domenica 30 giugno 2013

OSTERIA NUMERO UNO PARAPONZI, PONZI, PO

Il post che precede ha permesso il ritorno nella mia mente di quei fatti di molti anni fa e pertanto potrei definire questo post la seconda parte del precedente.
Leggevo da qualche parte qualcosa sulle osterie e allora mi sono ricordato che fino all'età di 26 anni, ero ancora single, frequentavo anch'io quei locali così caratteristici. Le osterie in questione si trovavano al piano strada di un gruppo di fabbricati che praticamente circondavano quello di Via della Polveriera dove ero nato e in cui risiedevo. Ma questo l'ho già detto molte volte.
Tre erano le osterie a quei tempi:
- la prima al Largo della Polveriera in angolo con la detta via, era annessa ad un “orzarolo”, soprannome di negozio senza forno, che vendeva generi alimentari vari all’infuori di carne, pesce, frutta e verdura. I proprietari erano il sor Salvatore detto er gricio, la moglie sora Nunziata e un loro figlio Ennio detto er gricetto. L’osteria apriva soltanto nei giorni feriali, dopo le 17.00. Noi bevevamo gazzose perché il vino costava troppo e la birra non andava di moda. Chi l’aveva fumava qualche sigaretta magari passandola poi a chi gli chiedeva 'che me fai fa’ ‘na tirata?' e si giocava a carte – quelle napoletane - senza circolazione di soldi perché non girava ‘na lira. Questo fino a quando er gricio non ci buttava fuori. Avendo possibilità di scegliere la frequentavamo poco;
- la seconda, a via delle Terme di Tito angolo Largo della Polveriera, era osteria con possibilità di consumare cibi propri portati da casa dai clienti, ovvero da coloro che erano chiamati “fagottari”. Il proprietario era il sor Felice il quale era aiutato da tre figlie femmine. Per questo fatto, forse, era la più frequentata da mezzogiorno fino a sera inoltrata sia da noi sia da operai edili e non solo. In questo locale c’era anche la possibilità di aggiungere al vino, per chi lo beveva, anche una o due spruzzatine di seltz contenuto dentro un sifone con un becco di metallo in cima. Partite interminabili a briscola, scopa, scopetta e tressette “cor morto” o senza ci aiutavano a farci arrivare all’ora di cena;
- la terza, sempre a via delle Terme di Tito verso via Nicola Salvi, era quella meno frequentata forse perché poco accogliente. Un unico locale, buio e con un cesso poco idoneo. Il figlio del proprietario, sempre nell’attesa di clienti, si chiamava Nestore ed era un nostro amico. Tranquillo, silenzioso, si faceva i fatti suoi, non dava fastidio a nessuno e se ne stava seduto davanti al suo locale.
Confinava con un bar-latteria-tabacchi in angolo tra via Nicola Salvi e via Terme di Tito che aveva una vista stupenda sul Colosseo che quasi si poteva toccare con mano. Esagero d’accordo, però era vicinissimo, sempre frequentato da grosse comitive di turisti. Anche questo bar aveva un piccolissimo locale dove si poteva giocare a carte ma dove però si doveva consumare qualcosa che aveva un costo al di sopra delle nostre possibilità. Il proprietario, piuttosto bonaccione, era il Sor Augusto. Lui e il Sor Giggetto, fornaio di via Monte Oppio, figurano con tanto di nome e cognome nel mio Estratto dal Registro degli Atti di Nascita, quali testimoni della mia nascita. Erano entrambi conoscenti di mio padre e la nostra famiglia faceva parte della loro clientela. Bei tempi quelli. Tuttora, quando capita d'incontrarci tra noi sopravvissuti ci salutiamo appellandoci anziché con i nomi propri con i soprannomi che ci eravamo reciprocamente affibbiati molti anni prima.
Mi torna in mente che nel ’49 o nel’50 fu presentata una bibita in concorrenza con la coca cola. Si chiamava Chinotto Neri e non era male. Andava a ruba specialmente nelle osterie.
Poiché io non sono un bevitore di vino dopo quegli anni di cui ho scritto non ho più frequentato tali locali e dico purtroppo, in considerazione del fatto che quei tempi erano di una spensieratezza totale.

