venerdì 29 marzo 2013

E ALLORA DECISI DI RISPONDERE COSI' AD UN' AMICA

Mia cara,
inizio subito con l’assicurarti che sei fortunata e, aggiungo, lo è chi ti è vicino. Magari borbotti fra te e ti domandi: ma dov’è questa fortuna che io non vedo ed altri sì? Basta leggere attentamente, così come ho fatto io, la ricostruzione dettagliata della tua esistenza in questi anni. Ho quasi la certezza matematica che tu abbia scritto la tua lettera appena pervenutami così, di getto, senza fermarti un attimo e ti dico il perché. Sentivi dentro di te l’impeto di urlare al mondo intero: io sono questa persona. Ti rendi conto quale coraggio, forza d’animo, spirito libero ci vuole per dialogare così con un estraneo, anche se mi consideri tuo amico e di questo ti ringrazio. Un mare, una montagna, una prateria e non dire che esagero. Tu mi hai in sostanza dimostrato come si vive e si deve vivere una vita. Non dico “si dovrebbe” bada bene, dico “si deve”! Per questo adesso diventerò monotono usando sempre le stesse due parole alla fine d’ogni frase, ma non sottovalutarle.
Tutte le esperienze che hai vissuto, familiari, fanciullesche e adolescenziali, sono vita!
Quelle amorose, in parte intense, riuscite o dissoltesi in breve tempo, sono vita!
Quando hai creduto che valesse la pena coltivarle e invece ne sei rimasta delusa, sono vita!
Le vicende burrascose tra i tuoi genitori e tra loro e te, sono vita!
I bisticci, i litigi, chiamali come vuoi, con altri membri della tua famiglia, sono vita!
I periodi di depressione, di pianto, di urla, di parlare da sola, di non voler uscire da casa, sono vita!
Le tue ricerche dell’uomo che ti piace avere accanto, sono vita!
E poi, ultimando la tua storia così intensa aggiungi di aver “saltato tante cose, tante esperienze però in sostanza, questo è quanto basta per far capire che persona vorrei essere oggi”.
Ma ti rendi conto di aver descritto l’essenza vera della vita e tu ne sei la dimostrazione? La vita è questa, per chiunque di noi, ed è così che si vive, tra dolori, gioie, amarezze, delusioni, periodi belli, brutti o così così, felicità o infelicità, lacrime, risate, affetti, amicizie, amori e tanto altro ancora. Tutto questo lo vivi…VIVENDO! Dove, come, quando e con chi ti pare, altrimenti non è vita. Raccontandomi di te, nella bella e schietta maniera in cui l’hai fatto, mi hai onorato ancora una volta della tua amicizia e ti ringrazio per il bellissimo dono. Io pure ti ho detto molte cose, anche delicate, della mia vita, così come hai fatto tu, ma esiste una grossa differenza. Tu sei una giovane bella donna e hai parlato-scritto come se l’avessi fatto ad un confessore o ad uno psicologo, io invece sono un anziano della quarta età ed anche un po’ pedante. Sono certo che tu sappia benissimo quale differenza esiste tra una “donna vissuta” e una donna che ha vissuto appieno la sua fin qui giovane vita. Tu sei questa seconda persona. Mi auguro che tu non pensi di aver ascoltato-letto un predicozzo, sia pur breve. Ma un consiglio mi permetto di dartelo. Non ascoltare chi ti dice: “ma dài forza, non è poi così brutta la faccenda, devi essere più ottimista, vedrai che dopo passerà, verrà la volta buona che finalmente…; se fai così andrà meglio; sarebbe più opportuno che tu”…BALLE! Devi fregartene e continuare ad essere quella che sei stata ieri, quella che sei oggi e che spero sarai domani: tu stessa, così come sei.

