si presentò in studio una ragazza di circa ventotto anni, un paio meno di me, diplomata, buona calligrafia, ma soprattutto già esperta in quanto aveva già lavorato presso un altro studio notarile per tre anni. Le domandai perché aveva lasciato il precedente impiego e me ne spiegò la ragione che io ritenni piuttosto valida. Egoisticamente pensai che almeno con questa ragazza non dovevo sforzarmi più di tanto per dirle come andava svolto il lavoro nel nostro studio. Le affidai subito un compito piuttosto delicato e lei dimostrò di essere all'altezza di
quello che richiedeva il lavoro. Tutto filò piuttosto liscio o quasi, per i primi dieci/quindici giorni dopo di che iniziarono a verificarsi tra di noi alcuni piccoli screzi a causa di come svolgeva il suo compito. Io, che in quello studio ci lavoravo già da circa quattro anni, ormai sapevo come il boss voleva che si svolgessero le cose, quindi la informavo su come andava stilato o copiato ogni singolo rogito mentre lei invece voleva imporre il suo di criterio, quello cioè di cui era già pratica. In definitiva quasi ogni giorno c'erano discussioni. Una mattina le dissi come andava scritta la prima facciata di un certo atto e lei invece la scrisse a modo suo. La ripresi, le dissi che era lei che si doveva adattare allo studio e non il contrario. Tutta infuriata prese il foglio di carta bollata che stava scrivendo e disse “adesso vado a dirlo al notaio” e infatti, quasi correndo, andò nella stanza del boss chiudendosi la porta dietro. Ne uscì venti minuti dopo, mi sbatté sulla scrivania il foglio di carta bollata che aveva in mano e, tutta alterata, mi disse “Vado via, non lavoro più qui, mi hai stufato. Ricorda però che non la passerai liscia, te la farò pagare!” Prese la sua borsa e, senza salutare nessuno, si precipitò fuori lo studio. Io rimasi di stucco e stavo andando a parlare col boss il quale invece venne lui nella mia stanza e, quasi sorridendo, mi disse “Si è licenziata lei. Mi ha detto che riceveva troppe osservazioni su quello che faceva, insomma che le venivano rotte le scatole continuamente. Questo lei non lo poteva sopportare più e quindi mi ha messo davanti al dilemma se andarsene lei oppure licenziare.....L'ho interrotta e l'ho invitata a lasciare lo studio. E adesso buon lavoro a voi”. Non riferii al boss le minacce ricevute, ma per oltre dieci giorni quando dovevo entrare o uscire dallo studio, per precauzione, mi guardavo spesso intorno. Infine smisi di farlo.
Mi ero rotto le scatole anch'io.