martedì 25 giugno 2013

ANTICHI LUOGHI E LONTANI RICORDI

Inutilmente da due o tre ore mi giro e rigiro nel letto ma un’irrefrenabile ridda di pensieri e ricordi mi mulinano nella mente tanto che sono costretto ad alzarmi malgrado sia appena spuntata l’alba. Come mai, dopo così tanto tempo, mi è venuta la voglia di rivedere il cortile del fabbricato in cui sono nato qualcosa come oltre 82 anni or sono? Strano…Eppure lì nei pressi ci sono già andato altre volte. Fortunatamente, essendo presto, esco di casa e c'è un bel freschetto. Pur non essendo lontano per andare in Via della Polveriera, prendo un bus alla fermata vicina e scendo a quella di fronte al Colosseo. Lì ci si inerpica sulla ripida scalinata che dai piedi del Colosseo arriva in Via Nicola Salvi attraversata la quale si percorre Via del Fagutale (diventata famosa per la casa acquistata da un ex ministro e pagata in buona parte con denaro versatogli a sua insaputa) e quindi si arriva nella via dove si trova la mia vecchia casa. Mentre faccio questo ragionamento mi assale il primo ricordo: quella ripida scalinata che raggiunge l’isola del zibibbo (così chiamavamo il gruppo di edifici che componevano la nostra parte del Rione Monti) ritaglia una fetta di folta vegetazione che ricopre la piccola collinetta (da noi battezzata la giungla dell'Africa) e che divide la zona del Colosseo da quella del Colle Oppio dove si trova l'omonimo parco che sovrasta la Domus Aurea – la casa di Nerone - e poi il viale del Monte Oppio. Passando oltre c'è il Largo della Polveriera, si rasenta la Trattoria Nerone (ex osteria un tempo nostra sala-giochi di briscola e tressette), un moderno bar (anche qui ex negozio di generi alimentari con annessa osteria, all’epoca altra sala-giochi) e si svolta in Via della Polveriera. Ecco il numero civico 40 l’edificio del quale faceva parte la nostra casa-interno 11, il 41 locale a livello strada adibito oggi a non so cosa (un tempo abitazione di una famiglia di amici), il 42 ingresso del cortile comune al quale si accede tramite una specie di tunnel. Detto cortile consiste in un’ampia area libera scoperta interna ed è circondato dal retro degli edifici confinanti. Mi era stato detto che attualmente l’accesso era impedito da una saracinesca verso l’esterno e da un cancello metallico all’interno. Dopo il tunnel ho trovato invece tutto spalancato: gli allegri fantasmi del passato mi stavano forse aspettando? Appena entro nel tunnel vedo sulla destra le tre piccole porte d'una volta chiuse: la prima è di un microscopico locale un tempo occupato dal nostro calzolaio di fiducia, er sor Silvano tipo curioso sempre vestito elegantemente con un vistosissimo fiocco nero a guisa di cravatta (si mormorava trattarsi di anarchico o comunque di accanito repubblicano vecchio stampo). Dietro le altre due porte due piccoli magazzini. Percorso il “tunnel” eccomi nel cortile: sulla destra sette saracinesche abbassate chiuse su altrettanti box-auto (?). Ai tempi in cui lo frequentavo non ricordo di avervi visto mai una macchina ma piuttosto roba usata. Sulla sinistra invece un muro non troppo alto con un piccolo cancelletto centrale, chiuso, che una volta consentiva l’accesso ad un corridoio a cielo aperto sul quale si affacciavano le porte di due o tre abitazioni, compresa quella della portiera e del locale fontane. Nel mentre costeggio quel muro improvvisamente si apre una porta metallica e ne esce