lunedì 31 ottobre 2011

LORO NON CHIEDONO PERCHE'

Ed è più che comprensibile.
I nostri amici a quattro zampe, soprattutto cani e gatti, purtroppo non parlano. È vero, loro possono soltanto abbaiare o miagolare.
Perché noi umani riusciamo a capire quando vorrebbero chiederci spiegazioni circa i nostri atteggiamenti, i nostri richiami e anche le nostre e le loro necessità? Semplice, perché sono loro che ci fanno capire benissimo quello che vorrebbero.
Secondo me, avendo avuto animali in casa, soprattutto gatti e per lunghi periodi, una risposta che potrebbe urtare qualche suscettibilità è quella che sono molto intelligenti, a volte anche più di qualche umano.
Mi è capitato di vedere cani e gatti – quest'ultimi in verità in misura inferiore – ammaestrati
che compiono gesti oppure abbaiano o miagolano a comando come fossero esseri umani.
È qualcosa che mi ha dato sempre molto fastidio perchè ho notato nei loro sguardi un certo non so che simile ad una richiesta di spiegazioni, come se stessero chiedendo appunto "perchè mi obblighi a fare cose che non fanno parte del mio essere?". Ma questo loro non possono e non potranno mai dirlo.
Hanno atteggiamenti diversi anche verso persone dello stesso ambiente familiare – parlo dei gatti in particolare perché stanno sempre in casa salvo rarissime scappatelle fuori dalle quattro mura. Ne ho avuto conferma dalla Micia che è stata con noi parecchio tempo fa e per circa quindici anni.
Sorrido al pensiero di vedere qualcuno che avesse tentato di ammaestrarla: sarebbe stato costretto a rinunciarvi in quattro e quattr'otto.
Ricordo un piccolo particolare che ho dimenticato di raccontare quando ho scritto della Micia(post del 27 giugno 2011).
Quando tutte le sere mi sdraiavo su un divano nel soggiorno per vedere la TV lei si avvicinava, non saliva subito, mi faceva capire che stava lì accanto toccandomi un braccio con una delle sue zampette anteriori e quando finalmente mi decidevo a dirle "dai, vieni su", saltava su di me, si sdraiava col musetto rivolto verso lo schermo e faceva un piccolo sospiro. Un grazie forse?
Immobile fino a quando io non decidevo di alzarmi e andarmene a dormire salvo quando mi addormentavo durante qualsiasi tipo di trasmissione.
Vero che i cani hanno un briciolo di atteggiamento quasi umano in più e che, lo sento dire in giro, gli manca soltanto la parola e fanno più compagnia dei gatti.
Secondo me la ragione c'è ed è che il gatto è molto indipendente ed è molto più furbo.
Però proprio ieri riguardo i cani, ho assistito ad una scenetta davvero significativa.
In una strada vicino casa un bastardino di non so quanti incroci sta seduto davanti ad un portone semi-aperto, senza battere ciglio, col musetto teso verso lo stesso portone da dove dopo qualche attimo esce una signora piuttosto in carne la quale si mette a guardare il cane. Lui la fissa per un po' come chiedendo "e allora che si fa?" e lei risponde con un sorriso e dicendo "adesso andiamo". Al che il cane si alza sulle zampe posteriori e tende il cuo corpo verso la signora la quale lo accarezza a lungo e con tenerezza. Mi è parso di scorgere un sorriso sul muso del bastardino o forse l'ho voluto semplicemente immaginare.
Per concludere cani e gatti per me pari sono tanto che se avessi avuto balcone o terrazza in casa con me ci sarebbero stati almeno un cane ed un gatto.