giovedì 20 maggio 2010

MIA MOGLIE HA UN PICCOLO DIFETTO

=Allora Carle' che te ne sembra?
=Ti dirò Giuse' sono stato veramente bene
=Seriamente?
=Ci mancherebbe altro. Ho passato una serata stupenda
=Hai visto? E tu che non volevi venire
=Giuse' ma io lo dicevo per non darvi troppo disturbo sia a te che a tua moglie
=Ma quale disturbo. Con la tua presenza ci hai onorato
=Adesso non esagerare.
=Sei stato male qui da noi? Le cena non ti è piaciuta?
=Vuoi scherzare, è stata una cena meravigliosa
=Caro mio, mia moglie è bravissima. In cucina poi non ha avversari
=Effettivamente ho mangiato benissimo
=Ci facciamo l'ammazzacaffé?
=No, ma che scherzi? È quasi mezzanotte e io me ne devo andare a casa
=Altri due minuti...Che ne dici di Caterina?
=Sei stato veramente fortunato a sposarti con una donna così: giovane, bella, brava, affettuosa
=Ci sono arrivato tardi al matrimonio ma adesso sono veramente felice
=In effetti fino a poco tempo fa tu eri ancora scapolo poi improvvisamente
=Una specie di colpo di fulmine
=Hai fatto tutto quasi di nascosto, nessuno ha saputo niente di quello che stavi per fare
=Abbiamo voluto fare una cosa discreta, senza dirlo ad estranei, soltanto ai parenti stretti
=Non ti biasimo per questo anzi sono d'accordo con la decisione che avete preso...Ma dimmi Giuse' come mai tua moglie va a dormire così presto? Sono già due ore che è andata a dormire...
=Caterina è fatta così, ogni sera verso le nove, le nove e mezza al massimo le viene un sonno tremendo ed è costretta ad andare subito a letto anche se abbiamo ospiti com'è accaduto questa volta con te
=Però che strano...E non avete provato a chiedere a qualche medico?...
=Certo che l'abbiamo fatto, ma non c'è nulla da fare. Inoltre...
=Inoltre ?
=Mia moglie ha un piccolo difetto: è sonnambula
=Per la miseria...
=Sì, ma non è pericolosa
=Lo capisco ma può essere pericoloso per lei
=No, no, io poi sto molto attento...Zitto, zitto...Caterina sta venendo qui...Tu stai calmo, non devi avere paura, stai fermo immobile dove sei...e parla piano...non bisogna svegliarla...
=Giuse' ma con un pigiamino così ridotto non prende freddo?
=Ssss...c'è abituata...
=Giuse' si è avvicinata a me e mi sta frugando in tasca...
=Carle', sssss...fermo...non aver paura...
=Giuse' mi ha preso il portafoglio e se n'è andata...
=Carle' non preoccuparti, domattina alle otto te lo ridò..
=Giuse' è ritornata e mi ha preso l'orologio Rolex...
=Carle' tranquillo, domattina alle otto te lo ridò...
=Giuse' mi ha preso pure l'accendino d'oro...
=Carle' anche quello domattina alle otto te lo rido'...
=Giuse' ...ma che sta facendo?... Mi ha preso per il braccio e mi porta con sé...
=Carle' ... adesso dove vai?...che fai?...eh?
=Giuse' calmo...non t'agitare...domattina alle otto te la rido'.