una piccola signora molto anziana, piuttosto in carne, con un paio di grossi occhiali da vista e una folta chioma di capelli neri vistosamente tinti di recente. Appena mi vede mi saluta e mi rivolge una specie di bentornato come se mi avesse riconosciuto. Io un po’ sbalordito cerco di rispondere il più educatamente possibile. Dopo che lei si è allontanata ritorno sui miei passi, vado a verificare sul citofono accanto al portone numero 40 e leggo il nome della famiglia che abita all’interno in questione dal quale è apparsa la signora di prima: è la stessa di quando io abitavo lì. Altro ricordo: il loro capo-famiglia, un antifascista di razza che insieme all’altro capo-famiglia, suo compagno, abitante al numero 41, il 25 luglio del ’43, giorno della caduta del fascismo, ingaggiarono una piccola battaglia a colpi d’arma da fuoco appostati all’angolo tra via della Polveriera e via Eudossiana dove, dalle finestre della Facoltà d’Ingegneria alcuni fascisti sparavano a più non posso. Faccio un breve giro nel cortile e ricordo che all’epoca io e la banda di miei coetanei non lo frequentavamo spesso, preferivamo giocare fuori per la strada o nel vicino parco del Colle Oppio. Può darsi pure che ci fosse stato vietato di frequentarlo a seguito delle proteste di qualcuno. Credo proprio di sì perché noi c’eravamo accorti che mentre ci trastullavamo nel cortile venivamo osservati dalle sorelle di un nostro coetaneo (noi dovevamo avere al massimo dodici o tredici anni) il quale faceva parte di una famiglia abitante nel nostro fabbricato, all’interno 7, composta, detta famiglia, da padre, madre, da un nostro coetaneo, da un suo fratellino e dalle tre sorelle tutte più grandi di noi ed anche belle figliole. Loro, le tre sorelle, si erano abituate a starsene sulla loggetta che circondava la loro abitazione e che aveva la vista sul cortile e commentavano, sghignazzando, le nostre gesta. Noi avevamo capito che sollevando“castamente” gli sguardi verso il cielo molto “casualmente” s’incrociavano le gambe delle tre sorelle…a quell’epoca ancora non andavano di moda i famosi blue-jeans. Ecco quindi spiegato, credo, il successivo “vietato l’accesso”. Torno sui miei passi. esco su via della Polveriera e, nel palazzone di fronte, il mio sguardo va verso il civico numero 8. Ai tempi della mia infanzia, della mia gioventù e della mia adolescenza era una abitazione a livello strada occupata da una famiglia, madre, padre cieco e due figlie femmine una delle quali piuttosto “sbarazzina”. La madre fabbricava in casa i caramellotti (zucchero filato solidificato non si sa bene con quale procedura) i quali, avvolti in carta sgargiante, venivano venduti, da lei che camminava sempre con il marito sottobraccio, in giro qua e là per il rione ma soprattutto davanti le vicine scuole Vittorino da Feltre. Per tornarmene a casa mi avvio verso la fermata del bus davanti al Colosseo e per farlo oltrepasso via degli Annibaldi su quella orrenda passerella (non si può neppure definire ponticello) più adatta in una“selvaggia foresta equatoriale”, costruita qualche anno fa. Incrocio tra i cento e i duecento turisti giapponesi debitamente muniti di tre o quattrocento macchinette fotografiche di ogni forma e dimensione i quali sorridono estasiati.
Sorrido anch’io fra di me, soddisfatto di aver rivisto i miei vecchi luoghi soprattutto quel cortile con i ricordi e le illusioni della nostra giovanissima età.


