I
bombardamenti a Roma avvennero nel periodo che andava dal luglio del
’43 al 14 agosto dello stesso anno quando Roma fu dichiarata Città
aperta. Proseguirono però nei paesi intorno alla città,
specialmente ai Castelli Romani. Tre anni di guerra avevano lasciato
un brutto segno sugli italiani specialmente su chi viveva, o meglio
cercava di sopravvivere, nelle piccole e grandi città. C’era molta
insicurezza e insofferenza in giro: fame, paura e povertà regnavano
sovrane. Quello era l’anno in cui dovevo ultimare la scuola media
inferiore ma quasi per l’intera durata di quel periodo scolastico
io e tre miei compagni di classe dei quali ricordo ancora il cognome
pensammo, male e da incoscienti, di dedicarci ad altro. Non
frequentammo più la scuola dove eravamo stati iscritti dato che
trascorrevamo il tempo libero rubato agli studi trastullandoci nei
luoghi dell’antica Roma sul colle Palatino. Fummo tutti
regolarmente bocciati. I bombardamenti a Roma sui quartieri
Tiburtino, Prenestino, Casilino, Tuscolano e Nomentano, culminarono
il 19 luglio ’43 nel tragico bombardamento del quartiere San
Lorenzo dove ci furono migliaia di morti e feriti. Io e la mia
famiglia abitavamo nei pressi del Colosseo, rione Monti, e non
ricordo di aver sentito fragori di esplosioni probabilmente perché
nostra madre ogni volta che suonava la sirena dell’allarme ci
conduceva di corsa al ricovero antiaereo. Un giorno, verso l’ora di
pranzo, l’allarme risuonò almeno sei o sette volte tanto che
invece di andare al vicino ricovero, scendemmo nella cantina del
nostro fabbricato che a tutto poteva servire meno che a ripararci
neppure da un semplice mortaretto. Il pensiero, quello mio e penso
anche quello dei miei fratelli, andava però al piatto di pasta e
legumi che avevamo lasciato fumante sul tavolo nella stanza da
pranzo nell’attesa di essere divorato, ma per nostra madre la
priorità era andare a rifugiarci. Finalmente nel primo pomeriggio
gli allarmi cessarono e per me il ricordo di quel 19 luglio fu sempre
legato oltre che all’episodio della pasta e legumi anche al fatto
che quando dovetti uscire da casa, credo per acquistare qualcosa dal
vicino fornaio, assistetti al passaggio di un tram proveniente da San
Lorenzo dal quale esalava un pessimo odore di bruciato di qualcosa
poco gradevole che non seppi definire e che per molto tempo mi rimase
nelle narici. Credo che quel bombardamento sia stato, oltre allo
sbarco degli anglo-americani in Sicilia avvenuto una quindicina di
giorni prima, un altro dei motivi per il quale il 25 luglio, sempre
del ’43, si verificò la “caduta del fascismo”. Se non ricordo
male la notizia fu diramata per radio il giorno dopo ed il giorno
dopo ancora, 27 luglio, mentre di primo mattino ero intento a fare
colazione in cucina con mia madre vicino sentii rientrare a casa mio
padre che sventolava con la mano la prima pagina del principale
quotidiano di Roma annunciante a titoli cubitali il festoso evento.