lunedì 17 maggio 2010

E PENSARE CHE L'AVEVO DIMENTICATO

Poco più che quarantenne mi si presentarono per la prima volta alcuni dolorini alle ossa e, dietro consiglio di un ortopedico che mi aveva visitato accuratamente, mi decisi a seguire il suo consiglio e predispormi ad affrontare una cura termale a base di fanghi e massaggi.
Il luogo più idoneo che mi era stato indicato era Abano Terme in provincia di Padova e quindi mi diedi da fare per trovare uno stabilimento termale ed annesso albergo alla mia portata. Allora non c'era internet e quindi effettuai una ricerca tramite qualche agenzia e la consultazione di alcune pubblicazioni ad hoc.
Non mi riuscì difficile trovare ciò che cercavo e, dopo alcuni contatti telefonici seguiti dalla lettura di un depliant che lo stabilimento termale da me scelto mi aveva fatto avere, prenotai per il mese di maggio un ciclo di cure.
Quando venne il giorno della partenza chiesi a Celestina, la mia Fiat 1100/R, se se la sentiva di affrontare questo viaggio e soprattuto di informarmi preventivamente se c'era qualcosa che non andava. Non ottenendo alcuna risposta la controllatina gliela feci dare ugualmente anche senza il suo parere.
Giunsi ad Abano verso il pomeriggio inoltrato dopo un viaggio abbastanza tranquillo. Rimasi sorpreso sia dall'eleganza dell'albergo, moderno e circondato da un bel giardino, sia dall'accoglienza ricevuta. Tutti molto cortesi: receptionista, direttore e altro personale. Venni accompagnato nella mia camera, una singola con bagno annesso, e venni informato che il mattino dopo sarebbe venuto un medico per una visita di routine. Mi dissero anche qual'era il programma che avrei dovuto seguire a partire dall'indomani. Era ormai l'ora di cena e quindi potevo accomodarmi scendendo al piano terreno.
Il salone da pranzo era enorme, luminoso e stracolmo di tavoli e sedie di pregevole fattura. Non appena vi misi piede mi vidi venire incontro una giovanissima ragazza che indossava un candido grembiule con pettorina e una specie di cuffietta sui biondi capelli corti. Mi salutò in un delizioso accento veneto e mi accompagnò all'unico tavolo rimasto libero situato molto vicino alla porta d'ingresso e apparecchiato per una persona sola. Diedi una rapida occhiata in giro e notai che tutti gli altri tavoli erano occupati da ospiti, perlopiù coppie e comitive di stranieri. Dalla lista del menù in bella mostra sul tavolo mi accorsi che potevo scegliere tra tre diversi piatti per ciascuna portata. Feci la mia scelta, lo dissi alla ragazza che non mi aveva mollato un istante e quando si fu allontanata mi accinsi a fare con lo sguardo un altro giro d'ispezione tanto per iniziare a rendermi conto di come stavano le cose. Si udiva un mormorio incessante di persone che parlottavano per la maggior parte in tedesco e austriaco, perlomeno era quello che riuscivo a capire io ma non perchè conoscessi quelle lingue. Accanto a me c'era un altro tavolo occupato da tre signore, mi sembrò di mezza età, impegnate in un'animata conversazione. Parlavano in italiano con un accento dialettale piuttosto marcato di cui comprendevo ben poco. Non che mi fossi messo ad origliare ma erano loro che tenevano un po' alto il tono della voce. Terminata la cena gli ospiti man mano uscirono dal salone chi per andare in giardino, chi per fare una passeggiata e chi per trattenersi nell'atrio dell'albergo piuttosto ampio dove erano disposti numerosi divani e poltrone. C'era anche una sala con la televisione accesa, ma senza telespettatori: evidentemente gli ospiti dell'albergo parlavano altre lingue. Secondo me non tutti. Quelle tre signore del tavolo accanto al mio erano sicuramente italiane. Le rividi sedute su di un divano che stavano certamente seguitando la conversazione di poco prima. Decisi di volerne sapere qualcosa di più su di loro. Mi avvicinai, feci un breve cenno di saluto, presi un settimanale illustrato che si trovata poggiato su un tavolino e sedetti su un divano di fronte il loro. Dopo qualche minuto, profittando di una pausa, con estrema gentilezza chiesi alle tre signore se erano italiane. Alla mia domanda, che in realtà era una scusa per attaccare bottone, scoppiarono in una sonora risata. Poi, come per tranquillizzarmi, non solo affermarono di esserlo ma vollero dirmi anche di quali località e addirittura il loro stato civile. Chissà perché? Dunque la più giovane, mora, credo