giovedì 27 ottobre 2011

PE' FATTE BREVE ER DISCORSO - scritto nel luglio del 2009

Tempo fa morì un mio caro amico. Benché non coetanei c’eravamo conosciuti più di venti anni prima e avevamo legato quasi subito. Aveva circa novanta anni, era vedovo, padre di tre figli e nonno di un’infinità di nipoti. Le doti che mi avevano colpito in lui erano la sua sincerità e generosità non disgiunte da una modestia ed umiltà senza pari. Mi aveva confidato, senza provare alcuna vergogna – e perché mai avrebbe dovuto? - di aver frequentato le scuole fino alla quinta elementare e di aver smesso di studiare per andare a lavorare col padre e i fratelli. Del fatto di avere solo la licenza elementare sembrava per lui come se si trattasse di una bandiera da sventolare, ne era persino orgoglioso. Fosse stato un tipo da biglietto da visita lo avrebbe scritto pure su quello, come un titolo accademico o nobiliare. Questo perché – così affermava convinto – l’interruzione degli studi gli aveva consentito di imparare molti mestieri. Aveva veramente quello che si dice “le mani d’oro”. Ne ho avuto varie volte la prova perché sapeva fare di tutto o quasi: falegname, idraulico, meccanico – non d’auto però – muratore, pittore. Gli mancava l’elettricista, non sapeva fare nulla in quel settore né voleva saperne. Se gli capitava di dover unire due fili elettrici chiedeva aiuto a qualcuno. Io ho approfittato delle sue capacità nel senso che capitava spesso a casa qualche cosa che non funzionava o aveva smesso di funzionare. Gli telefonavo, gli spiegavo di che si trattava e lui, appena qualche minuto dopo, veniva a casa munito d’ogni genere d’attrezzi - qualcuno ne avevo anch’io ma lui preferiva usare i suoi - e sistemava con perizia ogni tipo di cosa da riparare. Se gli dicevo di dirmi che somma dovevo pagare lui si offendeva. Quando se ne tornava a casa, mentre ci salutavamo sulla porta, sprizzava gioia da tutte le parti. Molte volte mi chiedeva “ma nun c’hai qualche lavoretto da famme fa’?” E io per farlo contento giravo per casa e qualche cosa gli trovavo sempre da fare.
Romano da quattro o cinque generazioni era un antifascista vecchio stampo così come lo erano stati suo padre e i suoi fratelli. Gli piaceva parlare di politica, di cinema e di teatro. Sin dai primi tempi in cui avvenne la nostra conoscenza ci mettemmo d’accordo per vederci ogni settimana, almeno un’oretta “pe’scambiacce du’ chiacchiere” così diceva lui. Una volta a casa mia ed un’altra alla sua giacché abitavamo piuttosto vicini. Così di anno in anno, acciacco dopo acciacco, ci si sedeva uno di fronte l’altro a parlare e a ricordare. Quando parlava di politica, alla luce di quello cui assisteva riguardo malcostume, malgoverno e malavita s’infervorava a tal punto che cercavo in tutti in modi di calmarlo, con scarsi risultati però. Gli spuntavano persino le lacrime agli occhi dal dispiacere che provava e mi diceva “scusame ma quanno vedo e sento certe cose me vie’ da piagne a pensà a le lotte che avemo dovuto da fa’ pe’ vive in un paese co la democrazia e la libertà”. Mi raccontava spesso del periodo buio trascorso sotto il fascismo e di quando, nella seconda guerra mondiale, fu richiamato, inviato in alta Italia e pronto per andare sul fronte russo, ma l’8 settembre del ’43 fu per lui una fortuna perché fuggì e se ne ritornò a casa. Mi disse “io nun c’ho mai creduto a sta guera, me sai di’ che so’ morti a fa’ tutti quelli che so stati mannati al fronte? E i civili morti sotto le macerie pe’ corpa de li bombardamenti?” Altro argomento da lui preferito era lo spettacolo: cinema e teatro. Sin da giovanetto faceva parte di un gruppo che in cambio di qualche lira e del biglietto gratis per assistere ad uno spettacolo di riviste, all’avanspettacolo, a commedie ed anche ad operette, si dava da fare come claque applaudendo a comando. Aveva una memoria di ferro. Si rammentava attori, cantanti, soubrette del mondo dello spettacolo sin da quelli degli anni trenta, quaranta ecc. E qualche volta capitò persino che lui intonasse una canzoncina di quell’epoca. Quando attaccava questi argomenti lui non si frenava mai ed era perfettamente inutile cercare di “scambiare” con lui le “du chiacchiere” cui aveva fatto cenno.. Il suo scopo era quello di dimostrare l’amore e l’attaccamento a quei ricordi e mi sciorinava episodi e fatti d’ogni tipo. Il problema era quando partiva con un suo discorso. Io ogni tanto cercavo d’inserimi con qualche mio commento o ricordo e, malgrado anch’io parlassi delle stesse cose, lui seguitava a raccontare come se stesse vivendo in un’altra dimensione. Molto spesso capitava di ripetersi raccontando ciò che aveva già raccontato qualche tempo prima, ma bisognava comprenderlo. Ogni tanto si fermava come se volesse riepilogare quello che stava raccontando e, con l’intenzione di smettere per un po’, mi diceva “Pe' fatte breve er discorso”. Intendeva dire che non voleva dilungarsi ma in realtà continuava in tutta tranquillità. Io parlavo di un argomento e lui, imperterrito, girava lo sguardo verso un‘altra direzione come concentrato nella ricerca dei ricordi che voleva raccontarmi e seguitava con il suo di argomento aggiungendo anche “nun vojio esse' ripetitivo”. Invece lo era.
Parlavamo ognuno per conto proprio.
Praticamente in quelle occasioni io c’ero e non c’ero.
Ciao amico mio e grazie di tutto anche se non mi hai fatto mai “ BREVE ER DISCORSO”.