lunedì 25 marzo 2013

UN'OFFERTA CHE NON POTEVO RIFIUTARE

Ed infatti non rifiutai.
Era il settembre del 1973 ed un mio amico che aveva il fratello gestore di un ristorante nei pressi del Ministero di Giustizia qui a Roma, in via Arenula, m'invitò a recarmi con lui in quel locale. Mi disse che a pranzo non era molto frequentato, ma la sera a cena e fino a notte inoltrata era frequentatissimo. Il mio amico mi convinse così ad andarci di sera perché tra l'altro a quell'ora era il fratello che cucinava, oltretutto meglio del cuoco titolare. La sala principale era strapiena mentre al piano superiore ci avevano riservato una piccola sala al centro della quale era posizionato un tavolo quadrato piuttosto grande con ai lati una dozzina di sedie. Quando noi arrivammo, erano circa le 21, dieci sedie erano già occupate da altrettanti uomini. Appena entrammo la loro conversazione si fermò. Il cuocogestorefratello del mio amico ci presentò e stringemmo la mano a tutti dicendo anche "piacere". Ci sedemmo pure noi scrutandoci nello stesso tempo. I già presenti all'atto del nostro arrivo ripresero la loro apparente innocua conversazione parlando del tempo, dei loro rispettivi impegni, poi uno di loro si rivolse a me chiedendomi su cosa avrei orientato la mia scelta. Io non sapendo cosa rispondere, anche perché non avevo capito che cosa intendeva dire con quelle parole, guardai il mio amico e lui mi fece segno con una sua mimica facciale che dovevo dare una risposta. Avrei voluto rispondere ma non sapevo di che scelta si trattava. Detti un'occhiata in giro e pensai, guardando i volti degli altri commensali, che iniziava per me a tirare una brutta aria. Volti tirati, sguardi inquisitori, atteggiamenti ostili. Ma dove ero capitato? Notai che il mio amico aveva iniziato a confabulare con uno dei commensali il quale, molto alto e capelli bianchi, sembrava essere l'uomo più imperante del gruppo, una specie di capo. Al termine del conciliabolo questi senza alzarsi, si schiarì la voce e disse al mio amico "adesso dì a tuo fratello che è giunta l'ora". L'ora per cosa mi sono domandato? Iniziai a preoccuparmi e non poco. Dopo neppure dieci minuti ecco spuntare dalle scale il fratello con due enormi piatti con tanto di coperchio d'acciaio formato cupola. Appena poggiati sul tavolo il capo guardò in faccia tutti i convenuti, scoperchiò lentamente i piatti e fu allora che si sparse per la saletta un profumo allettante di fritto misto di pesce. Sgranai gli occhi quasi fuori dalle orbite e vidi una quantità gigantesca di gamberetti, seppie, calamari, scampi, alicette, triglie ecc, insomma di numerose qualità di pesce di mare. Il capo con voce autorevole mi disse:
"Aldo oggi è il tuo compleanno e vogliamo festeggiare facendoti questa offerta che non puoi rifiutare" e tutti i commensali a sbellicarsi dalle risate. Tra di loro anche il mio amico il quale mi aveva teso questa piacevole trappola conoscendo la mia ingordigia per tale piatto. Non avevo mai visto quelle persone salvo il mio amico, ma da quel momento nominai anche loro amici per sempre. Quasi alle due dopo mezzanotte arrivò il momento del conto e si fece alla romana. Ognuno, bello satollo, pagò la sua quota. Io no, avevano diviso tra loro la mia quota. Forse perché non avevo rifiutato l'offerta che mi era stata fatta, anzi.
A mia memoria quella sera presi la seconda sbornia della mia vita e allora il mio amico, che evidentemente era meno sbronzo di me ed aveva l'auto, mi condusse a casa o meglio nelle vicinanze.
Il giorno dopo, fortunatamente era domenica, quando mi svegliai avevo un feroce mal di testa però mi ricordai che la notte prima,passando sotto i portici di Piazza Vittorio Emanuele, arrivai a casa che era poco distante, sbarellando da destra a sinistra e viceversa e, come se non bastasse, mollando un paio di pugni contro ogni tipo di saracinesca di locali fortunatamente chiusi a quell'ora.
Chissà perchè. Forse credevo così di cancellare dalla mente l'attrippata che avevo fatto.

venerdì 22 marzo 2013

UNA NOTTE CHE NON ERA TEMPESTOSA E BUIA ACCADDE CHE...

quasi a mezzanotte e mezza presi la decisione di andarmene a dormire, dato che ormai era pure arrivata l’ora di farlo. Espletai le mie solite operazioni, sempre quelle da secula e seculorum, e mi presi la mia brava pilloletta che mi aveva sempre aiutato a cadere nelle braccia di Morfeo. Infilatomi sotto le lenzuola nel mio bel lettuccio mi preparai ben bene assumendo sempre la solita posizione: voltato sul fianco destro, la manina destra poggiata tra il mento e la guancia pure destra, un bel respiro e pronto per il giusto sonno.
Il tempo trascorreva, ma io non facevo altro che girarmi continuamente nel letto. C’era qualcosa che prima di coricarmi avrei dovuto fare e non ricordavo d’averla fatta. Ma cosa?Decisi di alzarmi per vedere se riuscivo a ricordarmi quello che avevo dimenticato di fare. Niente. Risposte non ne arrivavano. Aspettai un altro po’, presi anche un libro, lessi qualche pagina e quando sentii che le palpebre mi facevano pupi pupi –Camilleri docet– m’infilai di corsa nel letto. Naturalmente cominciai pure a contare le pecore, ma arrivato a 327 mi fermai visto che il trucco non funzionava. Mi canticchiai allora, a bocca chiusa, una tenera ninna nanna che avevo adoperato molti anni prima per le mie nipotine, ma di sonno neppure un piccolo segnale. Cominciai a pormi delle domande. C’era qualche motivo d’eccessiva preoccupazione che mi tormentava? Non mi sembrava, almeno quella notte. Morfeo si era stancato di tenermi tra le sue braccia e voleva scaricarmi su quelle di Oniro? Forse, ma io che c’entravo? Loro dovevano provvedere, che facessero pure.Mi rialzai, accesi una piccola luce e cercai di fare mente locale per capire quale accidenti di mossa avevo in programma e che invece avevo dimenticato. Ripassai mentalmente i movimenti che facevo da sempre tutte le sere prima di coricarmi, ma non mi rendevo conto di cosa potevo aver trascurato. Ero certo d’aver fatto tutto. Presi allora una decisione. Avevo da parte, pronta per qualsiasi evenienza, una medicina che si prendeva a gocce – non più di dieci – insieme a pochissima acqua. Visto come stava andando la faccenda ne presi quindici e forse qualcuna in più. Spensi la luce, mi coricai di nuovo e attesi pazientemente. Detti un’occhiata all’orologio e mi spaventai: s’erano fatte quasi le tre del mattino e di dormire neppure a parlarne. Mi arresi, accesi il televisore tenendo l’audio spento, feci un po’ di zapping qua e là per le varie TV ma mi accorsi che tra televendite, film horror, film di fantasciènza e programmi simili mi stavo innervosendo troppo. Lasciai perdere. Inforcai la cyclette che si trova nella stanza dove dormo–quando ci riesco– e cominciai a pedalare, ma le gambe, dopo poco tempo cominciarono a farmi pasquale pasquale. Lo so che il nome è un altro, ma in quel momento non lo ricordavo. Allora accesi la piccola luce, mi misi davanti al pc, questo sì battezzato Pasquale, parlai un po’ con lui, ci litigai anche perché le dita sulla tastiera andavano dove a loro piaceva andare e non sui tasti che intendevo io e, stremato, attesi l’alba che si presentò verso le sei a.m. abbondanti.
Stavo accingendomi a fare le quotidiane operazioni mattutine quando improvvisamente mi si fece luce nella mente.
Ogni sera prima di andare a letto controllavo sempre se i rubinetti del gas erano stati chiusi e quella sera non l’avevo fatto.
Mi precipitai in cucina e…erano SPENTI, l'avevo chiusi!
Quel giorno dormii ininterrottamente fino all’indomani mattina.