Io presi la palla al balzo e, senza capire esattamente il significato
di quell’avvenimento, sgaiattolai da casa e m’intrufolai in uno
dei numerosi cortei di persone che festeggiavano sbandierando il
vessillo tricolore recante al centro lo stemma di casa Savoia e
gridando “viva il re e abbasso il duce” mentre a forza di
picconate smantellavano ogni sia pur piccolo simbolo del fascismo che
fu. Un episodio di quel tempo fece comprendere a molti che i fascisti
non fossero del tutto rassegnati né scomparsi. Me ne resi conto
personalmente perché vi assistetti affacciato alla finestra di
casa. Alcuni giorni dopo il 25 luglio due padri di famiglia inquilini
nel fabbricato dove abitavamo anche noi, ingaggiarono uno scambio di
revolverate contro un paio di fascisti rifugiatisi in una delle aule
della facoltà d’ingegneria che confinava con la nostra strada. Per
prima cosa non avevo mai saputo che quei due nostri coinquilini erano
antifascisti e per di più in possesso di armi poi però mi domandai
che cosa poteva significare quella piccola “battaglia”. Quando ad
agosto del ’43 fu dichiarata Città Aperta a Roma si respirava una
certa tranquillità. L’8 settembre di quell’anno fu firmato
l’armistizio tra il governo italiano e l’esercito
anglo-americano, ma il giorno dopo ci fu la fuga da Roma dei reali
d’Italia. Tutti si dissero che la guerra era ormai terminata invece
il 10 settembre ci furono aspri combattimenti, con morti e feriti tra
i soldati e i civili italiani, i quali si opponevano all’ingresso
delle truppe tedesche a Roma, sia a Porta S. Paolo, il più
importante, che in altre località della periferia cittadina. Invece
la guerra purtroppo continuava, era cambiato il nemico. A tanti anni
di distanza da quel periodo ricordo, per fortuna, soltanto poche
cose. Intanto a volte mi sono chiesto e mi chiedo ancora, ma…i miei
tre fratelli che facevano? I due più piccoli rispettivamente di 6 e
9 anni probabilmente erano tenuti a bada da mamma mentre il più
grande, 15 anni, dove s’era andato a cacciare? Il tredicenne, vale
a dire io, si squagliò dal nido, sia pure ad intervalli e per brevi
periodi. Mi ricordo un altro episodio verificatosi il 9 settembre,
guarda un po’ il giorno del mio 13° compleanno. L’edificio nel
quale abitavamo sin dal giorno della nascita di mio fratello più
grande – 1928, confinava ad una distanza di pochi metri con un
altro edificio abbastanza moderno per quell’epoca abitato quasi
esclusivamente da gerarchi fascisti e loro sottoposti che aveva
persino un nome: “palazzo Balbo” quadrunviro della marcia dei
fascisti su Roma nel 1922. Ad un certo punto di quella giornata, se
non ricordo male primo pomeriggio, sentimmo il rumore forte e
continuo di numerosi colpi d’arma da fuoco. Prima che nostra madre
ci facesse correre al riparo riuscimmo a capire che si trattava di
spari provenienti dall’ultimo piano del vicino “palazzo balbo”
e diretti verso la piazza antistante il Colosseo dove s’era fermato
un piccolo carro armato leggero, italiano, dal quale un soldato,
sempre italiano, si capiva dall’elmetto, rispondeva al fuoco con
l’aiuto di un piccolo cannoncino. Anche questa battaglia non durò
molto perché il carrista riuscì a centrare le finestre dalle quali
erano stati sparati i colpi iniziali. Un passo indietro. Nostra madre
ci fece sì riparare ma anziché scendere in cantina, considerata la
rapidità dell’accaduto, si attaccò alle mani di noi quattro
fratelli e ci fece fermare, lei compresa, sotto una specie di muro
maestro che divideva un corridoio di casa dalla cucina solo che la
finestra di questa cucina affacciava sul cortile interno del nostro
fabbricato confinante con altri di questi tra i quali anche “palazzo
balbo” e quindi abbiamo potuto veder sfrecciare numerosi proiettili
che non riuscendo inizialmente a centrare le finestre in questione
colpivano quelle di un altro edificio. Insomma l’importante fu che,
centrato l’obiettivo, gli spari terminarono con l’esito finale
delle “due finestre colpevoli” distrutte rimanendo tali per molti
anni.Venimmo a sapere dopo qualche tempo che quasi tutti gli abitanti
di quel palazzo se la diedero a gambe lasciando campo libero a gran
parte dei cittadini confinanti i quali trafugarono tutto il
possibile. La severità o il timore, dei nostri genitori c’impedì
di partecipare. Quelli dopo il 10 settembre furono giorni tremendi
sia per l’occupazione nazista e le malefatte dei fascisti sia per
le numerose questioni legate alla sopravvivenza.