lunedì 24 ottobre 2011

SOGNO O SON DESTO?

Da un bel po' di tempo, credo almeno da quando sto seguendo una terapia piuttosto sostanziosa, mi succede una cosa particolare.
Dipenderà probabilmente dal numero di compresse – 12 (dodici) - che ingoio durante la giornata e tutti i giorni, per non parlare di uno sciroppo e dell'aerosol quando qualche volta mi viene un po' di tosse.
A parte la notte – mi prendo un sonnifero altrimenti hai voglia a contare pecore o a cantarmi la ninna nanna - alcune altre volte e ad ore diverse, mi viene a trovare Morfeo o meglio "Morpheus
tramite e traghettatore fra il mondo reale e quello dei sogni" (fonte wikipedia).
Infatti mi accade spesso o davanti al pc-Pasquale quando mi vedo qualche film anche se di mio gusto oppure dopo pranzato sdraiato sul divano-letto o all'ora del tè o se sto assistendo alla visione di TG e talk show politici o ancora dopo aver letto appena quattro-cinque pagine di un libro.
Non molti giorni fa, erano le undici di mattina, stavo appunto vedendo un film thriller tramite pc-Pasquale quando a metà del primo tempo si presenta d'improvviso Morfeo e, dopo qualche minuto, sbatto la capoccia penzoloni sulla mia tastiera-Flo.
Mi capita molto più spesso quando mi sdraio sul divano-letto perché allora mi addormento abbastanza profondamente sognando qualcosa che stavo facendo prima o il giorno precedente oppure chissà quando. Ad un certo punto mi sveglio e mi chiedo cosa avevo combinato o se ancora dovevo "combinare".
Addirittura mi è accaduto qualche volta, sempre appisolato, di sognare che sto mangiando o cercando di mangiare qualcosa che ho nel fantomatico piatto messo davanti a me. Spalanco persino la bocca e con la mano porto il cibo o chissà cosa davanti al mio muso ma mi sveglio subito per accorgermi che sto sognando e mi ritrovo con il braccio alzato e con tre dita della mano destra come se avessi un bocconcino da mettere in bocca.
Lo strano è che non faccio sogni, come dire "piccanti", ma soltanto cose di una noia terribile.
Dovrò presentare un reclamo ma a chi?
Mi sa che è meglio che mi faccio ricoverare.