martedì 19 marzo 2013

E' DIFFICILE DIMENTICARLA


A volte ci sono ricordi che improvvisamente, senza un motivo particolare, ti tornano in mente e allora cerchi di riandare indietro nel tempo per poterne rammentare il più possibile.
Uno di questi ricordi riguarda la mia gatta che in casa chiamavamo molto semplicemente MICIA.
Su questo nome in realtà c'era stata una piccola disputa in famiglia. Mia moglie voleva darle uno che piaceva a lei, mio figlio un altro ed io un altro ancora ma poi alla fine firmammo un accordo e quindi all'unanimità decidemmo di chiamarla MICIA. Per un elefante non sarebbe stato adatto ma per una gatta sì.
Il suo anno di nascita è stato senz'altro il 1971 poiché proprio nelle vacanze scolastiche di quell'anno che mio figlio dodicenne le fece fare il suo ingresso in casa. In realtà era un suo compagno di classe che teneva MICIA in una mano. Io ero al lavoro e quindi non c'ero ma mia moglie, per accontentare il pargolo, dette il suo benestare. Quando rientrai la sera vidi gironzolare per casa una specie di topo peloso e dissi "questo coso da dove è uscito?" Allora giunse la risposta all'interrogativo. Mio figlio e il suo amico recandosi come ogni giorno al vicino Parco del Colle Oppio avevano sentito alcuni lievi miagolii che provenivano da una minuscola grotta ricavata, non si sa da chi, in una delle antichissime mura della Domus Aurea di Nerone, nei pressi del Colosseo. L'amico introdusse le braccia nella grotta – praticamente un buco – e le ritrasse con nelle mani due gattini piccolissimi, un maschio ed una femmina. Lui, evidentemente pratico, ne indicò il rispettivo sesso. Mio figlio si innamorò della femmina che quindi approdò in casa nostra. Anche lei una vera Monticiana essendo nata nel Rione I – Monti di Roma a qualche centinaio di metri da via della Polveriera. Poiché anch'io voglio molto bene ai gatti – ne ho avuto una in casa quando ero giovanottello – mi rimisi alla volontà della maggioranza composta da mia moglie, da mio figlio e da MICIA, la quale, interpellata, votò anche lei favorevolmente esprimendo per di più il suo compiacimento per essere entrata a far parte della nostra famiglia a pieno titolo. Dimostrò abbastanza in fretta i lati del suo carattere, attaccata soltanto a noi tre. Se si presentava chiunque altro anche se parente vicino o lontano non le importava, soffiava e mostrava i denti aguzzi. Capitò che un anno noi andammo in vacanza al mare e allora, per accudirla, consegnammo le chiavi di casa alla portinaia e la pregai di passare ogni giorno per le necessità di MICIA. Quando tornammo lei, la portinaia, ci disse che era stato un problema accudire quella "tigre" ogni volta che entrava in casa. Soltanto nei periodi in cui sentiva la mancanza di un "fidanzato", non importa se ufficiale o meno, lei amava "abbracciare" letteralmente le gambe di chiunque le capitava a tiro, amici, parenti etc.
Gli atteggiamenti di MICIA verso noi tre erano i seguenti: le piaceva intraprendere finte "battaglie" con mio figlio saltando da una parete all'altra di casa con tanto di graffi e finti morsi; quando aveva fame andava a strofinarsi alle gambe di mia moglie la quale non le faceva mancare niente, anche bistecche, pollo e prosciutto; quando doveva fare un pisolino veniva da me e si accoccolava sul mio petto, se ero sdraiato sul divano a vedere la TV oppure, se ero davanti la scrivania, gradiva molto il fatto di potersi stendere languidamente sul piano della scrivania stessa magari guardando quello che ero intento a fare. Un particolare curioso: quando aveva sete amava saltare sul lavello e, assecondata da mia moglie, bere dal rubinetto. Forse avrebbe voluto anche lei un bicchiere personale. Nel mese di dicembre del 1984, un anno dopo il matrimonio di mio figlio, MICIA, sofferente già da tempo malgrado le cure continue di un veterinario, ci dette il dispiacere di lasciarci per sempre. Fu un grande dolore soprattutto per mio figlio il quale, carezzandola, l'avvolse in un panno, la mise dentro una scatola di scarpe ben sigillata e andò a seppellirla in aperta campagna, all'estrema periferia di Roma, poco distante la casa dove risiedevano lui e sua moglie. Ogni tanto andava a salutarla e una volta, passando insieme vicino quel luogo, mi volle indicare il posto preciso dove MICIA riposava.
Non mi è dispiaciuto, m'è sembrato il posto ideale per una "tigre".