poco sopra i quaranta anni, era di Rovigo, sposata senza figli; le altre due, intorno ai cinquanta erano di Bassano del Grappa, bionda, separata con due figli ancora minorenni l'una e di Venezia, biondo-cenere vedova e madre di tre figli maggiorenni l'altra. Io, come dire, presentai le mie "credenziali" e tutto diventò più semplice. Ci attardammo a "ciacolare" fino alle ventitre quando la Veneziana e la Bassanese decisero di ritirarsi nello loro camere. Io rimasi a far compagnia alla Rovigotta che non aveva ancora voglia di andare a dormire. M'informò che lei e le altre due avevano stretto amicizia sin dal primo dei quattro giorni da quando erano arrivate in quell'albergo e avevano iniziato le cure. Le chiesi qualche delucidazione in merito al programma di cure e lei mi fornì i punti essenziali di come si sarebbero svolte le cose. A mezzanotte decidemmo di andare a dormire anche noi, prendemmo l'ascensore – lei aveva la sua camera nello stesso mio piano - ci salutammo e ci augurammo la buonanotte.
Ancora oggi non riesco a dimenticare il mio primo giorno della "tortura". Alle sette del mattino venne il medico che mi visitò scrupolosamente; poi bussò alla porta una signora o signorina piuttosto robusta con tanto di camice bianco, mi diede un accappatoio anch'esso bianco, mi chiese d'indossarlo togliendo prima ogni mio indumento anche intimo e quindi mi chiese di seguirla. Con l'ascensore andammo nei locali dove si svolgevano le "operazioni"; mi fece entrare in una stanza, mi disse di togliermi l'accappatoio e di stendermi su una specie di letto o lettiga. Prelevò da alcuni recipieni del fango quasi bollente e mi ricoprì tutto come una mummia egizia. Non ricordo quanto tempo rimasi lì disteso ma ad un certo punto mi aiutò ad alzarmi, m'introdusse in un piccolo vano doccia, aprì un rubinetto e con un tubo da vigile del fuoco in mano e un getto d'acqua potente mi ripulì da tutto il fango. Terminata questa operazione cominciai a sentire freddo, m'infilai l'accappatoio ma mi accorsi che stavo vacillando. Mi sembrava di svenire; lei chiamò qualcuno e, insieme, sostenendomi, mi riportarono nella mia camera. Ricevetti tutte le assicurazioni del caso nel senso che il primo giorno era il più difficile. La "nazista" rimase per alcuni massaggi e dopo mezz'ora finalmente se ne andò dicendomi che, adesso, potevo fare colazione. Rimasi tutta la giornata a letto e solo a sera inoltrata mi decisi a scendere sperando di rivedere le "tre grazie". Puntualmente le trovai sedute nello stesso divano della sera precedente. Quando raccontai come avevo trascorso "quella giornata" si misero a ridere molto divertite. Io no.
Nei giorni successivi si seguiva sempre lo stesso tran-tran: fanghi, massaggi, colazione, nuotatine nella piscina coperta dello stesso albergo, pranzo, riposino, pomeriggio a passeggio per le strade di Abano e anche qualche puntatina in visita a Padova dove ci si andava con la mia auto. Io ero l'autista, accanto a me, con mio sommo piacere la Rovigotta e, nel sedile posteriore la Veneziana e la Bassanese. Proprio quest'ultima quando giunse per lei il giorno del ritorno a casa ci chiese se potevamo accompagnarla a Bassano, cosa che facemmo con molto entusiasmo. Venne poi il giorno della Rovigotta la quale c'informò che il mattino successivo di buon'ora sarebbe venuto il marito a prenderla. Anche quell'ultima sera, come al solito, io e lei ci trattenemmo fino a notte inoltrata, poi ritornammo nelle nostre camere e, davanti la porta della sua ci abbracciammo. Lei, fissandomi negli occhi mi disse: "...avrei voluto...". Si voltò, entrò e chiuse la porta. Aveva capito durante il corsodelle nostre conversazioni che tra noi due qualcosa stava succedendo e che io ero, da oltre due anni, "a digiuno di amicizia femminile".
Dopo un paio di giorni fu la volta della Veneziana a dover lasciare l'albergo. Mi disse che nessuno dei suoi tre figli sarebbe venuto a prenderla e mi chiese se mi andava di accompagnarla a Venezia.
Dissi subito di sì ed infatti in meno di un'ora percorremmo la Serenissima, giungemmo in quella meravigliosa città, parcheggiai l'auto al grande garage di Piazzale Roma e ci recammo a casa sua che non era molto distante da Piazza San Marco. Lì giunti, m'invitò ad entrare, mi disse che se volevo potevo restare a cena e io...restai.
Ritornai in albergo ad Abano un'ora dopo la mezzanotte.


