domenica 28 febbraio 2010

SCUSI, LEI SCENDE ALLA PROSSIMA?

'Sto episodio di oggi per poterlo comprendere meglio è necessario farlo partire da lontano, diciamo dall'inizio. Da quando nacqui.
Ormai non ci sono più dubbi e quindi mi sono rassegnato: io non sono nato con la camicia.
Così si dice di chi è sfortunato. Ed io lo fui, lo sono e, da come vanno le cose, penso lo sarò ancora.
Qualche passo indietro. Poco prima della fine di novembre dello scorso anno mi arriva una lettera dall'ente di previdenza sociale con la quale vengo informato che la pensione di dicembre compresa la tredicesima viene ridotta di circa 300 euro. Per poco non mi prende un coccolone. Già la pensione è bassa – un deputato prende in un mese quanto io in due anni – mi viene ridotta ancora, indicatemi prego un luogo per fare Karakiri.
Il 30 novembre mi precipito presso l'ente suddetto, prendo il numeretto, faccio la fila e quando tocca a me faccio presente all'impiegato come stanno le cose. Dopo qualche cliccata al suo pc che spero si chiami pasquale, m'informa che le cose stanno messe male nel senso che a suo tempo non ho presentato la documentazione richiesta per fruire delle detrazioni per redditi di pensione – quello solo è il mio reddito – e per carichi di famiglia. Niente affatto dico io e gli mostro il documento dal quale risulta che la documentazione è stata regolarmente trasmessa al medesimo ente, tramite pc, sin dal mese di maggio sempre dell'anno scorso. L'impiegato riclicca, sbircia, si alza per andare a parlarne con un collega, ritorna e mi dice, molto dispiaciuto per la verità, che in quel periodo i pc dell'ente pare abbiano avuto qualche problema – e ti pareva? - quindi occorreva ripetere la richiesta. Molto gentilmente mi fornisce un modulo, lo compilo, glielo consegno, lo controlla, lo sistema con alcune precisazioni, m'informa che adesso la pratica è a posto, mi assicura che entro breve tempo riceverò quanto dovutomi e mi saluta cordialmente mentre io men vo. A metà gennaio di questo nuovo anno 2010, un paio di giorni dopo aver riscosso il rateo di pensione relativo appunto a gennaio – importo ridotto - mi arriva una lettera dall'ente con la quale mi viene comunicata che a partire dal primo di quello stesso mese digennaio, avrei percepito la pensione aumentata di 200 e passa euro. Ma come è possibile? Alla posta non risulta. Mi armo di pazienza, decido di attendere il rateo di febbraio certo di riscuoterlo con gli arretrati che mi spettano. Nel frattempo mi dedico alla lettura più accurata delle cifre indicate dall'ente nella lettera appena arrivatami e noto che, rispetto all'anno precedente, la mia pensione cala di circa 60 euro mensili mentre la trattenuta Irpef aumenta dello stesso identico importo. Per la miseria mi sono detto, qui c'è qualcosa che non quadra. Chissà perchè mi risuona nelle orecchie una frase "noi non metteremo le mani nelle tasche degli italiani".
Nelle mie però si e allora? Decido comunque di aspettare febbraio, vado alla posta e...amara sorpresa: nessuna traccia degli arretrati e la pensione sempre inferiore a quella dell'anno precedente. Basta. Ormai devo fare qualcosa. Il 18 febbraio torno nuovamente all'ente, questa volta con la mia guardia, cioè mio figlio ,il quale ha voluto assolutamente accompagnarmi temendo chissà quale insana reazine da parte mia. Solita trafila: numeretto, attesa e poi finalmente siamo ricevuti da un'impiegata, una bella guagliona per la verità, parecchio prosperosa, giovane, con un sorriso a sessantaquattro denti ma soprattutto gentilissima.Le racconto l'odissea, prende atto della situazione, mi fa domande e io le rispondo, mi compila lei un modulo e poi mi assicura che probabilmente entro marzo riceverò gli arretrati di gennaio e febbraio mentre per quelli di dicembre devo compilare un 730 e per questo mi indirizza da un suo collega, facendogli persino una telefonata di preavviso e noi ci andiamo. Devo esserle risultato simpatico. O io o mio figlio? Il collega mi spiega quello che devo fare, prima del 5 marzo però si raccomanda; io gli chiedo delucidazioni in quanto il Modello 730 che è una dichiarazione dei redditi lo deve fare chi ha altri redditi oltre la pensione non credo chi deve riscuotere arretrati. Lui mi dice che ho ragione ma trattandosi di una somma relativa al 2009 così si deve procedere. Oggi 26 febbraio 2010, con il fatidico - ma inspiegabile per me – mod.730, senza guardia del corpo, non resta che avviarmi verso l'ente.