Dovevo
ancora compiere 14 anni ed ora, a distanza di 68 anni, torno a dirmi
che quella, nonostante la spensieratezza dovuta all’età non fu per
me una bella primavera. Ma non soltanto per me. Tre episodi di cui ho
ancora memoria sono parte di quel periodo: Via Rasella e dintorni,
Stazione Ostiense, Colosseo. In ordine cronologico,dal 23 marzo al 4
giugno del ’44, liberazione di Roma da parte degli alleati, vissi
quei 74 giorni in un modo particolare. Nel marzo del ’44, durante
il periodo della seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio chiesto
agli anglo-americani nel settembre del ’43 Roma, dichiarata “città
aperta”, insieme a gran parte dell’Italia si trovava sotto
l’occupazione dei tedeschi con i quali collaboravano attivamente i
fascisti. Quasi ogni giorno, inventando chissà quali scuse, riuscivo
a sfuggire alla sorveglianza di nostra madre, ad uscire da casa e a
bighellonare in giro per la città. A quei tempi io e i miei tre
fratelli abitavamo sin dalla nascita, insieme ai nostri genitori, a
meno di duecento metri dal Colosseo. Questa posizione centrale mi
consentiva pertanto di girare per Roma, soprattutto verso il centro
storico della città, senza alcuna necessità di dover usare mezzi
pubblici, anche perché ne circolavano pochissimi e io neppure avevo
soldi per poterne usufruire. Alcune volte in realtà presi qualche
filobus ma soltanto perché mi attaccavo pericolosamente ai due
avvolgifili in metallo posti dietro i filobus stessi. Per pura
combinazione il 23 marzo del ’44, giorno dell’attacco dei
partigiani del GAP, in Via Rasella dove morirono 33 militari delle SS
, altoatesini volontari e due civili italiani, intorno alle 17
gironzolavo nei pressi della centralissima Piazza Colonna e stavo
percorrendo Via del Tritone per girare poi in Via del Traforo e fare
ritorno a casa. Ma, appena arrivato al Largo del Tritone vicino al
palazzo del quotidiano romano “Il Messaggero”, trovai la strada
bloccata da un cordone di militari italiani e tedeschi. Gli italiani,
guardie di finanza e i tedeschi, SS, stretti l’uno all’altro,
avevano formato una barriera invalicabile circondando tutta
l’intera zona intorno a via Rasella, Via del Tritone, Piazza
Barberini, Via Quattro Fontane e Via del Traforo. Dovevo
necessariamente passare di là, percorrere tutto il traforo - o
tunnel - che collegava e collega tuttora Via del Tritone con Via
Nazionale e quindi procedere per Via dei Serpenti, Via degli
Annibaldi e arrivare infine a casa. Sebbene per tutta la durata della
guerra, ma anche oltre, il traforo fosse stato adattato a rifugio
antiaereo, era ugualmente percorribile sistemato in modo opportuno
con murature sia all’entrata che all’uscita e dotato di condotti
per l’aerazione. Con l’ingenuità derivante dalla mia
giovanissima età, non conoscendo i motivi di quello sbarramento dato
che l’attacco alla compagnia di polizia delle SS era avvenuto oltre
un’ora prima e io non ne sapevo niente, mi avvicinai
tranquillamente al cordone di militari e chiesi di poter passare.
Naturalmente
mi ero rivolto al militare italiano ma lui rispose che era
impossibile. Io insistetti affermandogli che se non fossi rientrato
presto a casa le avrei sicuramente buscate dai miei. Lui mi squadrò
da capo a piedi poi rivolse lo sguardo verso le due SS che gli
stavano ai lati, entrambe gli fecero un segno d’approvazione e lo
sbarramento si aprì lasciandomi passare. Soltanto tempo dopo venni a
sapere di quello che era successo lì in Via Rasella e del successivo
eccidio delle Fosse Ardeatine avvenuto il giorno seguente. Molte
vicende di quel tremendo periodo erano poco conosciute da me e dai
miei fratelli, un po’ per l’età, nel 1940 il più piccolo di noi
quattro aveva tre anni, il più grande dodici, e un po’ perché i
nostri genitori preferivano tenerci nascoste le brutture della
guerra. Ma soprattutto perché avevamo come primaria necessità
quella di sopperire alla penuria di cibo. La fame era qualcosa che
non sono riuscito ancora a dimenticare.