venerdì 21 giugno 2013

MARE NOSTRUM...

...per me mica tanto.
A diciotto anni circa facevo parte di una comitiva di miei coetanei tutti abitanti in Via della Polveriera qui a Roma e, almeno fino a quando qualcuno di noi non convolava a giuste (?) nozze, si stava sempre insieme. Tempo e soldi permettendo, poteva capitare pure che, d’estate, la domenica si andasse tutti al mare. Tempi ancora duri quelli del 1948. Il dopoguerra non era ancora rose e fiori e allora ci si arrangiava Dal Colosseo, vicino dove abitavamo noi, alla stazione Piramide del treno che da Roma ci portava sino al Lungomare di Ostia, c’era un tram che passava raramente, ma noi ci andavamo sempre a piedi. Io ero l’unico dell’intera combriccola che non sapeva nuotare, però al mare mi divertivo ugualmente stazionando sempre vicino la riva. Una domenica “er secco”, più alto di me di una trentina di centimetri, membro a pieno titolo della comitiva, mentre era in acqua mi chiamò urlando a squarciagola 'a ficozzaaa' – il mio soprannome – 'vie' qua che se tocca'. Lì per lì non mi rammentai della differenza d’altezza tra noi due e, facendo qualche goffo tentativo di nuoto, arrivai vicino l’amico. Non l’avessi mai fatto. C’è mancato poco che affogassi. Mi sarò bevuto almeno mezzo litro d’acqua di mare, a quei tempi pulita, con grande gioia del secco e degli altri amici che sghignazzavano a più non posso.
Nello stesso 1948 mi fidanzai con la mia attuale moglie e quindi andavamo da soli al mare, qualche volta anche con un altra coppia di fidanzati vicini di casa.
Una di queste volte ci capitò una specie di naufragio. Noi quattro avevamo noleggiato un pattino, una specie di barca aperta sopra, sotto, davanti, dietro e ai lati. Come un pedalò che però va a remi. Remando remando ci allontanammo un po’ dalla riva ma, notando che il mare si stava ingrossando, ci affrettammo per tornare indietro. Ad una ventina di metri dalla spiaggia il pattino si capovolse: tutti a fondo che annaspavamo come disperati. Riuscimmo ad aggrapparci al pattino rovesciato mentre ci giravamo l’uno verso l’altro per controllare se c’eravamo tutti e se stavamo bene. Nonostante la gran botta che presi sulla testa non staccavo le braccia dal galleggiante mentre la mia bella, reggendosi sulle mie spalle se la rideva a crepapelle. Cosa c’era di tanto comico non l’ho mai capito. Vennero due barche con due bagnini e ci misero in salvo.
Nel 1969 io e mia moglie, sentito il parere di nostro figlio di dieci anni, decidemmo di trascorrere un periodo di villeggiatura in una località dopo Torvaianica, che affacciava sul Mediterraneo e aveva vicino una bella pineta. Prendemmo alloggio in un albergo situato proprio sulla spiaggia e di recentissima costruzione ma ancora da ultimare. Il proprietario, in considerazione di questo fatto, aveva deciso di praticare prezzi molto convenienti. Un pomeriggio, allettato dalla vista di un mare calmissimo, mentre mio figlio era vicino alla madre e giocava sulla spiaggia, presi il suo materassino di gomma ed entrai nell’acqua bassissima per un lungo tratto di distanza dalla spiaggia stessa. Cominciai a farmi trascinare dal leggero sciabordio di piccole onde e mollemente sdraiato mi godevo lo spettacolo degli altri bagnanti. Ad un certo punto il materassino, forse a causa di una mia mossa un po’ energica, si capovolse, caddi in acqua, annaspai perché non sentivo il fondo del mare sotto i miei piedi ed iniziai a mandare giù acqua salata. Non gridavo, non chiedevo aiuto, mulinavo soltanto le braccia per restare a galla e mi ricordai con terrore che non sapevo nuotare. Qualcuno vicino a me fortunatamente si rese conto di quello che stava accadendo, mi dette una mano e mi accompagnò a riva. Mia moglie tranquillamente sdraiata a prendere il sole non si era accorta di nulla. Le raccontai l’accaduto, lei si mise a ridere aggiungendo che ero stato uno stupido e che avrei dovuto chiedere aiuto. Già, perché non lo feci?
Io amo il mare ma è evidente che tra noi c'è qualcosa che non va.
Forse quel qualcosa è il fatto che io non sappia nuotare. Forse.