Premetto che nella nostra caput mundi ci sono molte cose certe come ad esempio il traffico convulso alimentato dallo sfrecciare di auto blu e auto di scorta; almeno uno sciopero al giorno, due o tre cortei di protesta e altrettante manifestazioni quasi tutti i giorni. L'unica cosa incerta è il tempo che non si sa quali intenzioni abbia non dico l'indomani ma neppure dopo qualche ora. Fino a ieri qui a Roma la temperatura oscillava tra i 15 e i 16 gradi quindi oggi mi aspetto qualcosa di simile, ma già le previsioni meteo avvertono: cielo coperto e si scende a 13 gradi. Pazienza. Con l'ombrello in mano esco dal portone e una folata di vento gelido mi becca in pieno. Decido di prendere il bus anche se di strada non è molta però tutta in salita. Venti minuti di attesa riescono a congelarmi come un bastoncino di merluzzo, meglio come uno stoccafisso. Arriva uno di quei bus lunghi come un tir col rimorchio, quattro porte, anteriore e posteriore per la salita, le due centrali per la discesa. È affollatissimo, inizio a destreggiarmi tra un corpo umano e l'altro chiedendo sempre permesso e "SCUSI, LEI SCENDE ALLA PROSSIMA?". Giunto alla fermata la porta dalla quale dovrei scendere non si apre, scende l'autista e applica sulla porta medesima, dall'esterno, un foglio di carta con la scritta "Porta guasta". Sempre contorcendomi riesco a scendere a fatica dalla seconda porta e fatti pochi metri giungo a destinazione. Questa volta niente numeretto, niente fila e mi introducono direttamente dall'impiegato della volta precedente. Non la guagliona però. Nell'ufficio non c'è anima viva se non il "mio" impiegato il quale sta discutendo animatamente con un suo collega delle partite di calcio della domenica precedente e quelle della prossima: non sono tifosi della stessa squadra. Mi fanno accomodare, loro continuano ancora un po', il collega saluta e se ne va e io finalmente consegno al "mio" impiegato il Mod.730 con busta annessa. Lui lo guarda, lo esamina attentamente poi mi fa =ma perché ha compilato il 730 se lei oltre alla pensione non ha altri redditi?= Dentro di me maledico tutto quanto è possibile maledire, riesco a calmarmi, gli ricordo che era stato proprio lui a dirmi di compilare 'sto cavolo di 730. Dice va bene, va bene, clicca sul pc per una ventina di minuti, mi conferma che è tutto a posto poi mi dice che ad aprile mi arriverà una lettera dell'ente dove mi verrà chiesto di presentare il Mod.730, ma di non curarmene perché è quello che ho presentato quindi posso stracciare e buttare la lettera. Due domande gliele faccio però: quando posso avere quello che mi spetta relativamente al dicembre passato? E poi che mi spediscono a fare una lettera se io ho già fatto quello che c'era da fare? Sulla prima mi risponde che probabilmente arriverà qualcosa verso agosto mentre sulla seconda glissa.
Si aprirà una porta per me visto che desidero arrivare a scendere prima possibile da tutto questo?

mercoledì 24 febbraio 2010

E PERCHE' ME LEVATE ER PANE DA LA BOCCA?

Due episodi mi hanno costretto a pormi questa domanda.
Sono episodi che, lo ammetto, mi hanno un po' sconfortato.
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- PRIMO EPISODIO:
quasi tutti i giorni, a piedi, compio lo stesso percorso tanto che se camminassi a occhi chiusi non potrei mai smarrire la strada di casa.
Anche se qualche volta mi viene la fantasia di farlo.
I portici di Piazza Vittorio qui a Roma sono da me preferiti in quanto oltre a proteggermi dalle intemperie mi consentono di dare un occhiata – e solo quella – a numerosi negozi che possono soddisfare qualsiasi esigenza.
Lo "struscio" pedonale è continuo anche perché il porticato – pare risalente ai tempi della breccia di Porta Pia, epoca umbertina, anni 1870, io non c'ero lo giuro – è anche diventato una specie di salotto. Al riparo ma all'aperto. Quando tira vento però è meglio girare alla larga.
Qualche giorno fa stavo percorrendo il tratto di strada sotto l'ultimo portico di detta piazza quando vengo avvicinato da due ragazze forse non ancora ventenni, una delle quali, a voce alta, mi fa
= nonno, scusa, hai da fare?
Un po' colto di sorpresa, rispondo
= veramente no, perché?
Sempre la stessa, forse la più grande
= perché se vuoi passare un'oretta con noi non te ne pentirai...ci dai cinquanta euro a testa, co' cento euro te la cavi... Ti sembra tanto?
Con gli occhi spalancati, credo di essermi anche un po' impappinato, le dico
= ma scusatemi, voi due messe insieme arrivate appena alla metà dei miei anni. Come cavolo
faccio a passare un'ora con voi? E a che fare poi, le belle statuine? Mi pare che...
Mi devo interrompere perché un tizio, non molto più giovane di me, s'intromette tra noi e...
= involontariamente ho sentito quello che vi stavate dicendo e allora visto che l'amico qui mi sembra abbastanza indeciso non vi preoccupate ragazze ci penso io. Dove dobbiamo andare?...
Le prende sottobraccio e, insieme, si avviano sghignazzando verso la direzione opposta.
Stupito, mi riprendo, sto quasi per esplodere ripensando alle parole di quel tale: "involontariamente" e "amico", ma riesco a frenarmi.