A
proposito di fame. In una giornata di quel periodo io con un gruppo
di miei coetanei abitanti nella mia stessa strada, eravamo venuti a
sapere che alla stazione Ostiense, più volte bombardata dagli aerei
americani – le famose fortezze volanti - c’erano dei treni
semidistrutti stracolmi di ogni sorta di cibo. Non ci pensammo due
volte, tutti baldanzosi ci recammo a piedi, alla detta stazione che
era ridotta in macerie e completamente deserta e vedemmo che c’erano
veramente alcuni vagoni-merci delle ferrovie con i portelli
scorrevoli spalancati. Come si usa dire, ci tuffammo a pesce ma,
anziché generi alimentari trovammo, in quello che restava dei
vagoni, soltanto materiale militare: giberne da soldato, munizioni
per le armi, gavette e altre cose dello stesso genere. Arraffammo lo
stesso quel che ritenevamo poterci ricavare qualcosa e ci accingemmo
a riprendere la strada verso casa. Quando, improvvisamente, dal
recinto semidistrutto della stazione, lentamente e silenziosamente
fece il suo ingresso un‘autovettura scoperta con dentro quattro
militari tedeschi tra i quali un ufficiale. Fermatasi l’auto ad un
centinaio di passi da noi, l’ufficiale tedesco, a voce alta e tono
autoritario, ci fece capire che dovevamo avvicinarci a lui. Il tratto
del percorso era tutto allo scoperto e noi eravamo totalmente in
preda alla paura. Quasi tutti del gruppo riuscirono ad estrarre dalle
tasche quanto prelevato dai vagoni-merci e a farlo cadere in terra
man mano che ci si avvicinava ai militari tedeschi, io invece, che
avevo avuto la bella idea di portarmi via una sciabola da carabiniere
con l’elsa sull’impugnatura che sembrava d’oro, dovetti far
finta di camminare zoppicando perché l’arma in questione ero
riuscito a nasconderla sotto la maglietta e la gamba del pantalone,
dalla parte sinistra. L’ufficiale, dai gesti che riuscimmo ad
interpretare, ci fece una forte ramanzina e ci ordinò, a gesti, di
uscire subito dalla stazione, cosa che ci affrettammo a fare e pure
di corsa, eccetto me che seguitavo a zoppicare. Ci andò bene. Tenni
quell’arma per parecchi anni, ad imperitura memoria del mio
scriteriato “gesto eroico”, però sempre ben tenuta nascosta da
mia madre. Poi, dopo sposato e andato via da casa, ho perso le sue
tracce. Chissà dov’è andata a finire.