sabato 16 marzo 2013

IL SAGGIO DI FINE ANNO

A maggio del 1981, circa due mesi prima della fine dell’anno scolastico, mia cognata – moglie del terzo di noi quattro fratelli, insegnante elementare – mi telefonò chiedendomi se potevo andare alla scuola privata dove lei insegnava a dare una mano ai ragazzi della quinta elementare la cui insegnante, oltre che essere sua collega, era anche sua amica. L’intera classe desiderava presentare, come saggio di fine anno, un piccolo spettacolo teatrale.
Naturalmente mia cognata sapeva che tanto in gioventù quanto in seguito io avevo fatto teatro - benintéso a livello amatoriale – e quindi, secondo lei, avrei potuto aiutare quei ragazzi. Mi precisò che potevo farlo nelle ore pomeridiane, in quanto tutti loro si trattenevano a scuola fino alle 16.30, e pertanto anche per me non c’erano problemi, dato che in quel periodo lavoravo part time. Accettai di buon grado e assicurai che l’indomani mi sarei recato in questa sua scuola. Così, alle 14.00 del giorno successivo, avvenne il primo incontro con gli aspiranti attori. L’insegnante, una giovane graziosa signora, mi accolse molto cordialmente e mi presentò uno ad uno tutti i suoi alunni, ventidue tra maschi e femmine. M’informò che i ragazzi, per il saggio di fine anno, avevano già iniziato a preparare qualcosa e mi chiese, quando mi fu precisato quello che volevano rappresentare, quale fosse la mia opinione. Li chiamai a raccolta intorno a me per farmi raccontare qualche dettaglio in più. Tutti si precipitarono a dirmi qualcosa, ma notai che uno se ne stava tutto solo e taciturno seduto in un angolo dell’aula. Gli domandai perché se ne stava seduto in disparte, lui alzò le spalle e mormorò qualcosa che non compresi. L’insegnante mi informò che era un tipo un po’ scontroso e timido e che preferiva non partecipare a questa iniziativa. Quello che avevano cominciato ad abbozzare era una specie di favola con tanto di re, principessa, principe azzurro ed altri personaggi ma che si limitava - come numero di partecipanti - a dodici o tredici interpreti. E gli altri, chiesi loro? Mah! C’era chi voleva fare un personaggio e chi un altro, chi preferiva stare a guardare e chi invece avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa. Intanto l’insegnante, seduta accanto a me, mi esponeva sottovoce quali erano i tratti caratteriali di ciascuno di loro e, facendoci reciprocamente un cenno d’intesa, con il suo permesso, concessomi quasi con entusiasmo, presi in mano la situazione. Consigliai a tutti di cercare qualche altra storia da rappresentare giacché quella favola poteva andare bene per i bambini dell’asilo o della prima elementare e non per dei ragazzi ormai grandi come loro. Tentavo in questo modo di spronarli a pensare a qualcosa di più attuale e il più realistico possibile, anche perché mi stava frullando in testa un’idea e volevo pian piano portarli alla mia stessa conclusione. Furono fatte delle proposte troppo vaghe e neppure tanto semplici da realizzare che furono subito accantonate anche da loro stessi. Pian piano, gettando nella discussione in atto qualche frase che potesse avvicinarli a quello che m’era venuto in mente, all’unanimità fu deciso di “mettere in scena” un processo come quelli visti al cinema o in TV, italianizzando il modello americano. Sembrava quasi si fosse scatenato in loro chissà cosa perché piovvero idee, proposte e suggerimenti d’ogni genere. Io, e l’insegnante con me, li lasciammo sbizzarrire nel loro crescente interesse per lo spettacolo che si stava delineando, proponendo anche noi qualche piccolo consiglio. Dopo più di due ore buttammo giù, tutti insieme, l’intera trama e la suddivisione dei personaggi. C’era un Vostro Onore, un cancelliere, un assistente che annunciava l’ingresso della Corte, la giuria composta di dodici membri, un avvocato difensore e uno della pubblica accusa, tre testimoni, l’imputato e la vittima. Si doveva quindi passare a chi poteva interpretare l’uno o l’altro dei vari personaggi. Nel frattempo avevo notato che anche il ragazzo taciturno, timido e scontroso s’era unito al gruppo e mostrava interesse anche lui per quello che si stava preparando. Nonostante l’avvicinarsi dell’ora d’uscita dalla scuola, nessuno dei ragazzi voleva smettere. L’insegnante ed io dicemmo loro che era opportuno fare una pausa di riflessione, tanto ci saremmo rivisti il giorno dopo e tutti i giorni a venire fino a quello ultimo del loro anno scolastico.