Con un bel po' di fatica però in quanto qualche parolina dolce avrei voluta dirgliela.
E che diavolo: fammi capire almeno di che si tratta, no che arrivi tu e mi togli ogni eventualissima possibilità di...di...insomma di...Vabbe', non mi ricordo.
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- SECONDO EPISODIO:
fresco, fresco, quasi di giornata.
Mi trovo vicino casa, al rientro da un giro di acquisti di generi alimentari piuttosto urgenti quando vengo interpellato da una signora, in compagnia di altre due, tutte molto eleganti, dall'apparente età tra i cinquanta e i sessanta, dall'aspetto gradevolissimo compresi i loro capelli non tinti ma con alcune meches molto appropriate, insomma donne con le quali fa molto piacere intrattenere una conversazione e...non solo...
= ci scusi tanto signore, sappiamo che qui in zona c'è un negozio dove poter acquistare delle pietre di qualità e di vario tipo da usare per la bigiotteria..
Io rispondo subito poiché ricordo anch'io di aver visto tale negozio da queste parti
= sì, sì avete ragione, si trova proprio qui vicino...Dunque voi tornate leggermente indietro su questa stessa via poi...
La voce possente di un giovane dietro di me copre la mia e, rivolto verso le "tre grazie", aggiunge
= basta attraversare la piazza...seguitemi che vi faccio strada, tanto sono pochi metri...
E se ne vanno tutti lasciando me di stucco a domandarmi perchè mi viene levato il..........................
Non riesco a darmi una risposta.

domenica 21 febbraio 2010

A ROMA DAL '43 AL '45

ESTATE DEL '43
Non avevo ancora 13 anni ma sognavo tante cose tra le quali quella di andare al mare. Proprio così , ma tutti dovemmo smettere di andarci. Eppure il mare l’avevamo vicino, ad Ostia, distante circa 27-28 Km, poco più di 30 minuti di treno dalla stazione della ferrovia Roma-Lido vicino Porta S.Paolo, luogo dove si svolse un episodio da ricordare. Quello che appresi fu che i bombardamenti degli anglo-americani avevano distrutto i binari di quella ferrovia, la stazione di Ostia, lo stabilimento balneare Roma e molto altro tanto che, nel timore di uno sbarco del “nemico”, furono costruiti sul litorale degli sbarramenti in cemento armato e disposta l’evacuazione della popolazione civile da quella zona. I bombardamenti a Roma ebbero inizio proprio nel periodo che andava dal luglio del ’43 al 14 agosto dello stesso anno quando Roma fu dichiarata Città aperta. Proseguirono però nei paesi intorno alla città, specialmente ai Castelli Romani. Tre anni di guerra avevano lasciato un brutto segno sugli italiani specialmente su chi viveva, o meglio cercava di sopravvivere, nelle piccole e grandi città. C’era molta insicurezza e insofferenza in giro: fame, paura e povertà regnavano sovrane. Quello era l’anno in cui dovevo ultimare la scuola media inferiore ma quasi per l’intera durata di quel periodo scolastico io e tre miei compagni di classe dei quali ricordo ancora il nome pensammo, male e da incoscienti, di dedicarci ad altro. Non frequentammo più la scuola dove eravamo stati iscritti dato che trascorrevamo il tempo libero rubato agli studi trastullandoci nei luoghi dell’antica Roma sul colle Palatino. Fummo tutti regolarmente bocciati. I bombardamenti a Roma sui quartieri Tiburtino, Prenestino, Casilino, Tuscolano e Nomentano, culminarono il 19 luglio ’43 nel tragico bombardamento del quartiere San Lorenzo dove ci furono migliaia di morti e feriti. Io e la mia famiglia abitavamo nei pressi del Colosseo, rione Monti, e non ricordo di aver sentito fragori di esplosioni probabilmente perché nostra madre ogni volta che suonava la sirena dell’allarme ci conduceva di corsa al ricovero antiaereo. Un giorno, verso l’ora di pranzo, l’allarme risuonò almeno sei o sette volte tanto che invece di andare al vicino ricovero, scendemmo nella cantina del nostro fabbricato che a tutto poteva servire meno che a ripararci neppure da un semplice mortaretto. Il pensiero, quello mio e penso anche quello dei miei fratelli, andava però al piatto di pasta e legumi che avevamo lasciato fumante sul tavolo nella stanza da pranzo nell’attesa di essere divorato, ma per nostra madre la priorità era andare a rifugiarci. Finalmente nel primo pomeriggio gli allarmi cessarono e per me il ricordo di quel 19 luglio fu sempre legato oltre che all’episodio della pasta e legumi anche al fatto che quando dovetti uscire da casa, credo per acquistare qualcosa dal vicino fornaio, assistetti al passaggio di un tram proveniente da San Lorenzo dal quale esalava un pessimo odore di bruciato di qualcosa poco gradevole che non seppi definire e che per molto tempo mi rimase nelle narici. Credo che proprio quel bombardamento sia stato uno dei