giovedì 13 maggio 2010

AMLETICO DILEMMA

Con l'appropinquarsi della bella stagione – secondo me ne sono rimaste solo due e non so quali siano – in giro per Roma si notano turisti singoli o in gruppo col naso all'insù ad ammirare le bellezze che questa città offre, con le mani impegnate a tenere una carta toponomastica e con gli occhi rivolti alla ricerca di qualcosa.
Durante il mio quotidiano peregrinare qui nel mio Rione, ne incontro a frotte e a me questo fa piacere anche perchè mi sembra di intravedere nelle loro espressioni un interesse estatico.
Come detto più volte sono stato fermato spesso e con molta cortesia per informazioni circa vari luoghi, monumenti e percorsi.
Quando ho potuto e saputo interpretare le richieste ho risposto molto volentieri.
L'altro ieri però mi è accaduto un fatto che mi fatto nascere l'amletico dilemma.
Mi sono chiesto: per caso le guide turistiche hanno un aspetto particolare e io somiglio loro?
Perché se è così devo prendere accordi con il Comune affinché io venga dotato di cappello con visiera simile a quello dei vigili urbani nonché di targhetta plastificata con su scritto a caratteri cubitali TU DOMANDA E IO RISPONDO almeno in cinque lingue: francese, inglese, spagnolo, tedesco e italiano.
Quanto alla retribuzione per tale mia opera, che ritengo meritoria e che penso dia lustro alla città credo che l'accordo sia facilmente raggiungibile trattandosi di lavoro a tempo determinato co.co.pro. oppure, a scelta, co.co.tas: a tassametro, un tot l'ora.
Tutto questo naturalmente dopo aver frequentato un regolare e accelerato corso di mimica facciale e gestuale non conoscendo io le sopraelencate cinque lingue, forse un po' l'ultima.
La soluzione mi è venuta in mente a seguito di quanto accadutomi ieri.
A metà strada tra dove abito e la centrale Stazione Termini vengo molto gentilmente fermato da una giovane ragazza asiatica la quale reca con sé una enorme valigia a rotelle, uno zainetto e un borsone a tracolla.
Evidentemente stanchissima prende fiato, mi fa un inchino cerimonioso e a me sorge spontaneo farle la domanda "Japan?". Lei, come se le avessi detto di aver vinto il primo premio di non so quale lotteria, con uno splendido sorriso mi conferma "yes!". Poi in un inglese giapponesizzato o in giapponese inglesizzato mi chiede qualcosa. Naturalmente stento a capire cosa vuol sapere ma in quello che dice riesco ad acciuffare una parola molto storpiata "Termini" e allora tiro un sospiro di sollievo – per la verità, vedendo scomparire dalla faccia la mia espressione interrogativa , anche lei lo fa – ed ha inizio l'opera ardua di farle capire come arrivarci.
Facendole notare un certo punto del percorso che deve fare, tra l'altro in salita, le indico un semaforo e non sapendo tradurre questa parola alzo la mano destra, apro e chiudo le dita a becco d'anatra per cercare di mostrarle l'alternanza dei colori e le dico, in inglese, i loro nomi: red=rosso, yellow =giallo, green=verde.
Lei, che sembra aver capito, mi fa un bel sorriso. E fino a qui ci siamo.
Poi tentando di farmi capire con i gesti le dico che arrivata al semaforo deve girare a destra. "Right"?, mi fa lei e io, che questa parola la conosco, annuisco sorridendo due o tre volte. Quando però mi chiede qualche altra cosa guardandosi intorno io non riesco a capire e le mormoro a testa bassa "I am sorry" che, se non ricordo male vuole dire "sono dispiaciuto".
Le mie reminiscenze per quanto riguarda la lingua inglese si fermano qui e risalgono al giugno del 1944 quando Roma, durante la seconda guerra mondiale, venne "liberata" dagli angloamericani.
Terminato il dialogo, se così si può chiamare, ci salutiamo: lei chinando la testa, io facendo altrettanto per la qual cosa abbiamo corso il rischio di darci una reciproca testata. La vedo arrancare su per l'erta mentre io prendo la strada certamente più agevole per rientrare a casa.
Percorsi un centinaio di metri mi blocco quasi fulminato da due pensieri:
1° pensiero doloroso: credo che Madama Butterfly voleva che le dicessi se nelle vicinanze c'erano bus o tram per arrivare a Termini e io, non avendo saputo tradurre, non ho risposto mentre invece so benissimo che a due passi c'è la fermata di almeno tre linee tramviarie che portano per l'appunto proprio alla Stazione centrale;
2° pensiero doloroso: in quel tratto di strada da percorrere per arrivare a destinazione mi sono ricordato, dopo, che ci sono due semafori. Risultato? Mentre girando a destra del primo, così come le ho detto, non si va da nessuna parte, per arrivare alla Stazione Termini occorre invece girare a destra dopo il secondo.
Ripensandoci mi sono chiesto più volte se Butterflfly sia poi riuscita a fare rientro nel Paese del Sol levante.

sabato 8 maggio 2010

MONTICIANO AT BLOGNAUTI AMICI TUTTI

GRATO VOSTRO AFFETTUOSO INTERESSAMENTO stop CORRE OBBLIGO PRECISARE MIA ATTUALE SITUAZIONE stop "ARRESTI DOMICILIARI" IN CASA MAI ACQUISTATA PER MANCANZA CRONICA DENARO "PROVENIENZA IGNOTA" stop OSPEDALI NON ripeto NON HANNO ET NON AVRANNO MIA PRESENZA FINO AT TERMINE ACCERTAMENTI ET CONTROLLI stop ME RICCOMANNO STATEVE BENE stop SALUTI ET ABBRACCI stop ALDO.

martedì 4 maggio 2010

LA LATITANZA DI ALDO IL MONTICIANO...