Il
4 giugno del ’44 era una bella giornata di sole. Sentimmo sin dal
mattino un rumore di autocarri, carri armati leggeri, moto che
transitavano proprio vicino casa nostra. Incuriosito uscii abbastanza
presto e vidi una lunga fiumana di uomini e mezzi tedeschi piuttosto
male in arnese che si avviavano verso Via dei Fori, Piazza Venezia e
da lì verso l’uscita della città. Era la ritirata delle truppe
tedesche che andavano verso il Nord dell’Italia incalzati dagli
alleati che ormai si trovavano alle porte di Roma. Verso metà della
mattinata un discreto numero di soldati tedeschi, per concedersi un
po’ di riposo, si accamparono intorno al Colosseo. Introdussero
persino alcuni carri leggeri nelle piccole cavità ad arco poste alla
base del grande anfiteatro, forse per ripararsi dal sole o da chissà
che cosa. L’intera area circostante il grande monumento era
gremita di soldati ma anche di gente delle case vicine e si
fraternizzava volentieri. Fra loro c’ero anch’io che curiosavo
qua e là. Guardandomi intorno vidi che in una di quelle cavità era
stato fatto entrare un carro armato leggero ai piedi del quale,
seduto in terra, senza elmetto, sudato e dal volto stanco, biondo,
giovane, sostava uno di quei soldati che stava mangiando qualcosa. Mi
avvicinai e, senza dire una parola, mi misi a guardarlo. Lui che
evidentemente si era accorto di me, altrettanto silenziosamente mi
porse una grossa fetta di pane bianchissimo ricoperto di burro o
margarina, non ricordo bene. Non stetti lì a sottilizzare. Afferrai
quello che mi veniva offerto e lo divorai. Feci appena in tempo
perché sentii, io e tutti gli altri, il rumore di un aereo,forse un
ricognitore, che si stava avvicinando e che, appena vide la scena
cominciò a mitragliare in lungo e in largo. Fu un fuggi fuggi
generale, ma non tutti se la cavarono. Tornai dopo più di un’ora
per rendermi conto di quello che era successo e vidi che quel carro
leggero al quale mi ero accostato in precedenza era andato
completamente distrutto ed ancora bruciava, mentre non c’era
nessuna traccia del soldato tedesco. Mi augurai si fosse salvato.
Ancora
oggi, quella piccola cavità lì al Colosseo reca i segni del carro
che aveva preso fuoco.
Il 4
giugno 1944, dopo l'occupazione da parte dei nazisti, Roma venne
liberata dagli anglo-americani i quali poi la "tennero occupata"
per un bel po' di tempo. Dall'inizio del 1945 io avrò cambiato
almeno tre volte il tipo di lavoro, ma per un periodo abbastanza
lungo svolsi l'aiuto di qualcuno presso il Teatro Galleria, dentro
la Galleria Alberto Sordi già Colonna: una volta del guardaporta,
un'altra del macchinista e un'altra ancora dell'aiuto elettricista.
Tutte le sere rientravo a casa dopo la mezzanotte, facendomi la
strada a piedi da Piazza Colonna passando per Fontana di Trevi, Largo
Tritone, il Traforo sotto il Quirinale, via Nazionale, via dei
Serpenti, via degli Annibaldi, via del Fagutale fino a via della
Polveriera. Numerosi sono gli episodi di quel periodo che, se
riuscissi a ricordandomeli tutti, potrei raccontarne un notevole
numero, però mi limito a parlarne soltanto di tre aventi come
protagonisti altrettanti soldati americani.
L'AMERICANO
N.1, che conobbi fu un sergente maggiore dell'esercito, nativo di
Derby nel Connecticut, del quale ricordo ancora nome e cognome. Ci
siamo tenuti in contatto tramite posta per molti anni, almeno una
decina. Adesso che ci penso mi rammarico di una cosa. Lui m'informò
che a Derby aveva una moglie e un figlio, che era proprietario di
un'impresa, non ricordo di che tipo, e che lavorava con lui, oltre ad
un gruppo di dipendenti, anche una giovane segretaria
italo-americana. Malgrado io abbia dovuto affrontare lunghi periodi
di disoccupazione, non mi venne mai in mente di dirgli se potevo
andare a lavorare nella sua impresa lì in America. Forse molte cose
sarebbero cambiate per me. In meglio o in peggio non lo so. Tornando
a quel sergente, una sera, all'ingresso del teatro, sia all'inizio
dello spettacolo di varietà in programma, sia al termine
m'interpellò chiedendomi se a Roma c'erano dei reparti di boy-scout.
Malgrado lui parlasse pochissimo l'italiano, altrettanto io
l'inglese riuscimmo però a capirci e al mio diniego mi disse che lui
in America era un capo degli scout e che avrebbe avuto piacere
incontrare qualcuno per formarne un reparto qui da noi. L'indomani
mattina ne parlai agli amici, anche a quelli più grandi di noi, i
quali quasi tutti aderirono. In breve, grazie a questo soldato del
Connecticut formammo uno dei primi reparti di scout laici del
C.N.G.E.I. - Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani.