motivi, se non il principale, per il quale il 25 luglio, sempre del ’43, si verificò la “caduta del fascismo”. Se non ricordo male la notizia fu diramata per radio il giorno dopo ed il giorno dopo ancora, 27 luglio, mentre di primo mattino ero intento a fare colazione in cucina con mia madre vicino sentii rientrare a casa mio padre che sventolava con la mano la prima pagina del principale quotidiano di Roma annunciante a titoli cubitali il festoso evento. Io presi la palla al balzo e, senza capire esattamente il significato di quell’avvenimento, sgaiattolai da casa e m’intrufolai in uno dei numerosi cortei di persone che festeggiavano sbandierando il vessillo tricolore recante al centro lo stemma di casa Savoia e gridando “viva il re e abbasso il duce” mentre a forza di picconate smantellavano ogni sia pur piccolo simbolo del fascismo che fu. E pensare che io e mio fratello più grande dovemmo fare obbligatoriamente tutta la “carriera” di quell’epoca: figli della lupa a 4 anni, poi balilla, poi ancora balilla moschettiere e sempre in camicia nera. Un episodio di quel tempo fece comprendere a molti che i fascisti non fossero del tutto rassegnati né scomparsi. Me ne resi conto personalmente perché vi assistetti affacciato alla finestra di casa. Alcuni giorni dopo il 25 luglio due padri di famiglia inquilini nel fabbricato dove abitavamo anche noi, ingaggiarono uno scambio di revolverate contro un paio di fascisti rifugiatisi in una delle aule della facoltà d’ingegneria che confinava con la nostra strada. Per prima cosa non avevo mai saputo che quei due nostri coinquilini erano antifascisti e per di più in possesso di armi poi però mi domandai che cosa poteva significare quella piccola “battaglia”. Quando ad agosto del ’43 fu dichiarata Città Aperta a Roma si respirava una certa tranquillità. L’8 settembre di quell’anno fu firmato l’armistizio tra il governo italiano e l’esercito anglo-americano, ma il giorno dopo ci fu la fuga da Roma dei reali d’Italia. Tutti si dissero che la guerra era ormai terminata invece il 10 settembre ci furono aspri combattimenti, con morti e feriti tra i soldati e i civili italiani, i quali si opponevano all’ingresso delle truppe tedesche a Roma, sia a Porta S.Paolo, il più importante, che in altre località della periferia cittadina. Invece la guerra purtroppo continuava, era cambiato il nemico. A 66 anni di distanza da quel periodo ricordo, per fortuna, soltanto poche cose. Intanto a volte mi sono chiesto e mi chiedo ancora, ma…i miei tre fratelli che facevano? I due più piccoli rispettivamente di 6 e 9 anni probabilmente erano tenuti a bada da mamma mentre il più grande, 15 anni, dove s’era andato a cacciare? Il tredicenne, vale a dire io, si squagliò dal nido, sia pure ad intervalli e per brevi periodi. Mi ricordo un altro episodio verificatosi il 9 settembre, guarda un po’ il giorno del mio 13° compleanno. L’edificio nel quale abitavamo sin dal giorno della nascita di mio fratello più grande – 1928, confinava ad una distanza di pochi metri con un altro edificio abbastanza moderno per quell’epoca abitato quasi esclusivamente da gerarchi fascisti e loro sottoposti che aveva persino un nome: “palazzo Balbo” quadrunviro della marcia dei fascisti su Roma nel 1922. Ad un certo punto di quella giornata, se non ricordo male primo pomeriggio, sentimmo il rumore forte e continuo di numerosi colpi d’arma da fuoco. Prima che nostra madre ci facesse correre al riparo riuscimmo a capire che si trattava di spari provenienti dall’ultimo piano del vicino “palazzo balbo” e diretti verso la piazza antistante il Colosseo dove s’era fermato un piccolo carro armato leggero, italiano, dal quale un soldato, sempre italiano, si capiva dall’elmetto, rispondeva al fuoco con l’aiuto di un piccolo cannoncino. Anche questa battaglia non durò molto perché il carrista riuscì a centrare le finestre dalle quali erano stati sparati i colpi iniziali. Un passo indietro. Nostra madre ci fece sì riparare ma anziché scendere in cantina, considerata la rapidità dell’accaduto, si attaccò alle mani di noi quattro fratelli e ci fece fermare, lei compresa, sotto una specie di muro maestro che divideva un corridoio di casa dalla cucina solo che la finestra di questa cucina affacciava sul cortile interno del nostro fabbricato confinante con altri di questi tra i quali anche “palazzo balbo” e quindi abbiamo potuto veder sfrecciare numerosi proiettili che non riuscendo inizialmente a centrare le finestre in questione colpivano quelle di un altro edificio. Insomma l’importante fu che, centrato l’obiettivo, gli spari terminarono con l’esito finale delle “due finestre colpevoli” distrutte rimanendo tali per molti anni.