martedì 18 giugno 2013

SALUTAMI TUO PADRE

Il commissario Alberti stava indagando su un caso personale che lo angosciava. Il punto era che riguardava qualcosa e soprattutto qualcuno che lui amava, la sua unica figlia diciottenne. Si trattava di quello che lei , Sabrina, aveva subito, uno stupro di una notevole gravità per il quale era tuttora ricoverata in ospedale già da tre giorni. Soltanto la sera del secondo giorno Sabrina aveva iniziato a raccontare al padre che la incalzava, alcuni particolari che lo avevano piuttosto convinto che c'erano almeno tre di questi particolari che l'avrebbero aiutato a scoprire il colpevole o i colpevoli di tale misfatto. Quando fu messo a conoscenza dalla propria moglie Rosa, la mamma di Sabrina, di quanto era avvenuto, aveva chiesto ai suoi superiori di volersi occupare personalmente delle indagini cosa che le venne negata in quanto lo ritenevano troppo coinvolto in questa vicenda così personale. Al che lui apparentemente non si scompose ma, testardamente prese una decisione: avrebbe condotto le indagini a modo suo con molta discrezione. Per prima cosa si mise d'accordo con un vice-commissario suo ottimo amico e che, esperto d'informatica, lo avrebbe aiutato in alcune ricerche che voleva fare per capire quali e quanti arresti aveva compiuto risalendo almeno ai cinque anni precedenti. Soprattuto se, i soggetti incriminati, si trovavano a scontare la loro pena o se messi in libertà. Tali informazioni erano per Alberti indispensabili in quanto sua figlia gli aveva raccontato, tra i singhiozzi, che lo stupratore non agì da solo ma insieme a due altri soggetti i quali, dopo l'aggressione compiuta in un vialetto del parco che stava percorrendo - erano soltanto le venti di sera - l'avevano immobilizzata a terra e imbavagliata. A quel punto l'altro soggetto poté compiere lo stupro. Il commissario nel racconto che gli fece sua figlia mise a fuoco i particolari che lo avevano colpito. Sabrina percorreva quel tratto di strada che la divideva dalla propria abitazione a quella di una sua cara amica, diversamente abile, quasi tutti i giorni feriali e nello stesso orario almeno da due anni. Quella sera Sabrina, nel far ritorno a casa si accorse che in un punto del viale due lampioni erano spenti e iniziò a procedere più velocemente ma, fatti pochi passi, tre individui mascherati l'avevano malmenata e poi tutto il resto. Soltanto uno di essi, che poteva essere una sorta di capo in quanto gli altri probabilmente più giovani si erano limitati a sogghignare, aveva compiuto ferocemente la violenza carnale. Ma, prima di andarsene , lo stupratore con voce contraffatta le sussurrò in un orechio soltanto tre parole: 'salutami tuo padre'. Il commissario comprese che doveva trattarsi di un soggetto che voleva vendicarsi di qualcosa che lui aveva compiuto nell'esercizio dei suoi doveri. Si fece una domanda chiedendosi come mai il delinquente sapeva che Sabrina era sua figlia? Gli tornò in mente a quel punto che lei gli racconto di aver ricevuto un paio di settimane prima una telefonata e una persona, voce femminile, le aveva detto di chiamarsi Rosalba e di volerla salutare dichiarando di essere sua amica. Sabrina rispose che non conosceva alcuna Rosalba. Allora quest'ultima le chiese se si chiamasse Anna figlia dell'ispettore Martelli ma lei rispose di chiamarsi Sabrina e di essere figlia del commissario Alberti. Tutto ciò aveva rafforzato i sospetti del commissario. Ci volle del tempo prima di raggiungere quelle certezze indispensabili per essere sicuro di colui che aveva compiuto quel misfatto. Una sera, era quasi mezzanotte, si appostò nei pressi dell'abitazione dell'individuo che aveva ormai accertato essere il colpevole, lo vide scendere da un'auto in quella viuzza piuttosto buia si avvicinò, lo chiamò apostrofandolo 'ciao stronzo sono venuto a ricambiare il saluto' affrontandolo a viso aperto. Il delinquente appena lo vide con estrema velocità impugnò una pistola ma nello stesso momento una raffica di proiettili lo colpì in pieno petto. Uno di quei proiettili purtroppo colpì nella nuca il commissario che stramazzò a terra. I poliziotti che avevano seguito le stesse tracce, nell'intento di cercare di salvare il loro collega dai colpi del criminale, sparando, non avevano colpito soltanto il colpevole ma anche l'Alberti che era disarmato e che morì quasi sull'istante.

venerdì 14 giugno 2013

FORMULO UN'IPOTESI...