L'AMERICANO
N.2, mi capitò di conoscerlo una delle sere o meglio delle notti in
cui rientravo a casa dal lavoro. Arrivato a via degli Annibaldi
successe un fatto incredibile.
Per
chi non la conosce devo fare necessariamente una descrizione un po'
noiosa di questa via perché si possa raffigurare meglio l'accaduto.
La via di cui parlo inizia da via Nicola Salvi di fronte al Colosseo
e, scendendo, termina in via Cavour. Lungo entrambi i lati vi sono
due muraglioni: all'inizio bassi fino metà dell'altezza di un uomo
poi alti una quindicina di metri quando si arriva in via Cavour.
Quella notte io che provenivo da via dei Serpenti e avevo
attraversato via Cavour stavo iniziando il percorso di via degli
Annibaldi quando da uno dei due muri più alti piombò dinanzi ai
miei piedi qualcosa di voluminoso e pesante. Per un pelo non mi aveva
sotterrato. Una coppia che camminava davanti a me, udito quel forte
colpo si era voltata e si era avvicinata per vedere cosa era
successo. Ad un certo punto sentimmo dei flebili lamenti che
provenivano dal "coso caduto". Malgrado la strada fosse
semibuia io e la coppia ci chinammo per capire di cosa si trattava.
Ci guardammo in faccia increduli: era un militare americano di
colore, completamente sbronzo. Farfugliando non so cosa cominciò a
muoversi per tentare di alzarsi, noi lo aiutammo, cercammo di fargli
capire che volevamo chiamare "l'ambulance della Red Cross"
ma lui invece faceva gesti di diniego e si svincolava da noi. Come se
fosse atterrato col paracadute anche se un po' barcollante, si avviò,
imboccò via Cavour e se ne andò verso via dei Fori. Mi parve
addirittura di sentirlo fischiettare. Ad ogni modo, contento perché
era vivo,gli gridai dietro "piacere d'averti conosciuto Joe".
L'AMERICANO
N.3, forse si chiamava John o chissà come quando lo vidi ma non
riuscii a capirlo. Sempre una delle volte in cui, tornando a casa
dopo mezzanotte camminavo lungo via dei Serpenti, a metà della
stessa via mi accorsi che un militare americano, bianco, capelli
nerissimi, stava seduto su alcuni gradini di un piccolo negozio
chiuso e si lamentava. Mi avvicinai, mi accorsi che era ubriaco, gli
chiesi se c'era qualcosa che non andava e lui, con un filo di voce e
un linguaggio mezzo italiano condito dal dialetto siciliano mi
rispose:
"picciutteddu...u
vedesti chi minchiata fecero a mia?" (ragazzino, hai visto che
cavolata mi hanno fatto?)
"cu
fu?" (chi era?)
"e
che ne saccio, scuru era...talia chista banna" (e che ne so, era
buio, guarda qui)
"minchia!
Cuteddata fu? (cavolo! È stata una coltellata?)
"no,
vasata di fimmina fu, ma che minchia vai dicenno?" (no, è stato
bacio di donna, ma che cavolo vai dicendo) ...e svenne mentre dalla
ferita usciva sangue.
Feci
cenno ad un signore che fortunatamente stava passando nei pressi, in
fretta gli spiegai la faccenda ed insieme ci recammo in una vicina
uscita laterale della sede centrale della Banca d'Italia e a una
guardia di finanza lì in servizio gli raccontammo tutto. Fece un
paio di telefonate dopo le quali arrivò la Polizia Militare
Americana e un'ambulanza. Spiegai nuovamente come stavano le cose e,
dopo alcuni accertamenti, mi lasciarono tornare a casa
tranquillamente.
Ripensando
all'accaduto credo che quel militare americano non poteva chiamarsi
John.
Scommetto
che si chiamava Caliddru (Calogero), il mio secondo nome.
32 commenti:
Chissà se per te sarebbe andata meglio, in America, a lavorare nella ditta del tuo Americano n°1...