Venimmo a sapere dopo qualche tempo che quasi tutti gli abitanti di quel palazzo se la diedero a gambe lasciando campo libero a gran parte dei cittadini confinanti i quali trafugarono tutto il possibile. La severità o il timore, dei nostri genitori c’impedì di partecipare. Quelli dopo il 10 settembre furono giorni tremendi sia per l’occupazione nazista e le malefatte dei fascisti sia per le numerose questioni legate alla sopravvivenza. Tutto cominciò a migliorare dal giorno della liberazione di Roma da parte degli anglo-americani ma io non sono mai riuscito a dimenticare quel periodo dell’estate del '43.
PRIMAVERA DEL '44
Dovevo ancora compiere 14 anni ed ora, a distanza di oltre sei decenni, torno a dirmi che quella, nonostante la spensieratezza dovuta all’età non fu per me una bella primavera. Ma non soltanto per me. Tre episodi di cui ho ancora memoria sono parte di quel periodo: - Via Rasella e dintorni - Stazione Ostiense - Colosseo . In ordine cronologico,dal 23 marzo al 4 giugno del ’44 (liberazione di Roma da parte degli alleati), vissi quei 74 giorni in un modo particolare. Secondo di quattro fratelli, tutti maschi, sono stato sicuramente il più discolo e la disperazione dei miei genitori purtroppo, fino al compimento del diciottesimo anno d’età. Poi, per fortuna, avvenne in me un radicale cambiamento; ma questa è un’altra storia e quindi torniamo a quei giorni. Nel marzo del ’44, durante la seconda guerra mondiale (10 giugno 1940-25 aprile 1945), dopo l’armistizio chiesto agli anglo-americani nel settembre del ’43, Roma, dichiarata “città aperta”, insieme a gran parte dell’Italia, si trovava sotto l’occupazione dei tedeschi con i quali collaboravano attivamente i fascisti repubblichini di Salò. Quasi ogni giorno, inventando chissà quali scuse, riuscivo a sfuggire alla sorveglianza di nostra madre, ad uscire da casa e a bighellonare in giro per la città. A quei tempi io e i miei fratelli abitavamo sin dalla nascita, insieme ai nostri genitori, a meno di cento metri dal Colosseo. Questa posizione centrale mi consentiva pertanto di girare per Roma, soprattutto verso il centro storico della città, senza alcuna necessità di dover usare mezzi pubblici, anche perché ne circolavano pochissimi e io neppure avevo soldi per poterne usufruire. Alcune volte in realtà presi qualche filobus ma soltanto perché mi attaccavo pericolosamente ai due avvolgifili in metallo posti dietro i filobus stessi. Per pura combinazione il 23 marzo del ’44, giorno dell’attacco dei partigiani del GAP, in Via Rasella dove morirono 33 militari delle SS – altoatesini volontari – e due civili italiani, intorno alle 17 gironzolavo nei pressi della centralissima Piazza Colonna e stavo percorrendo Via del Tritone per girare poi in Via del Traforo e fare ritorno a casa. Ma, appena arrivato al Largo del Tritone vicino il palazzo del quotidiano romano “Il Messaggero”, trovai la strada bloccata da un cordone di militari italiani e tedeschi. Gli italiani, guardie di finanza e i tedeschi, SS, stretti l’uno all’altro, avevano formato una barriera invalicabile circondando tutta l’intera zona intorno a via Rasella - Via del Tritone, Piazza Barberini, Via Quattro Fontane e Via del Traforo. Dovevo necessariamente passare di là, percorrere tutto il traforo - o tunnel - che collegava e collega tuttora Via del Tritone con Via Nazionale e quindi procedere per Via dei Serpenti, Via degli Annibaldi e arrivare infine a casa. Sebbene per tutta la durata della guerra, ma anche oltre, il traforo fosse stato adattato a rifugio antiaereo, era ugualmente percorribile sistemato in modo opportuno con murature sia all’entrata che all’uscita e dotato di condotti per l’aerazione. Con l’ingenuità derivante dalla mia giovanissima età, non conoscendo i motivi di quello sbarramento dato che l’attacco alla compagnia di polizia delle SS era avvenuto oltre un’ora prima e io non ne sapevo niente, mi avvicinai tranquillamente al cordone di militari e chiesi di poter passare.
Naturalmente mi ero rivolto al militare italiano ma lui rispose che era impossibileIo insistetti affermandogli che se non fossi rientrato presto a casa le avrei sicuramente buscate dai miei. Lui mi squadrò da capo a piedi poi rivolse lo sguardo verso le due SS che gli stavano ai lati, entrambe gli fecero un segno d’approvazione e lo sbarramento si aprì lasciandomi passare. Soltanto tempo dopo venni a sapere di quello che era successo lì in Via Rasella e del successivo eccidio delle Fosse Ardeatine avvenuto il giorno seguente. Molte vicende di quel tremendo periodo erano poco conosciute da me e dai miei fratelli, un po’ per l’età, nel 1940 il più piccolo di noi quattro aveva tre anni, il più grande dodici, e un po’ perché i nostri genitori preferivano tenerci nascoste le brutture della guerra. Ma soprattutto perché avevamo come primaria necessità quella di sopperire alla penuria di cibo. La fame era qualcosa che non sono riuscito ancora a dimenticare.