Il pomeriggio dell’indomani, quando entrai nella classe dei futuri “attori” sembrava fosse scoppiato il finimondo. Tutti che volevano interpretare chi un personaggio chi un altro. Oltre che commediografi si erano auto proclamati anche registi. Imponemmo un po’ di calma e di silenzio e ci accingemmo a quel difficile compito. Feci una premessa dicendo loro che ero io a dover decidere chi poteva interpretare uno qualunque dei personaggi, che le prove che dovevamo fare servivano anche a questo: accertare chi poteva essere il tale o il talaltro e che loro dovevano limitarsi soltanto a suggerire eventuali battute da inserire nel testo che stavamo scrivendo insieme. Qualcuno assicurò che, pur non svelando la trama, ne avevano parlato con i genitori e addirittura ottenuto, da chi era figlio di avvocato o di magistrato, il prestito delle loro toghe. Insomma man mano che passavano i giorni, il lavoro si faceva sempre più intenso e tutti parevano elettrizzati. Per la verità anche l’insegnante ed io ci stavamo facendo trascinare dall’entusiasmo di quei ragazzi. Lo spettacolo si sarebbe svolto nel cortile della scuola, all’aperto, considerato l’avvicinarsi del caldo estivo. Per questo motivo parlai con un mio amico dirigente del centro per anziani da me frequentato e mi feci prestare, sia per la prova generale sia per il giorno fatidico, quattro microfoni, altrettante potenti casse acustiche e l’apparecchiatura necessaria per l’amplificazione delle voci. Usammo le cattedre di tre classi della scuola per il Vostro Onore e per gli avvocati d’accusa e difesa. I banchi scolastici furono usati per la giuria, la sedia dell’insegnante per l’imputato, più altre sedie per i testimoni. Per la scenografia non avevamo bisogno d’altro. Non c’erano strumenti musicali nonostante fosse stato deciso d’alternare le battute con alcuni ritornelli di canzoni in voga cantati dai soli giurati, come se facessero parte di un coro greco, ma non importava, ci pensava la giuria a cantare a squarciagola. In sintesi la trama consisteva nel processo ad una moglie che era stata accusata di aver fatto sparire il marito con l’aiuto di qualcuno per riscuotere un sostanzioso premio assicurativo. C’era soltanto una cosa che mi preoccupava ed era che l’interprete che avevo scelto per il personaggio di Vostro Onore aveva il perfetto fisico del ruolo ma, purtroppo, continuava sempre a dirmi che non se la sentiva di fare in pubblico quello che faceva durante le prove. Si vergognava e aveva paura d’impappinarsi e di rovinare tutto. Un paio di giorni prima del debutto, sentendo il parere degli attori e dell’insegnante, li informai che avrei interpretato io il Vostro Onore, mentre il ragazzo che avrebbe dovuto farlo lo nominai Giudice a latere. La prova generale non andò troppo bene, i ragazzi erano troppo agitati. Il giorno del debutto notammo che la platea, chiamiamola così, era stracolma di genitori, parenti, amici, alunni e insegnanti della scuola. Dissi ai ragazzi qualche parola d’incitamento e loro mi dissero, quasi in coro, che io sarei stato molto d’aiuto stando sul proscenio insieme con loro: avevano una guida. Nei fui molto contento. Lo spettacolo andò abbastanza bene, la gente in “sala” applaudì spesso e noi alla fine ringraziammo il pubblico cantando un motivetto del quale ricordo ancora le parole, la parodia di una canzone del 1948-49"Ahi ahi Maria de Bahia” che era stata usata come finale in uno spettacolo di varietà al quale avevo partecipato anni prima:
Carissime signore gentili spettatori
Or la buonasera a voi porgono gli attori
La rivista terminiam ed a casa ce ne andiam ora noi vi salutiam
Un saluto è questo arrivederci presto
Esci a cuor contento e non essere più mesto
Ciao ciao spettator ti salutano gli attor viva ognora il varietà (ripetuta una seconda volta sottovoce) e, per finire
Il… va…rie…(bum!)…tàaaa ( quasi urlando).
Gli applausi scrosciarono. Noi tutti, ragazzi, l’insegnante e io ci abbracciammo commossi, più volte. Loro sapevano che avrebbero lasciato quella scuola e la loro insegnante per proseguire gli studi presso altre scuole. Fui persino avvicinato da uno del pubblico, parente non so di chi, il quale con una telecamera sulle spalle mi disse di aver ripreso tutto lo spettacolo e voleva sapere se poteva mandare in onda quella cassetta in una TV locale di cui lui era uno dei dirigenti. Lo dissuasi e lo pregai di non farlo per vari motivi. Al momento dei saluti i ragazzi, con l’insegnante in testa mi fecero commuovere ancora di più per la loro gratitudine. Chissà se ci saremmo rivisti e quando. Dimenticavo: il processo terminò con l’assoluzione dell’imputata in quanto al momento della sentenza riapparve la vittima, vale a dire il marito il quale, soffrendo di sonnambulismo, si era perso per le vie, i vicoli e le piazze della sua città ed era stato ritrovato addirittura in un’altra città.