...dal suo blog inizia oggi e terminerà quando, "amministiato", conoscerà gli esiti di accertamenti, controlli e visite mediche in corso.

sabato 1 maggio 2010

RICORDI BUFFI DA DISOCCUPATO

Oltre mezzo secolo fa ho vissuto anch'io vari periodi di disoccupazione dovuti ad un bel po' di motivi, ma quello che si provava in tali frangenti era un misto di indignazione e di umiliazione.
Ecco perché mi immedesimo in tutti coloro che attualmente sono disoccupati o, purtroppo, in via di diventarlo.
Nel rammentare la mia situazione di quegli anni lontani mi tornano in mente episodi poco gradevoli ma nello stesso tempo buffi, tanto che allora ci scappò anche qualche sorriso forzato. Intorno ai vent'anni a seguito della morte del mio datore di lavoro rimasi a spasso e mi misi subito
alla ricerca di un'occupazione qualsiasi.
La prima difficoltà che incontravo era dovuta al fatto che non avevo ancora effettuato il servizio militare. Ricordo le parole che mi venivano rivolte nel corso dei primi colloqui che facevo con chi, forse, avrebbe potuto assumermi e che suonavano pressapoco così:
= "Carissimo, non discuto sulle sue ottime referenze, ma lei capisce che per la nostra attività non possiamo permetterci il lusso della sua assenza di oltre un anno a causa dei suoi obblighi verso il servizio di leva. Lei sa che per legge noi dovremmo conservarle il posto per tutto il periodo."
Dopo altri due o tre tentativi falliti, andai a fare il servizio militare terminato il quale di nuovo alla ricerca di un lavoro qualsiasi.
Nel frattempo lavori saltuari e in nero.
Mi presentati anche dinanzi alla proprietaria di un grande negozio vicino dove abitavo a quei tempi, la quale preso atto di quanto le stavo dicendo circa i miei precedenti mi disse:
="Bene, lei sarebbe disponibile da subito per questo lavoro?"
="Certamente signora"
="Principalmente lei si dovrebbe occupare di consegne a domicilio presso i nostri abituali clienti dentro e fuori Roma. Abbiamo il nostro furgone adatto al trasporto di cose voluminose. Lei che tipo di patente ha?"
="Veramente non ho patente di nessun tipo."
La signora, dispiaciuta, mi salutò dichiarandosi disposta ad un eventuale secondo colloquio se fossi riuscito a patentarmi.
Un giorno mi ricordai che un cliente del mio precedente posto di lavoro mi aveva preso in simpatia e mi aveva anche detto che era capo-ufficio del personale di una azienda comunale. Lo andai a trovare e mi chiese di fargli avere un curriculum che lui avrebbe esaminato e proposto a chi di dovere. Neppure ventiquattr'ore dopo tornai da lui con quanto richiestomi e attesi circa una settimana prima di ritornarci per sapere qualcosa.
Mi ricevette molto cordialmente e mi disse:
="Sai, andrebbe tutto molto bene, però manca qualcosa"
="Cioè?"
="Non conosci un monsignore, un vescovo che possa farti una raccomandazione scritta da allegare..."
Lo interruppi, gli dissi che poteva restituirmi quello che avevo scritto e me ne andai piuttosto incavolato.
Decisi allora di mettere un annuncio di ricerca di lavoro sul quotidiano più diffuso di Roma nel quale avviso precisavo che, come dattilografo, avrei accettato di lavorare anche non in pianta stabile.
Il giorno dopo la pubblicazione di tale mia ricerca di lavoro ricevetti una telefonata e una voce femminile mi chiese:
="Scusi è lei che ha messo quell'annuncio sul giornale per un lavoro da dattilografo?"
="Sì, certo, mi dica"
="Ecco, io sono una scrittrice e vorrei sapere se lei può dattilografare sotto dettatura il testo di un mio libro di prossima pubblicazione"
="Certamente, mi dica che devo fare"
="Può venire oggi pomeriggio a casa mia così prendiamo gli opportuni accordi?"
="Va bene, mi dia per favore il suo indirizzo."
Ottenuto l'indirizzo e le relative istruzioni presi nota e mi preparai per questa nuova opportunità di lavoro.
La scrittrice abitava in una lussuosa zona residenziale di Roma, piuttosto lontana da dove abitavo io ma, servendomi di tram e bus, arrivai ugualmente a destinazione con circa quindici minuti di anticipo riguardo l'ora fissata per l'appuntamento.