A proposito di fame. In una giornata di quel periodo io con un gruppo di miei coetanei abitanti nella mia stessa strada, eravamo venuti a sapere che alla stazione Ostiense, più volte bombardata dagli aerei americani – le famose fortezze volanti - c’erano dei treni semidistrutti stracolmi di ogni sorta di cibo. Non ci pensammo due volte, tutti baldanzosi ci recammo, a piedi naturalmente anche se il percorso non era breve, alla detta stazione che era ridotta in macerie e completamente deserta e vedemmo che c’erano veramente alcuni vagoni-merci delle ferrovie con i portelli scorrevoli spalancati. Come si usa dire, ci tuffammo a pesce ma, anziché generi alimentari trovammo, in quello che restava dei vagoni, soltanto materiale militare: giberne da soldato, munizioni per le armi, gavette e altre cose dello stesso genere. Arraffammo lo stesso quel che ritenevamo poterci ricavare qualcosa e ci accingemmo a riprendere la strada verso casa. Quando, improvvisamente, dal recinto semidistrutto della stazione, lentamente e silenziosamente fece il suo ingresso un‘autovettura scoperta con dentro quattro militari tedeschi tra i quali un ufficiale. Fermatasi l’auto ad un centinaio di passi da noi, l’ufficiale tedesco, a voce alta e tono autoritario, ci fece capire che dovevamo avvicinarci a lui. l tratto del percorso era tutto allo scoperto e noi eravamo totalmente in preda alla paura. Quasi tutti del gruppo riuscirono ad estrarre dalle tasche quanto prelevato dai vagoni-merci e a farlo cadere in terra man mano che ci si avvicinava ai militari tedeschi, io invece, che avevo avuto la bella idea di portarmi via una sciabola da carabiniere con l’elsa sull’impugnatura che sembrava d’oro, dovetti far finta di camminare zoppicando perché l’arma in questione ero riuscito a nasconderla sotto la maglietta e la gamba del pantalone, dalla parte sinistra. L’ufficiale, dai gesti che riuscimmo ad interpretare, ci fece una forte ramanzina e ci ordinò, a gesti, di uscire subito dalla stazione, cosa che ci affrettammo a fare e pure di corsa, eccetto me che seguitavo a zoppicare. Ci andò bene.Tenni quell’arma per parecchi anni, ad imperitura memoria del mio scriteriato “gesto eroico”, però sempre ben tenuta nascosta da mia madre. Poi, dopo sposato e andato via da casa, ho perso le sue tracce. Chissà dov’è andata a finire.
Il 4 giugno del ’44 era una bella giornata di sole. Sentimmo sin dal mattino un rumore di autocarri, carri armati leggeri, moto che transitavano proprio vicino casa nostra. Incuriosito uscii abbastanza presto e vidi una lunga fiumana di uomini e mezzi tedeschi piuttosto male in arnese che si avviavano verso Via dei Fori, Piazza Venezia e da lì verso l’uscita della città. Era la ritirata delle truppe tedesche che andavano verso il Nord dell’Italia incalzati dagli alleati che ormai si trovavano alle porte di Roma. Verso metà della mattinata un discreto numero di soldati tedeschi, per concedersi un po’ di riposo, si accamparono intorno al Colosseo. Introdussero persino alcuni carri leggeri nelle piccole cavità ad arco poste alla base del grande anfiteatro, forse per ripararsi dal sole o da chissà che cosa. L’intera area circostante il grande monumento era gremita di soldati ma anche di gente delle case vicine e si fraternizzava volentieri. Fra loro c’ero anch’io che curiosavo qua e là. Guardandomi intorno vidi che in una di quelle cavità era stato fatto entrare un carro armato leggero ai piedi del quale, seduto in terra, senza elmetto, sudato e dal volto stanco, biondo, giovane, sostava uno di quei soldati che stava mangiando qualcosa. Mi avvicinai e, senza dire una parola, mi misi a guardarlo. Lui che evidentemente si era accorto di me, altrettanto silenziosamente mi porse una grossa fetta di pane bianchissimo ricoperto di burro o margarina, non ricordo bene. Non stetti lì a sottilizzare. Afferrai quello che mi veniva offerto e lo divorai. Feci appena in tempo perché sentii, io e tutti gli altri, il rumore di un aereo,forse un ricognitore, che si stava avvicinando e che, appena vide la scena cominciò a mitragliare in lungo e in largo. Fu un fuggi fuggi generale, ma non tutti se la cavarono. Tornai dopo più di un’ora per rendermi conto di quello che era successo e vidi che quel carro leggero al quale mi ero accostato in precedenza era andato completamente distrutto ed ancora bruciava, mentre non c’era nessuna traccia del soldato tedesco. Mi augurai si fosse salvato.
Ancora oggi, quella piccola cavità lì al Colosseo reca i segni del carro che aveva preso fuoco.
In ordine cronologico i principali avvenimenti della fine della 2^Guerra Mondiale che molto hanno influito sulle nostre vite furono:
- 22 gennaio 1944 - sbarco delle truppe anglo-americane ad Anzio e Nettuno;
- 4 giugno 1944 – liberazione di Roma da parte degli anglo-americani;
- 25 aprile 1945 – fine della guerra in Italia;
- 15 agosto 1945 – fine della seconda guerra mondiale.