giovedì 20 ottobre 2011

IL FURBASTRO

Tra la fine del 1949 e l'inizio del 1950 un commerciante romano in vista del Giubileo di quell'anno
pensò bene di ampliare il proprio negozio di abbigliamento aggiungendo, oltre al reparto femminile anche uno più piccolo per quello maschile. Aveva previsto, giustamente, che l'enorme afflusso di pellegrini e turisti a Roma, gli avrebbe consentito di fare ottimi guadagni e, per l'occasione, oltre alle due commesse che già lavoravano nel suo negozio, ne aveva assunto altre due, più giovani. Assunse anche un uomo pratico del ramo per il reparto maschile ed anche per agire come una sorta di direttore.
Il "direttore" assunto aveva trentadue anni, di statura media e di aspetto comune, non poteva effettivamente definirsi un bel ragazzo ma neppure brutto. Scapolo, sempre elegante, attirava soprattutto la clientela femminile poiché ciò che lo faceva apparire abbastanza piacevole era il suo carattere, il suo modo di agire e quello di essere oltre che un discreto parlatore anche un attento ascoltatore.
A volte si compiaceva del suo savoir faire quando soprattutto riusciva a raggiungere quanto si era prefisso.
Con il trascorrere dei giorni il proprietario si sentiva abbastanza soddisfatto di come procedevano le cose nel suo negozio sia dal punto di vista commerciale sia da quello della perfetta armonia che regnava tra il personale.
Il "direttore" se la cavava egregiamente nei rapporti con le colleghe sulle quali, quelle più giovani, una biondo-cenere e l'altra bruna, aveva già messo gli occhi.
Il problema era quello di quale scegliere per le "manovre di accerchiamento" poiché entrambe non avevano nessun pari età con il quale mantenere alcun tipo di rapporto, erano molto carine se non di più e apparentemente disponibili almeno per un primo approccio.
Studiò un piano, apparentemente molto semplice. Doveva accompagnarle alla loro casa, una alla volta naturalmente e quindi, prima qualche parolina per conoscere meglio i loro caratteri e le loro personalità poi man mano comprendere chi avrebbe gradito le sue avances. Lo scopo era quello di sapere chi delle due si sarebbe lasciata convincere ad avere con lui una relazione breve o di più lunga durata. Per questo, almeno per il momento, non si era posto il problema.
Come prima volta, una sera, dopo che erano usciti tutti dal lavoro si avvicinò alla bionda e, con molta circospezione, si autoinvitò per accompagnarla e si accorse che lei gradiva questo suo interessamento. Ripeterono la passeggiata insieme ancora altre volte e tutto procedeva abbastanza bene ma non come lui avrebbe desiderato. Sempre pregandola di mantenere il "segreto" seguitarono a vedersi frequentandosi però ancora platonicamente.
Lui allora decise di procedere con la bruna adottando lo stesso metodo. Volendo seguitare a vedere anche la bionda calendarizzò le serate in questa maniera: il lunedì assegnò il turno alla bionda mentre alla bruna assegnò quello del sabato.
Una sera, era un lunedi, aveva dato appuntamento alla bionda davanti ad un bar che frequentava tutte le volte in cui si incontrava con le sue due giovani colleghe, abbastanza lontano dal negozio in cui lavoravano, ma erano le 21 passate e la bionda non si vedeva. Dopo circa dieci minuti lei arrivò ma non era sola, insieme a lei c'era anche la bruna. Entrambe avevavo stampato sulla bocca un sorriso beffardo e, andandogli incontro, la bionda lo apostrofò così
= direttore dei miei stivali ti vogliamo dire in coro che sei uno sciocco presuntuoso e che hai commesso dei grossi errori uno dei quali è quello, piuttosto infantile, di usare le stesse identiche parole e le identiche frasi ad entrambe. È bastato raccontarci quello che ci hai detto allorquando ci vedevamo con te, sia pure a giornate alterne, per capire che credevi di fare il furbo con noi ma sei soltanto un maldestro furbastro. Buona nottata" e se ne andarono lasciandolo a bocca aperta.
La mattina del lunedi successivo lui telefonò al proprietario del negozio nel quale lavorava e gli disse che doveva partire quel giorno stesso per raggiungere il proprio fratello in Australia.

lunedì 17 ottobre 2011

COME LA BANDIERA DELLA PACE ARCOBALENO

Fino a una trentina d'anni fa il mio abbigliamento era costituito da vestiario ed anche calzature tutto della stessa tonalità di colore.