martedì 12 marzo 2013

DOMENICA MATTINA AL COMMISSARIATO

= Permesso?
=(senza togliere gli occhi dal computer) Si?…
=(tirando con le mani una valigia con le rotelle si siede ) Grazie commissa'
=(sgranando gli occhi) E lei chi è?
= Vincenzo Lo Zippo
=A lei chi l’ha fatta entrare?
=A chi?
=Come a chi? A lei, io sto parlando con lei
=Ah! Lei sarei io? Scusatemi ma voi chi siete?
=Mi vuole prendere per fesso? Sulla porta che c’è scritto?
=Io non leggo
=Perché chi glielo vieta?
=(imbarazzato) ... è che…non ci vedo e...
=Ah! Non ci vede (a voce alta, chiama) Di Falcoo…
=Non c’è. È uscito a prendersi un caffè qui al bar
=E lei che ne sa?
=Io sono entrato perché lui è uscito
=Ah! Si? E allora Persichinii…
=Non c'è nemmeno lei. Sono andati insieme a prendersi il caffè
=Senta., adesso mi sono stancato, lei mi fa il favore di uscire da quella porta e attendere …
=E no, non è possibile
=Come sarebbe a dire?
=Non è così che funziona. Voi siete ancora giovane e certe cose ancora non le conoscete. Io qui ci sono venuto, non mi ci hanno portato…
=Senti adesso mi hai scocciato, capito? Statte zitto e non aprire bocca finché…
=No scusate qui voi vi sbagliate. E sì, io sono entrato soltanto per la consegna di alcune cose…
=Allora appena loro se ne sono andati ti sei intrufolato nella mia stanza. Potevi avere anche delle brutte intenzioni
=Ma quando mai dottore. Io mi sono presentato ufficialmente a quei due agenti. Ci siamo stretti la mano, tutto secondo la buona educazione
=Si, si, va bene, poche chiacchiere, veniamo a noi due. Tu chi sei?
=Ve l’ho detto prima. Mi chiamo Vincenzo Lo Zippo, fu e fu…non lo so perché non li ho mai conosciuti
=Fammi vedere un tuo documento di riconoscimento
=Non ne tengo
=Non hai nessun documento?
=No. Veramente una volta lo tenevo ma poi, non so dirvi il perché…be’ insomma non ce l’ho più, attualmente sono sprovvisto…
=Ma ti rendi conto? Io devo averle le tue generalità perché prima mi dici chi sei e poi che cosa sei venuto a fare. Avanti dimmi nome, cognome, dove sei nato e quando, dove abiti e via di seguito. Io faccio controllare tutto e in pochi minuti ci sbrighiamo
=Dotto’ e aspettate, una cosa per volta. Così ci facciamo venire l’ansia
=Non ho tempo da perdere. Allora come ti chiami? Bisogna metterlo per iscritto
=Vincenzo
= E il cognome?
=Chiamato Lo Zippo
= Chiamato? E da chi? Ma non è il tuo cognome?
=Su questo non ci posso giurare ma tutti quelli che mi conoscono mi chiamano così. Sono più di 50 anni che…
= Va bene, andiamo avanti. Lo Zippo tutto attaccato o staccato?
=Come volete. Mi chiamano così per via dello zippo
=Che sarebbe ‘sto zippo?
=Vedete dotto’, io sono uno specializzato nel ramo…
= Specializzato in che senso? Lavori in qualche fabbrica di questi cosi…di questi zippi
=Ma quando mai. Li zippi sono quei cosi che si aprono e chiudono con uno strappo. Sapete dotto’ stanno nei calzoni, nelle gonne, nei giubbetti, nei vestiti, nelle borse, sì specialmente nelle borse…
=Ah! stai parlando delle chiusure lampo, dello zip…
=E io che ho detto? Di quello parlavo…
=E tu sei specializzato nel fare cosa?
=Sapete apro le borse ma... beh’...non le richiudo perché ci vuole un sacco di tempo e poi fanno rumore…
=Ah! Sì? Credo d’aver capito chi sei e che fai…(a voce alta) Di Falco…Persichini…
=E no, dotto’, che fate?
=Che faccio? Ti faccio sbattere in camera di sicurezza in attesa di accertamenti
=No dottore no, non lo potete fare…
=Chee? Perché non lo posso fare?
=E’ una cosa un po’ complicata e riguarda solo voi. Sarebbe molto meglio che…
=Quello che è meglio lo decido io. Va bene sentiamo quest’altra balla…
=No dotto’ qui non ci stanno balle È una cosa che devo dire solo a voi
=Lo Zippo, la pazienza ha un limite. Per sapere qualcosa ci vuole tanto tempo?
=Questo ancora non lo sappiamo
=Io lo so. Allora, siamo soli, che cosa mi devi dire
=La porta è chiusa? Ci sente qualcuno?
=Ahò, Lo Zippo, e adesso basta, mi sono scocciato. Vai avanti oppure chiudiamo qui e chi s’è visto s’è visto
=Vabbé. Voi però mi dovete giurare che eventualmente, sottolineo eventualmente, se andiamo in tribunale
=Sentimi bene “se andiamo”. Qui se c’è qualcuno che va in tribunale quello sei tu
=Ancora non si può sapere. Posso andare avanti con quello che devo dirvi?
=Sì, sì procedi pure ma alla svelta
=Volevo dirvi che se si va in tribunale possiamo chiedere il rito abbreviato così risparmiamo…
=Ma di che stai parlando? Il rito abbreviato o quello allungato non lo decido io ci pensano i magistrati
=Ah questo lo so, però se siamo d’accordo…
=Sentimi bene Zippo, Lo Zuppo, Lo Zeppo o come diavolo ti chiami, o ti decidi a dirmi quello che devi dire oppure te ne vai dritto dritto in una stanzetta qui sotto senza comfort
=(sospirando) E va bene. Dunque. Voi siete proprio il commissario Sergio Montani?
=Beh e con questo?
=No, voi dovete solo rispondere si o no...'
=Ma perché? Sono io quello che deve essere interrogato?
= No però io mi sto solo accertando…
= (infuriato) Di che cosa? Gli accertamenti li faccio io e non tu, ci siamo capiti?
=Dotto’ state calmo che se vi agitate non si sa mai quello che vi può capitare
=E no, io so benissimo quello che capiterà a te fra un nanosecondo
=Ah e questo non lo sapevo. E chi sarebbe il nano primo?
=(urlando) Vai avanti altrimenti...(vedendo Lo Zippo che si è alzato in piedi con le mani alzate) =Che fai?
=Io? Beh, non oppongo resistenza
=(guardandolo torvo, a denti stretti) Seguita prima che commetta qualche sciocchezza
=(come se niente fosse, si risiede calmo e pacifico) Allora come vi dicevo.Voi siete il commissario Montani e abitate in Via Allegretti 40, scala unica, quarto piano, interno undici?
=(sbalordito) E tu come fai a saperlo? Parla per la miseria, parla
=Vedete? Lo sapevo che la cosa v'incuriosiva
=Ti vuoi sbrigare?
=Vengo per l’appunto da casa vostra…Non c’era nessuno
=Lo credo, io sto qui, mia moglie e i miei figli sono andati da mia madre e la domestica oggi è di riposo
=Appunto, perché io, caro dottore, ho suonato il campanello cinque volte e nessuno mi ha aperto
=Ma il portiere non ti ha chiesto niente?
=Il portiere non era al suo posto
=E allora?…