giovedì 18 febbraio 2010

CURIOSE RICHIESTE

Ormai da oltre dieci anni tutte le mattine, tempo permettendo, faccio la mia bella passeggiata di circa due chilometri come da perentori ordini dei medici.
L’orario antimeridiano, e solo quello, varia secondo le stagioni - ma esistono ancora? - mentre il tragitto è solitamente lo stesso: una sorta di girotondo per le strade vicino la mia abitazione sfiorando alcuni posti turisticamente molto frequentati. Raramente verso altri luoghi.
Cammin facendo incontro molte persone alcune conosciute ed altre invece sconosciute com’è logico che sia.
Esiste però anche la categoria delle “presunte”, voglio dire persone che io credo di conoscere ed altre che ritengono di conoscere me, per deboli ricordi o per vaghe somiglianze.
Mi è capitato più di una volta.
Per stare in sintonia con il titolo, nel corso di tali passeggiate avvengono incontri particolarmente curiosi accompagnati da richieste dello stesso tipo.
Le richieste normali sono quelle che sono fatte, più frequentemente, da turisti stranieri, anche se usano soltanto la loro lingua, per sapere dov’è la tale strada, il tale luogo, la fermata più vicina di un mezzo di trasporto pubblico. A volte riesco a fammi capire, altre no.
Poi ci sono quelle curiose, a dir poco.
Alcuni esempi:
= incrocio qualche giovane che mi chiede “scusa nonno (?) che mi daresti una sigaretta?” ed io rispondo “non fumo” aggiungendo “mi dispiace” da vero ipocrita in quanto se sono dispiaciuto è perché ho dovuto smettere di fumare da oltre un decennio, ma appena incrocio una persona che fuma oppure, meglio ancora, lo sta facendo camminandomi davanti, annuso l’aria come un cane da tartufo;
= a volte sono fermato gentilmente da qualche persona la quale mi domanda se conosco via tal dei tali. Io abito in questo rione da più di quaranta anni, so benissimo dove si trova la via che mi viene richiesta, mi guardo in giro con un sorriso agrodolce e dico “dovrebbe essere da queste parti, ma adesso non ricordo bene, credo che sia la prima o la seconda a destra dopo il semaforo”. Poi, da perfetto idiota, gli do un consiglio “lei faccia una cosa, vede quell’edicola di giornali? Bene, chieda a loro sono certo che avrà indicazioni più esatte”. Appena fatti alcuni passi nella direzione contraria a quella presa dalla persona avviatasi verso il semaforo, alzo gli occhi e che ti vedo? La targa della via tal dei tali che mi era stata richiesta poco prima;
= ogni due o tre giorni al massimo incontro una ragazza dall’apparente età di 30-35 anni vestita con una mise sempre diversa da quella dei giorni precedenti. Siccome la vedo circolare dalle mie parti ormai da parecchi anni, presumo debba abitare nel mio stesso rione, quindi so benissimo dove si fornisce per l’abbigliamento: con una capace borsa nella mano sinistra non omette di visitare accuratamente neppure il più piccolo dei cassonetti per la spazzatura rifornendo così il suo personale guardaroba. La faccenda però che mi scombussola non poco è che ogni volta che la incrocio - e capita spessissimo – mi fa la seguente richiesta “mi dai 50 centesimi per prendere l’autobus” A parte il fatto che un biglietto per bus, tram o metro attualmente costa 1 euro, tre cose mi colpiscono di questa richiesta: 1) prima del cambio della lira in euro mi chiedeva mille lire (la cosa va avanti da parecchio); 2) il suo rapido adeguamento della cifra che richiede da lire in euro; 3) possibile che io cambio il mio identikit tutte le volte che l’incontro dal momento che rifiuto di darle soldi ormai da tanto tempo essendomi un po’ scocciato? Ormai m’avrà incontrato mille volte;
= non più tardi di qualche giorno fa dovevo sbrigare una commissione alle poste di Piazza San Silvestro - pagamento bolletta elettricità - e, mentre stavo transitando in Via S.Claudio, una piccola stradina che costeggia la Rinascente e che collega Via del Corso alla piazza suddetta, vicino Palazzo Chigi, vengo fermato molto cortesemente da uno “scricciolo” di signora non più giovane, lineamenti ben delineati, capelli biondo-cenere, che mi fa: “ciao, come stai?” Io leggermente impappinato rispondo: “non c’è male e tu?” Lei: “bene, bene, grazie, ma dove stai andando?” Io “alla posta, devo andare a pagare…” Lei “ma pensa un po’, io sto venendo proprio da lì, adesso però devo correre subito a casa altrimenti…Solo che ho fatto tardissimo e dato che devo prendere mio nipote a scuola ho proprio paura di non arrivare in tempo... Mi è venuta in mente una cosa…Non è che per caso mi puoi prestare 30 euro per prendere un taxi, così è sicuro che arrivo proprio all’ora di uscita, poi appena arrivata a casa te li faccio subito avere. Che ne dici?” Questa valanga di parole che all’inizio mi aveva quasi rimbambito nel momento stesso in cui si è fermata m’ha fatto accendere una lampadina nella testa e allora ho risposto: “ecco cara, l’avrei fatto volentieri ma ho appena i soldi per pagare questa bolletta, altrimenti ben volentieri…” Lei: che peccato. Vedrò di arrangiarmi in qualche altro modo…Va bene, fa niente, ciao, ci vediamo eh?” Io, zitto, fra di me: “speriamo di no”. A mia memoria, la gentildonna non l’ho mai vista e neppure conosciuta.