Di certo sarebbe andata un po' peggio per il mondo dei blogger italiani... :)
Certo che ne ai passate di avventure in quel periodo certamente se tu fosi andato in America a far fortuna
noi blogger non avremmo avuto la fortuna di poter leggere queste tue storie ciao aldo
buona serata.
Caro Caliddru,
ma sai che leggendo il tuo post ho visto, come in un film, svolgersi un pezzo della storia d'Italia? Vista nei suoi eventi concreti, nelle storie di ogni giorno della gente costretta a vivere, senza averlo scelto, le brutture della guerra.E l'incoscenza dei ragazzini uguale dappertutto, ma particolarmente pericolosa in tempi di guerra.
i tuoi racconti sono sempre appassionanti, ma la testimonianza di questi eventi, vissuti in uno dei periodi più difficili della nostra storia, è veramente una rarità coinvolgente.
Ho avuto la fortuna di cominciare i miei ricordi quando si avviava la ricostruzione di tutto quello che la guerra aveva distrutto.
Grazie Aldissimo. robi
Caro Aldo,
ci hai fatto rivivere la storia vera di quegli anni, con il tuo racconto così ricco di particolari . Ho trovato corrispondenza nel romanzo di Elsa Morante, La Storia, sul bombardamento al quartire S.Lorenzo e la famiglia di Useppe con gli eroismi della madre e di tutti, perché come affermi, la fame era patita da tutti.
Meno male che ti hanno fatto passare il tunnel e tornare a casa.
Non so immaginare se tu avessi pensato di recarti nel Connecticut, magari ci scrivevi un blog tutto in americano :)
Un abbraccio Nou
Acci e poi denti...avevo lascito due commenti appena hai pubblicato....ma dove son finiti???? Mah.
Nel primo, più o meno (ma quanto è difficile-santa paletta- ripescare pensieri che ti erano venuti bene?!) dicevo che erano tempi davvero difficili soprattutto per le persone più fragili e indifese come voi che eravate ragazzini . E dicevo anche che, forse, in un certo senso vi ha "salvato" la sconsideratezza che si ha quando si è adolescenti. Ma, soprattutto, mi viene da pensare, leggendo il fluire impetuoso della tua narrazione , a tutte le paure e preoccupazioni che ha dovuto affrontare la vostra mamma.
E poi avevo anche scritto se, per favore , ingrandivi un po' il carattere del testo; vedo che l'hai fatto, GRAZIE.
e Mò VEDIAMO SE SPARISCONO ANCHE QUESTI....AH...AH...AH... FELICE NOTTE ALDO
Anch'io, come Nou, ho pensato al romanzo della Morante leggendo la tua testimonianza. Grazie caro Aldo, per la tua memoria.
Il film? Un Capolavoro.
se fossi regista, vorrei dirigere questo film ;)
La tua memoria è preziosa per tutti gli amici che ti stimano. Un abbraccio Aldone!!
Che bei racconti, Aldo!
E si, veru è, non si putia chi chiamari Calogero ;-))
Fallo ancora Aldo, racconta quello che la tua memoria riporta a galla.
Ha ragione Punzy, è la partitura di un film ;-))
Notte buona Aldo ;-))
E' fatale che in questo tuo racconto, che tra me e me, conoscendoti un po', aspettavo da tempo, anche se potevo solo intuire, non certo immaginare tutti i pericoli che hai passato in quel tragico periodo, é fatale, dicevo, che vi si trovino le connessioni con tante degne opere dell'ingegno umano, tra le quali a me vengono prima di tutto in mente diversi film, di cui permettimi di citare almeno "Roma città aperta" di Rossellini e "Roma" di Fellini.
A parte il fatto che se hai vissuto quei momenti significa che hai una certa età, ricordare quei tragici avvenimenti, terminati poi con la ripresa della vita normale,deve essere molto bello, specialmente per chi, come te, ha un'ottima memoria, anche visiva.
E' fantastico leggerti!