=Allora sono salito. Come vi ripeto ho suonato cinque volte il campanello nessuno m’ha aperto la porta e…beh, allora io sono entrato e…
=E come hai fatto senza chiavi? Ma che la porta era aperta?
=Ma quale aperta era chiusissima. Il fatto è che la serratura è una vera schifezza, quella appena uno dice bongiorno prende, si apre e dice pure accomodatevi
=Ma se l’ho fatta mettere da poco tempo
=Sentite a me. Vi hanno fatto fesso. Comunque se avete bisogno di una persona che di serrature se ne intende vi mando un mio vecchio amico che vi monta sulla porta un mucchio di congegni di sicurezza che se per caso qualche volta voi o vostra moglie vi dimenticate le chiavi non riuscite ad entrare in casa vostra neppure col bazooka, altro che pompieri
=Lo Zì', cerca di piantarla, ti sei intrufolato in casa mia e adesso ti metti pure a darmi consigli. Vai avanti
=Io lo dicevo per il vostro bene. Comunque sempre a vostra disposizione. Appena sono entrato mi sono ricreato. Mi sono detto: questa sì che è ‘na bella casa, lussuosa, piena di tanta bella robba, tanti grandi e piccoli gingilli di valore esposti così, alla bell’aria, come in una gioielleria e tutti che mi dicevano:”ecco qua guarda come siamo belli”
=Quella è una mania di mia moglie. Sono tutti ricordi dei suoi genitori, nonni, bisnonni, avi, non sa neppure lei a quante generazioni risalgono. Gliel’ho detto milioni di volte “mettiamoli al sicuro”, niente a lei piace vederli tutti i giorni. Li spolvera, li lucida, li rimira, manca poco che se li coccoli
=Ma ha ragione. Se mi permettete debbo dare mille volte ragione alla sua signora. Io pure appena ho visto quella grazia di Dio ho fatto un salto. È stato come quando uno vince il primo premio alla lotteria di capodanno. Intendiamoci a me non m’è mai capitato però dev’essere così. Ho fatto un giro per vedere se c’erano altre cose
=In casa mia?
=E certo, stavo sempre in casa vostra. Ho trovato una valigia, ecco, vedete? È questa qua con le rotelle…
=Già quella è mia
=Dopo ne parliamo. Mettetevi a sedere
=Ma…(quasi inebetito non si ribella, come affascinato dal racconto dell’intruso in casa sua)
=Sono andato in cerca di altre valigie e non ne ho trovate. Scusate ma voi avete solo una valigia ?
=(risponde meccanicamente) Le altre stanno in cantina
=Se lo sapevo. Perché vedete, c’era un lampadario in camera da pranzo, mmm, le settebellezze, mi è sembrato d’oro, sicuramente è bagnato d’oro. Pensate un po’:dieci braccia lunghe e dieci belle lampade. Solo troppo grosso. Ci ho pensato un bel po’ come trasportarlo e poi…(sospirando) ci ho dovuto rinunciare
=(come se prendesse parte allo sconforto) Beh certo che…
=Mi sono detto vabbé sarà per un’altra volta. Ho trovato qualche altra cosetta: un paio d’orologi, poi vedremo se valgono o no, una parte di un bel servizio di argenteria, insomma tutto quello che ho potuto far entrare in questa vostra valigia (seguitando nel racconto delle sue gesta mentre il commissario sembra caduto in trance) Poi sono uscito da casa vostra, ho chiuso bene bene la porta, me ne sono assicurato. Eh sì, ci mancherebbe pure che qualche intruso entrasse senza il vostro permesso. Ho chiamato l’ascensore.., cioè non è che l’ho chiamato perché quello mica parla e sente, ho spinto il bottone, ci sono entrato e...qui so’ uscite fuori le complicazioni. Tutto è andato a farsi fotte...scusate dottò’. In primis quel corn…d’ascensore s’è bloccato a metà tra primo piano e pianterreno, in secundis ho spinto tutti i bottoni di questo coso ascensoriale e lui fermo immobile cadavere è diventato, in terzis ho dovuto gridare aiuto, in quartis s’è fatto vivo il portiere- che antipatico che è. Ha cominciato a fare un sacco di domande: “lei chi è, che vuole, dove va, da dove viene...” e che sarebbe. ”Respirate ” gli ho detto io. Sentite a me dotto’…quello, chissà che mestiere faceva da giovane, è meglio licenziarlo dal condominio. Vi mando io un amico mio che fa proprio al caso vostro. In quintis mi è venuta l’idea e così gli ho detto che dovevo consegnare all’interno undici questa valigia. Si, sì proprio questa vostra, ma che non ho trovato nessuno e allora lui bello bello mi ha detto che ve la potevo portare qui al vostro commissariato dato che voi eravate proprio il signor commissario tal dei tali. Ecco perché vi conosco. Sono dovuto venire qui perché il portiere è diventato testimone oculare nel senso che m’ha visto in faccia. Adesso però non m’interrompete per favore. Ecco le complicazioni. Mi spiego. Tutte queste cose storte da dove sono nate? Ve lo dico io: in primis dal fatto che quando sono entrato nel portone di casa vostra il portiere era assente. Io la prima causa la farei a lui perché vedendomi mi avrebbe dovuto domandare, questa volta giustamente, “lei chi è, che vuole, dove va, ecc” perché allora io mi sarei fermato e me ne sarei tornato per i fatti miei. In secundis la serratura di casa vostra come ho già fatto presente fa schifo quindi se avete un’assicurazione io farei la seconda causa alla ditta. In terzis l’ascensore s’è guastato e allora farei una terza causa a chi ci ha la manutenzione. Se volete cambiare l’addetto io tengo un amico mio che queste faccende sa come sistemarle. In quartis, l’amministratore del condominio che ci sta a fare? Se lo dovete cambiare ricordatevi sempre che caso mai io tengo…beh adesso lo sapete, quindi una quarta causa a lui. In quintis io vi ho portato la valigia ma ho avuto danni materiali e morali perché non m’è andato dritto niente. Devo fare a voi una causa. Se ci mettiamo d’accordo, come vi ho detto prima voi in tribunale chiedete il rito abbreviato e così chiudiamo la faccenda amichevolmente con tanti ringraziamenti ambo le parti. Che ne dite dotto’?
=(completamente fuori di sé, con gli occhi fuori dalle orbite, urla) Di Falcooo…Persichiniii… (ai due agenti che entrano)… portatevi via questo…questo…(non riesce a trovare la parola adatta) buttatelo in un lago, nel fiume, nel mare, nell’oceano basta che non me lo fate più rivedere ma…state attenti, questo si intrufola anche nella vostra mente è un intruso malefico, meglio mettergli una pietra al collo
=(Lo Zippo mentre viene portato via dai due agenti) DOTTO' CHE FACCIO LA VALIGIA VE LA LASCIO?