Ad esempio giacca e pantaloni marrone così come la cravatta, i calzini e le scarpe. Di colore bianco la camicia e gli indumenti intimi.

Così pure quando ero vestito di blu. Solo le scarpe erano nere.

Ero anche pignolo nell'osservare questa regola che poi si trattava soltanto della mia, credo.

Poi invece quella regola di una monotonia che non so bene come definire, ah ecco, forse mania, si è mutata in una regola esattamente opposta.

Per cui se qualcuno che mi conosce m'incontra per strada può pure far finta di non avermi mai visto e passare oltre, io non mi offendo.

Passo alla descrizione del mio abbigliamento quello che attualmente adotto in questo periodo autunno-inverno.

Inizio dalle scarpe che sono abbastanza strane anche se la marca geox è tra le migliori. Ci tengo moltissimo perché me le ha regalate uno dei miei fratelli.

Sono estive o invernali? Non lo so, io le porto sempre ai piedi (perché dove si dovrebbero portare

altrimenti? Ho detto una cavolata) e non mi fanno sentire né il caldo né il freddo. Il loro colore è "panza di cane che fugge" un incrocio tra l'avana e il marroncino chiaro e hanno una particolarità: la sinistra si comporta bene, la destra invece no (alludo? Forse). Quando le metto al mattino per uscire, con la sinistra vado benissimo mentre con la destra soffro (rialludo? Probabilmente).

I calzini sono o grigio-chiaro oppure blu scuro, a volte marroni, altre volte rossi, mai bianchi.

Uso soltanto jeans di colore celestino un po' indeciso anche se ne esistono di altri colori, come ad esempio le camicie che indosso sono variopinte mai bianche: a quadretti bioancocelesti, marrone chiaro, biancoverdi o di jeans completamente celesti.

Cravatte e papillon eliminate da un pezzo.

Pullover di cotone, fibra o lana sono sempre di colore, qualsiasi, a seconda dell'umore, mai bianchi o neri.

Indumenti intimi sempre bianchi.

Per finire, col sole uso cappellino con visiera buono per il baseball, blu, di cotone mentre se cala la temperatura allora coppola blu o grigia a quadretti.

L'abbinamento degli stessi colori non lo faccio più da tempo.

Qualche giorno fa mi son divertito a contare i colori del mio abbigliamento: qualche volta sono sette, quasi sempre sei come quelli della bandiera pace arcobaleno.

Un bel primato.


giovedì 13 ottobre 2011

HO CHIESTO PERMESSO

Malgrado abbia trovato tutto aperto ho chiesto ugualmente il permesso di poter entrare.

Poi appena mi sono avvicinato lui mi ha chiesto

= E te che vuoi?

= veramente sono venuto per una breve visita

= credi che non lo sappia?

= sono certo che lo sai però...

= non è ancora il tuo turno

= guarda che io non ho nessuna fretta...

= e allora?

= volevo parlare con i miei fratelli Giorgio e Pino

= so anche questo quindi?

= quindi vorrei parlare con loro

= non si può

= come mai?

= sono qui da poco tempo

= e che significa?

= significa che devono ancora ambientarsi

= mi puoi dire se si sono già visti e se stanno entrambi nello stesso posto?

= certo che si sono visti, sono sempre insieme e parlano, parlano a lungo

= potrei sapere di cosa?

= soprattutto di ricordi

= hanno incontrato...

= alt! Non posso dirti altro

= allora che faccio torno domani?

= no domani no, sta' tranquillo, è una decisione che ancora non è stata presa

= ma che fate mi avvertite?

= questo non si può fare

= e allora come faccio a saperlo?

= lo saprai al momento opportuno

= allora me ne vado, buongiorno...

= (e lui sorridendo) arrivederci

Gli squilli prolungati del telefono mi hanno svegliato di colpo.

Ma che razza di sogno ho fatto?

lunedì 10 ottobre 2011

SI LO SO DOVREI FARMI I FATTI MIEI PERO'

Ero in fila alla cassa di un supermercato vicino casa e proprio davanti a me c'era un giovane alto più di due metri, bello robusto, con uno zaino in mano, il quale doveva essere, nel sentirlo parlare, sicuramente dell'alta Italia,

Aveva acquistato una bibita e un panino col prosciutto e doveva pagare euro 5,35 – così ho letto nello scontrino che aveva ricevuto e per fare ciò aveva consegnato un biglietto da 20 euro.