...circa quello che videro i miei occhi mentre traversavo la strada e mi avvicinavo ad un bar con sette vetrate sul fronte di due strade formanti un angolo.
I tavolini, ben protetti da grandissimi gazebo erano quasi tutti occupati ma il mio sguardo, attirato come da una calamita, andò subito in direzione di una persona non troppo comodamente seduta su di una poltroncina proprio vicino al passaggio dei pedoni.
Il motivo per cui non doveva stare troppo comoda in quella poltroncina nasceva dal fatto che, appunto seduta, le ginocchia le arrivavano quasi al mento benché il busto – e che busto - era eretto fin quasi a lambire il tendone sovrastante il gazebo.
Mi dovetti esibire in una delle mie rapide occhiate a velocità supersonica per poter stabilire con una discreta certezza che la persona che vidi era una Valchiria tanto che in quel preciso istante mi risuonò nelle orecchie il brano di Wagner "La cavalcata delle Valchirie " di cui ne sentii le note anche in una famosa scena del film "Apocalipse Now".
Pertanto ella:
A) non aveva più di trenta anni;
B) le gambe – assolutamente non magre – alte, ad occhio e croce, circa un metro, un metro e dieci (avrei voluto misurarle ma non è stato possibile);
C) il reggiseno – se lo aveva e non ci giurerei – tra la terza e la quarta misura;
D) il volto ad uovo di pasqua capovolto;
E) il vestito, probabilmente per il caldo, c'era e non c'era e se c'era non doveva essere il proprio ma quello di una sua sorellina molto più piccola;
F) i capelli e gli occhi? Non li ho guardati, forse guardavo altro;
G) era sola e si stava gustando una bibita ghiacciata.
Non so perchè, procedendo di poco oltre quel bar, mi venne lo sfizio di voltarmi e vidi la Valchiria che, alzatasi in piedi per qualche motivo, mi dette la possibilità di valutarla e formulai quindi un'ipotesi: 'secondo me sarà sicuramente ALTA QUANTO UN TRALICCIO PER L'ALTA TENSIONE.'