venerdì 8 marzo 2013

UNA RIVINCITA? FORSE...

Eravamo sei amici, tre maschietti e tre fanciulle, coetanei e avevamo intorno ai 16 anni.
Ci si vedeva ogni due o tre giorni soltanto per chiacchierare del più e del meno.
Nel frattempo nascevano tra di noi simpatie più incisive nel senso che qualcuno cominciava a pensare a qualcosa di più di un semplice scambio di parole.
Io ad esempio avevo come dire, messo gli occhi su una biondina con occhi azzurri che mi sognavo anche di notte.
Noi tutti ci si vedeva qualche volta in Via Cavour ai piedi della salita-scalinata dei Borgia e qualche altra al vicino Parco del Colle Oppio. Essendo tutti abitanti del 1° Rione di Roma, il Monti, era facilissimo incontrarci.
Tutti studentelli meno io che non avevo nessuna voglia di studiare ma che ero sempre alla ricerca di un lavoro qualsiasi
Due di noi, la biondina e un bel ragazzo, alto, dai capelli neri e gli occhi verdi, erano figli di proprietari di esercizi commerciali, lei pupilla di un fornaio, lui di uno di un grande bar-latteria centralissimo, entrambi sempre del Rione.
Un giorno iniziai a fare le prime manovre di accerchiamento intorno alla biondina la quale una volta una scusa, l'altra una diversa, rifiutava sempre d'incontrarci da soli. Eppure non facevo proposte malevoli o con intenzioni sconvenienti. A quei tempi si andava con i piedi di piombo e ci si comportava in maniera molto diversa da quelli attuali.
Venne però il momento che le dichiarai apertamente quello che sentivo per lei ma la biondina mi rispose a chiare lettere che era innamorata del bel moro dagli occhi verdi e, naturalmente, ricambiata, tanto che mi annunciò di essersi fidanzati.
Per me fu un colpo tremendo.
Abbandonai la compagnia e non mi feci più vedere anche dagli altri amici.
Circa tredici anni dopo venni a sapere che il moro e la bionda si erano sposati da sette anni e che insieme gestivano il bar-latteria del padre del moro.
Decisi di andarli a trovare ma, appena entrato nel locale, rimasi di stucco.
Loro erano lì, sicuro, ma completamente trasformati: grassi, obesi fino all'inverosimile, lui quasi completamente calvo ed entrambi con le palpebre gonfie che quasi nascondevano i loro meravigliosi occhi verdi e azzurri di una volta. Sembravano, in parole povere, una di quelle coppie dei dipinti del grande pittore colombiano Fernando Botero. Non solo, perché quando entrai stavano litigando di brutto ed a stento venni riconosciuto.
Mi chiesero se volevo un caffé ma rifiutai,li salutai e loro risposero freddamente riprendendo a litigare.
Nel tornare sui miei passi mi spuntò spontaneamente un sorriso, chissà perché.

martedì 5 marzo 2013

ORMAI DEVO ARRENDERMI

Ho scritto tempo fa di un mio amico di oltre novant'anni, romano puro sangue, il quale, puntualissimo, ogni mercoledì verso le 16, viene a trovarmi a casa per scambiare quattro chiacchiere. Intanto comincio col dire che il verbo scambiare in questo caso non lo possa usare e adesso spiego il perché.
Il più delle volte, anzi direi sempre, lui inizia con i ricordi di quando, abbastanza giovane, era riuscito a far parte di un gruppo di persone che esercitavano la claque presso i teatri di Roma, ovunque era richiesta la loro presenza utile per applaudire, a comando, gli artisti, gli attori, i comici, le soubrette, i cantanti alle loro prime esibizioni ma anche alle successive. In pratica lo stesso sistema che viene adoperato nelle TV con la scritta luminosa "applausi" per incitare gli spettatori a fare la loro parte. Non era retribuito per questo ma otteneva soltanto l'ingresso gratuito nei teatri.
Nel settore dell'avanspettacolo, del varietà e della commedia musicale questo amico ha una memoria di ferro che però scarseggia in molte altre cose. Se ne comprende benissimo il perché ed è perdonato. Succede anche a me, figuriamoci.
Però mercoledì scorso la visita è andata diversamente dal solito. Io ero qui con Pasquale e stavo ascoltando la Cavalleria Rusticana di Mascagni scovata su youtube quando sento la sua particolare suonata al citofono. Interrompo l'ascolto fermandolo al momento in cui ho dovuto sospendere e faccio accomodare il mio amico.
Mi chiede se ha interrotto qualcosa di importante ed io rispondo che stavo ascoltando e vedendo il video dell'opera di cui sopra.
Non l'avessi mai fatto!
Dimenticando e mettendo da parte il settore riviste di teatro del quale lui sapeva tutto o quasi, inizia a far correre all'indietro la sua memoria nel settore lirico. E qui ha inizio il solito spettacolo e cioé lui che racconta a getto continuo ed io che cerco invano di insinuarmi nel suo comizio per dire qualcosa anch'io. Niente da fare continua imperterrito nel raccontare i suoi di ricordi con qualche imperfezione, non che io sia un esperto, ma mi sembra di capire che ne sa abbastanza. Ogni tanto, forse per riprendere fiato, s'interrompe per dirmi = nun vorei ripeteme ma...= e a me non importa se invece si ripete e non una volta sola.
Quando però quel mercoledì prese una cantonata sulla Boheme di Puccini allora lo fermai bruscamente e gli dissi invece come stavano le cose.
Perché a me toccatemi tutto ma sulla Boheme ne so più io che Puccini per la musica e Giacosa e Illica per il libretto, messi insieme.
Forse ho esagerato un po'.
Ma ho avuto l'opportunità di averla vista o ascoltata un numero imprecisabile di volte: la prima all'età di circa 18 anni all'aperto alle Terme di Caracalla in Roma ma con quel palcoscenico così grande secondo me non va bene; ovviamente un paio di volte al Teatro dell'Opera; senza scenari all'Accademia di Santa Cecilia in concerto con l'orchestra diretta da Leonard Bernstein; qui a casa col registratore in musicassetta, alla radio, in TV e con il pc-Pasquale su You Tube.
Un vero e proprio patito un po' strano però, il quarto atto l'ho visto solo tre volte, in tutte le altre mi sono fermato sempre dopo il finale del terzo atto.
E non perché mi addormentavo.
Ad ogni modo ho preso una decisione. Dal prossimo mercoledì lascerò fare al mio amico il suo monologo senza mai interferire, qualunque cosa dica.