Cristia'
Che post fiume, Aldo: sembra quasi che il racconto sia sgorgato ininterrotto dalla tua memoria, srotolandosi come un film ancora vivido... Vita vissuta che ha segnato la pelle e l'anima dei ragazzini di allora, te compreso, e compresa mia madre, che viveva a San Lorenzo e che il terribile 19 luglio corse a casa sotto il bombardamento, eludendo la vigilanza degli educatori della palestra dei Cavalieri di Colombo dove lei stava giocando, che trattennero dentro per proteggerli tutti i bambini che vi si trovavano quando la morte cominciò a cadere dal cielo (non era la prima volta che suonavano le sirene dell'allarme antiaereo; ma era la prima volta che a quelle sirene seguiva lo sterminio) causando involontariamente il ferimento e la morte di molti di loro quando la palestra venne colpita; e suo fratello, che si rifugiò nella casa del portiere a pianoterra (la casa del portiere, che rifugio!) insieme agli altri inquilini e che ebbe il conforto di vedersela correre incontro e stringersela al petto; e sua madre, che si trovava a piazza Bologna e che, all'annuncio del bombardamento, disperata per la sorte dei figli, si diede a correre come una pazza, ogni tanto acchiappata e nascosta da qualcuno sotto un portone, schivando le schegge ma anche i proiettili delle mitragliatrici degli americani che si abbassavano quasi fino a terra per sparare a chiunque si muovesse, e che quando arrivò miracolosamente incolume nel quartiere, e vide tutti i palazzi sventrati e distrutti meno il suo, crollò svenuta; e anche suo padre, che faceva servizio all'artiglieria contraerea a La Storta, richiamato, e che il giorno dopo tornò a piedi da lì, facendosi decine di chilometri, per vedere che fine aveva fatto la sua famiglia... Mai, mai dimenticare tutto questo. Mai.
mamma mia che racconto, quando senti questi racconti dalla voce di chi li ha vissuti ti fanno tutto un altro effetto
Caro Aldo La grande storia vista attraverso gli occhi dei protagonisti diventa un vero patrimonio di conoscenza e di crescita civile.
Quanta ricchezza di vita, esperienza e umanità.
Testimonianze come queste tue sono veramente importanti da far conoscere a chi di quegli avvenimenti ha solo sentito parlare.
Grazie di condividerle con noi.
Da film, sembra, questa scena di te che zoppichi per la sciabola. Da film neorealista.
"Cadevano le bombe come neve,
il diciannove luglio a San Lorenzo.
Sconquassato il Verano, dopo il bombardamento.
Tornano a galla i morti e sono più di cento..."
Son le parole della canzone di Francesco De Gregori che mi son tornate alla mente leggendo questo post importante per non perder la memoria del ventesimo secolo. Un caro saluto, Fabio
Bisognerebbe fare un film su ciò che hai scritto sarebbe davvero un capolavoro.
Che storia...è un incanto leggerti!!!!!
un abbraccio
stavolta non ti sei risparmiato con i ricordi, son dovuto tornare due volte per finire di leggere. Comunque bravo le tue storie, i tuoi ricordi per noi sono dempre interessantissimi spaccati di vita.
si è decisamente un film, un saluto Aldo
CIAO ALDO, UN ABBRACCIO DI...QUASI FINE SETTIMANA.
E' bello leggere i tuoi ricordi, gli amici ti ringraziano. Un abbraccio Aldo. N & R.
Un racconto che è una importantissima pagina di storia!
Caro Aldo,racconti in modo splendido...come sempre... complimenti!!!
Quanti ricordi...
Chissà quanta ansia e paura per voi da parte di Tua madre...
Le Tue testimonianze sono preziose e cariche di emozioni.
A presto
un racconto mozza fiato, che vita vissuta, che paura i bombardamenti, i proiettili, nonostante l'incoscienza della giovane età sei stato davvero coraggioso, caro Aldarè. Solo chi ha provato la guerra sa cosa significa avere fame, lo diceva anche mia nonna. ti abbraccio Alessandra
Ho fatto due post dedicati al giorno della memoria che ti invito a leggere e, se vuoi, a commentare.
L'ho letto tutto tutto...una pagina di storia vera, scritta da un vero uomo...la verità solo la verità. Mi hai appassionata.
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