martedì 11 giugno 2013

ER FATTACCIO DER VICOLO DER MORO

Sor delegato mio nun so un boiaccia. Fateme scioje ... v’aricconto tutto...
Quann’ho finito, poi, m’arilegate ma adesso, pè piacere... nun me date
st’umijazione dopo tanto strazio...V’aringrazio. (Singhiozza )
Qello ch’ha pubblicato er “Messaggero” surfattaccio der vicolo der Moro”,
sor delegato mio è tutto vero. No’ p’avantamme, voi ce lo sapete, so’ stato sempre amante der lavoro; è giusto , che, pè questo, me chiedete, come la mano mia ch’è sempre avvezza, a maneggià la lima còr martello, co’ tanto sangue freddo e sicurezza, abbia spaccato er core a mi’ fratello.
Quanno morì mi’ padre ero fanello...annavo ancora a scòla e m’aricordo,
che, benchè morto lui, nder canestrello, la pizza, la ricotta, er pizzutello
nun ce mancava mai. Che, quella santa se faceva pe quattro, e lavorava...
e la marinella, le scarpette, a dì la verità, non ce mancava.
Ho capito. Me dite d’annà ar fatto, un momento... che adesso l’aricconto.
Abitavamio ar vicolo der Moro, io, co’ mi’ madre e mi’ fratello Giggi.
La sera, noi tornamio dar lavoro e la trovamio accanto alla loggetta,
bona, tranquilla, co’ quer viso bianco, che cantava, e faceva la carzetta.
E ce baciava in fronte, e sorrideva e ce baciava ancora e poi cantava...
Fior de gaggia io so’ felice co’ vojantri dua. Ar monno nun ce stà chi v’assomija”.
Poi, Giggi se cambiò, se fece amico, co’ li più peggio bulli der rione, lasciò er lavoro... bazzicò Panico, poi fu proposto pe’ l’ammonizione.
De più, me fu avvisato da la gente, che quanno io nun c’ero, mi’ fratello annava a casa pe’ fa er prepotente. P'er “ garachè”, l’amichi, l’osteria votava li cassetti der comò e quer poco, che c’era lì in famija, spariva a mano a mano. Lei però nun rifiutava... nun diceva gnente...ma nun rideva più... più nun cantava mi’ madre bella, accanto alla loggetta. La ruta... li garofoli... l’erbetta ch’infioraveno tutto er barconcino, tutto quanto sfioriva, e se seccava, insieme a mamma che se consumava. Un giorno feci: a ma’che ve sentite? State male... perchè nun me lo dite? Nu’ rispose ma fece un gran sospiro e l’occhi je s’empireno de pianto. Nèr vedella soffri, pur’io soffrivo ma ch’aveva da fa? Chiamai er dottore.Disse che er male suo era qui “ner core”e che ‘nse fusse presa dispiacere, se ‘n voleva morì de’ crepacore.La stessa sera vorsi parlà co’ Giggi, lo trovai, e feci : a Gi ‘, mamma sta male assai...nun me la fa morì de dispiacere...je voio troppo bene... e tu lo sai,che si morisse, embè... che t’ho da dì? sarebbe come er core se spezzasse.
Mentre lei guarirebbe si tornasse er tempo de ‘na vorta de quann’ eri bono... lavoratore... t’ aricordi? Giggi me fece ‘na risata in faccia, arzò le spalle e poi me disse: senti, senza che me stai a fà tanti lamenti, faccio come me pare. E poi de’ resto, se n’te va be’, nun me guardà più in faccia. E me lassò accussì, li sur cantone, cor còre sfranto. Ritornai da mamma, e la trovai davanti alla Madonna che pregava, e piagneva. Poverella quanto me fece pena. In quer momento, per vicoletto scuro e solitario,ntesi Giggi cantà, cò n’aria bulla "Fiorin d’argento accoro mamma e nun m’emborta tanto pè l’occhi tui ci ho perso er sentimento”...
Allora feci : a ma’ se mi’ fratello ritorna a casa pè fa’ er prepotente, ve giuro che succede ‘no sfragello. No... pè l’amor de Dio, fijetto bello..,Giggi ‘nun è più lui... no, è ‘na passione...so’ ‘amichi che l’hanno trasportato. Me dette un bacio... la benedizione e poi, cor viso bianco come cera,pe’ nun piagne, me disse:buonasera.
Ier’ammatina chè successo er fatto, sarà stato che so... verso le sette,me parve de sentì come ‘na lotta. Mamma diceva: a Gi’... ‘nte compromette co’ tu’ fratello... damme qui er brillocco...è l’urtimo ricordo de tu’ padre..e nun t’hai da scordà... che so’ tu’ madre. E che m’emporta a me, de mi’ fratello?Si vo’ assaggià la punta der cortello venga puro de quà. Mbè... fu un momento: sartai dar letto... spalancai la porta...e me messi de faccia a mi’ fratello, co’ le braccia incrociate sopra ar petto. In quer momento me parve de sentì na cosa calla che saliva in faccia. Poi m’intesi gelà! Fece:che vòi? Vojo che te ne vai...senza che fai più tanto er prepotente, senza che me stai a fa’ tanto er bojaccia. Mi’ madre prevedenno la quistione se mise in mezzo pe’ portà la pace ma Giggi la scanzò co’ ‘no spintone, e poi me fece : a voi sor santarello ve ce vorà ‘na piccola lezione. E’ appena detto questo, uprì er cortello e me s’avventò addosso. Mamma se mise immezzo infrattanto che Giggi dà la botta...io la scanzo... ma... mamma dà ‘no strillo e casca longa longa...Ah...diedi un urlo de berva e je strillai : a bojaccia infamone scellerato tu m’hai ammazzato Mamma! Come‘na jena me je buttai addosso e jagguantai la mano... e je strappai er cortello... Poi vidi tutto rosso...e menai... e menai!
( Lenti rintocchi di campana), con voce disperata
Sarà... mamma che passa. Mamma, Mamma Mia!... Mannateme ar Coeli!(*)
Poesia romanesca del poeta Amerigo Giuliani 2/1/1888-7/3/1922 fonte Wikipedia