Stava andandosene e nel frattempo la cassiera mi stava consegnando lo scontrino di mia pertinenza ammontante ad euro 4,95 che ho saldato con un biglietto da 5 euro ricevendo il resto di cinque centesimi.

Intanto il "due metri" aveva bloccato l'uscita dalla cassa rivolgendosi alla cassiera e affermando di aver pagato con 20 euro ma aveva ricevuto soltanto 4 euro e 65 centesimi, mancavano 10 euro.

La cassiera affermava il contrario.

Nacque così una discussione piuttosto animata ma ad un certo punto, chiedendo scusa se mi permettevo l'intrusione, affermai educatamente e con molto garbo che avevo notato la veridicità di quanto andava affermando il "due metri" e allora la cassiera, convinta anche da quello che le dicevo gli diede il resto giusto.

Notai che nel consegnargli un biglietto da 10 euro era diventata rossa in faccia come un pomodoro sanmarzano.

Mentre stavo uscendo dissi buongiorno ad entrambi ma non mi risposero. Era calato un silenzio piuttosto imbarazzante e nessuno dei due profferì parola.

Ciliegina sulla torta mi aveva assalito un dubbio: non ricordavo più se pagando avevo dato 5 o 10 euro.

Lasciai perdere, non sarei tornato dalla cassiera per assicurarmene neanche dietro minaccia.

martedì 4 ottobre 2011

UNA DOMENICA NON SOLTANTO AL MARE

Era la tarda estate del 1957.

Da circa un anno mi ero sposato ed ero dipendente di uno studio professionale al centro di Roma, vicino al Teatro dell'Opera.

Lo studio aveva parecchi clienti uno dei quali, forse il piùgrosso – non nel senso del fisico – era un industriale cinematografico e produttore di alcuni film, il quale era anche proprietario di numerosi cinema qui a Roma.

Avevo fatto una discreta amicizia con il suo amministratore-commercialista-segretario che nutriva per lo studio un'alta stima e considerazione. Credo anche per me.

A quel tempo avevo un amico, alto e robusto, poco più grande di me come età il quale era disoccupato e cercava disperatamente un lavoro.

Ne parlai con il segretario dell'industriale cinematografico il quale mi disse che ne avrebbe parlato con il suo principale.

Qualche giorno dopo mi telefonò e mi disse di mandare da lui quel mio amico.

In breve, vista l'ottima presenza, anche atletica, dell'amico disoccupato, egli venne assunto come direttore del cinema Induno situato nel Rione Tastevere più precisamente in Via di San Michele che. dopo Porta Portese fronteggiante l'Istituto San Michele ex riformatorio-carcere minorile e dopo anche il cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti e la Sala Troisi, arriva fino a Viale di Trastevere ex Viale del Re.

Proprio una domenica di quella estate del '57, io e mia moglie eravamo andati, in treno, al Lido di Ostia e al ritorno, scesi alla Stazione Ostiense, decidemmo di andare a quel cinema Induno per vedere un film famoso: "Il terzo uomo" con Orson Welles.

Naturalmente non pagammo il biglietto d'ingresso grazie a quel mio amico-direttore il quale ci accompagnò fino in sala.

Seduti in una delle ultime poltroncine cercammo di vedere il film. Dico "cercammo" perché dopo neppure un quarto d'ora, stanchi morti com'eravamo, ci addormentammo e fino all'inizio dell'ultimo spettacolo nessuno ci disturbò.

Ci svegliammo verso le ventuno circa completamente imbambolati.

Subito dopo uscimmo e incontrammo l'amico-direttore il quale ci chiese =vi è piaiuto il film?= e noi, in coro, avemmo la faccia tosta di rispondere =molto=.

Non ho più visto "Il terzo uomo".

(Questo ricordo si è riaffacciato nella mia mente e l'ho acchiappato di corsa prima del suo ritorno da dove era uscito).