Entrai nel portone ed un omone in divisa da custode mi chiese da chi dovevo andare, lui si assicurò del fatto tramite telefono interno, mi indicò l'ascensore e salii al terzo piano. Suonai al campanello della porta indicatami in precedenza e, dopo qualche attimo, mi venne ad aprire un cinquantenne, mingherlino, piuttosto scarso di capelli, con indosso una giacca avana, bottoni e spalline dorate. Sarà il maggiordomo pensai. Mi disse di attendere un attimo perché mi doveva annunciare alla signora.
Quando di lì a poco entrai dove presumibilmente avrei incontraro la scrittrice rimasi senza fiato.
Un enorme salone, grande quasi come l'atrio di una stazione ferroviaria, strapieno di poltrone e divani su uno dei quali era comodamente seduta una bella signora, ben attrezzata fisicamente, capelli rosso acceso, di un'età che non riuscivo a definire, profumatissima come se fosse uscita in quel momento da una vasca colma di Chanel n.5. Mi fece segno di avvicinarmi, m'invitò a sedermi ed iniziammo a fare reciproca conoscenza. Confesso che ero affascinato da quella signora, ma nello stesso tempo mi chiedevo quando si sarebbe cominciato a parlare del lavoro che dovevo fare. Ad un certo punto lei si alzò, andò verso una grande finestra che aveva i vetri aperti, si affacciò e mi chiese di andarle vicino poiché aveva qualcosa da farmi vedere giù in strada. Quando, un poco stordito dal profumo che emanava, mi misi accanto a lei, m'indicò un luogo poco distante e mi disse:
="Vede quell'edificio?"
="Sì, sì..."
="È l'Hotel du Soleil. Mi dovrebbe fare la cortesia di andare lì e dire all'addetto alla reception che stasera ho necessità di avere a mia disposizione una stanza matrimoniale..."
="Ma signora per quel lavoro che..."
="Non si preoccupi, oggi non sono in vena, cominceremo domani. Si scriva le mie generalità e vada per favore a prenotarmi una camera per questa sera."
Mezzo imbambolato, presi l'appunto, salutai il maggiordomo-mingherlino comparso improvviamente dal nulla il quale mi accompagnò alla porta e quindi uscii.
Nello scendere le scale cominciai a pensare a quello che era successo. Via via che camminavo verso l'Hotel mi posi alcune domande: perché non prenotava la camera via telefono? Perché non ci mandava il maggiordiomo-mingherlino? Perchè voleva che facessi io quella prenotazione? Mille ipotesi mi ballavano nella testa, ma presi subito una decisione: ridussi il biglietto con il nome della scrittrice in mille pezzettini e me ne tornai a casa. Lei non telefonò né quel giorno e neppure in seguito, io non ci tornai più.
Qualche tempo dopo mi chiamò un architetto conosciuto ai tempi del mio primo impiego, il quale aveva fatto il progetto e assunto la direzione dei lavori riguardo un edificio di civile abitazione di proprietà di una cooperativa. La costruzione doveva sorgere in una zona di Roma, nei pressi dell'EUR, su di un terreno tipo prateria, un po' acquitrinoso, con cavalli, mucche e pecore allo stato brado che pascolavano tranquillamente. La mia mansione consisteva nel dover andare nel cantiere
che si stava aprendo, tutti i giorni feriali, esclusi sabato e domenica, dalle otto del mattino fino alle diciassette del pomeriggio con un'ora di pausa per il pranzo e lì controllare che i lavori procedessero secondo il contratto d'appalto. Dissi all'architetto che io non ne sapevo nulla di lavori edilizi, ma lui mi tranquillizzò dicendomi che ogni giorno gli dovevo telefonare così lui mi poteva fornire tutte le indicazioni necessarie perchè i lavori procedessero secondo quanto stabilito nel contratto. Lui non poteva presenziare perché occupato in altre attività. Lavorai – per modo di dire – in quel cantiere dove vidi sorgere quell'edificio dalle fondamenta fino a quasi l'ultimazione delle rifiniture di tutti gli appartamenti. Poi il 15 dicembre 1956, leggendo una inserzione sul quotidiano di Roma, sempre quello della volta scorsa, trovai il mio impiego definitivo presso uno studio notarile.
Dopo circa sette infiniti anni l'avevo fatta finita con la disoccupazione.