(*) Regina Coeli è ancora adesso il carcere giudiziario di Roma.


lunedì 3 giugno 2013

LA MIA INSONNIA

La questione risale a prima che venissi al mondo. Tiravo calci e creavo problemi. Questo mi raccontava mia madre dopo la maggiore età naturalmente perché ai miei tempi si nasceva soltanto sotto un cavolo e si era trasportati nelle braccia della mamma con l’ausilio del becco della cicogna. Qualsiasi altro modo di nascere era vietato. Quei tempi sono cambiati ed oggi si nasce mediante altro meccanismo. Progressi della tecnologia. Sin da piccolo, appunto, non avevo nessuna voglia di dormire. Camomille, ciucciotti, dondolii, ninne nanne non mi spostavano di un millimetro dalla decisione che avevo preso: non volevo dormire. D’altra parte non facendo nulla in tutte le ventiquattro ore della giornata che bisogno avevo di dormire e riposare? Che poi non riposasse mia madre era una cosa alla quale io non avevo mai fatto mente locale.
Ormai grandicello lei mi raccontò un episodio particolare e cioè che a volte, per poter schiacciare un pisolino, mi portava con se in un cinema vicino casa dove mio padre lavorava come maschera, si sedeva comodamente in una poltroncina e mi attaccava al suo seno per allattarmi.Dopo due minuti entrambi dormivamo placidamente. Eh sì, certe abitudini non si perdono tanto facilmente.
Molte mamme, compresa la mia, ricordo che dicevano spesso 'questo figlio benedetto ha scambiato il giorno per la notte'. A parte il fatto che non dormivo neppure durante il giorno, questa benedizione mi deve aver accompagnato per moltissimo tempo. Attualmente, ma posso pure sbagliarmi, sembra che i neonati prima di nascere abbiano regolato bene i loro orologi interni. Una fortuna per entrambi i loro genitori.
Sono passati giorni, mesi, anni, anzi decine di anni e il mio problema anziché risolversi si è aggravato.Le preoccupazioni per la famiglia, il lavoro e la casa hanno contribuito notevolmente a far sì che io riesca a trascorrere delle magnifiche notti in bianco malgrado i numerosi espedienti provati. Molti anni fa chiesi al nostro medico di famiglia qualcosa per aiutarmi a dormire ed egli mi prescrisse un liquido da prendere a gocce: 'mi raccomando, non più di cinque prima di coricarsi', così disse. La sera feci esattamente quello che mi aveva detto, ma di dormire neppure a parlarne. Era come se avessi bevuto due caffè. Non mi persi d’animo. La sera successiva aumentai la dose: dieci gocce. Le palpebre si abbassarono leggermente, ma niente di più. Logicamente raddoppiando le gocce raddoppiavano anche i caffè. Il conto tornava: 10 gocce = 4 caffè. Lasciai trascorrere un altro po’ di tempo quindi tornai dal medico e gli dissi come stavano le cose. Lui non si scompose, io nemmeno, prese ricettario e penna e mi prescrisse delle compresse. Stessa procedura della prima volta e, prima di coricarmi, una compressa. Neppure un quarto d’ora e il sonno prepotentemente s’impadronì di me. Una martellata avrebbe fatto meno effetto.Tutto bene fino ad un paio di mesi fa quando mi è stato consigliato di dimezzare la dose, in pratica assumerne mezza compressa la sera onde evitare l’aumento del rimbambimento già in atto. E così è stato finché la settimana scorsa, senza consultare nessuno, ho pensato di attuare un piccolo esperimento. La sera che prendo mezza compressa dormo al massimo un paio d’ore. Ergo, il giorno dopo mi sento tutto insonnolito e allora tanto vale non assumere alcunché. Difatti dormo dalle tre alle quattro ore in più.Già va meglio.In conclusione adesso il sistema è: una sera sì, una sera no, una sera sì, una sera no, una sera sì, una sera no…si è incantato il disco e io mi sto addormentando.
Buona notte e sogni d’oro.