Ieri però mi è capitata una cosa buffa.
Girato l’angolo della via dove abito una signora sui sessanta anni, ben vestita, fresca permanentata, con in mano una busta contenente numerosi documenti mi chiede dove si trova la sede di un certo sindacato affermando che ricorda il nome della via, che è poi quella dove io risiedo suddivisa in due tratti dal punto in cui ci troviamo, ma ha dimenticato se sta nel tratto a destra - proprio dove abito io - o in quello a sinistra. La informo con certezza che quel sindacato si trova nel tratto a sinistra in quanto sono passato lì davanti numerose volte e che nel tratto a destra, che mi riguarda, ci sono soltanto scuole, il mio - si fa per dire- fabbricato e un paio di negozi. Lo saprò bene no dopo una vita che ci abito?
La signora, arciconvinta, mi fa “no, no…guardi che si sbaglia, non è la prima volta che ci vengo. Giorni fa sono andata a sinistra e non c’è nessun sindacato. Si trova senz’altro a destra” e si avvia senza dirmi né ao né bao.
Mi chiedo: ma essendo così sicura perché mai mi ha fatto quella richiesta?

domenica 14 febbraio 2010

UN COLPO DI FORTUNA

L’involucro di plastica che tutte le mattine porto con me quando esco di casa e che uso per gli acquisti che devo fare per le necessità della mia famiglia questa mattina contiene, finora, soltanto due etti di parmigiano da grattugiare. Proseguo nella mia quotidiana passeggiata attraverso le vie del rione facendo ballonzolare in modo altalenante il sacchetto e i due etti di parmigiano in esso contenuti, così, senza neppure sapere perché. Giunto nei pressi della fermata della metro mi sento picchiettare sulla spalla sinistra, mi volto e mi trovo davanti una persona fuori del comune. Un pezzo d’uomo notevolmente più alto di me, di un’età indefinibile e dall’aspetto giovanile. Il volto incorniciato da una folta barba nerissima, occhi impossibili da scrutare perché occultati da un paio di occhiali scuri, cappello borsalino di colore grigio calcato sulla fronte bassa, con indosso un giubbotto anch'esso grigio, chiuso da una cerniera lampo. Pure lui ha in mano un sacchetto di plastica con dentro qualcosa che fa lentamente dondolare avanti e indietro. Posso notare bene tutto ciò che descrivo perché lui, prima di rivolgermi la parola, mi lascia, credo volutamente, il tempo di farlo.
=Salve
=Salve, mi dica
=Questo è lo scontrino e questa è la chiave, sai quello che devi fare
Neppure il tempo di riprendermi dalla sorpresa e di leggere quello che c’è scritto nel tagliando che mi ha consegnato, alzo la testa, mi guardo intorno, niente! Nessuna traccia dell’”uomo in grigio”. Ma dov’è andato? L’unica possibilità che ho di rintracciarlo è quella di sperare che sia sceso in metropolitana e quindi scendo anch’io. Appena fatti tre scalini vedo in terra il sacchetto di plastica che quel tizio aveva in mano pochi secondi prima. Lo raccolgo e mi convinco che è proprio quello ma dentro, anziché qualcosa di commestibile, ci trovo un piccolo pezzo di mattone avvolto in una mezza pagina di giornale. Comincio ad insospettirmi e corro, secondo quello che mi permette l’età e la salute, alla ricerca dell’uomo in grigio. M’imbatto in un barbone con accanto un grosso cane, entrambi seduti in terra: lui, con la schiena poggiata al muro del corridoio d’ingresso alla metro, sta rigirandosi tra le mani un giaccone e un cappello entrambi di colore grigio fiutando questi due oggetti con il naso sul quale ha inforcato un paio di occhiali scuri. Ecco la conferma ai miei sospetti. Però non c’è la barba, Sì, perché quella che aveva sul viso, secondo il mio parere, doveva essere senz’altro finta. Continuo a girare con lo sguardo tutt’intorno a me però è perfettamente inutile. Mi chiedo il perché di quello che è successo ma non so darmene una ragione. Evidentemente sono stato scambiato per qualcun altro. Vado dal barbone per chiedergli se mi può descrivere la persona che gli ha dato quegli oggetti ma mi tocca scappare a gambe levate perché oltre a coprirmi di male parole mi aizza contro il suo cane che credevo dormisse. E adesso?
Mi reco nel vicino giardino, mi siedo in una panchina, mi guardo accuratamente intorno e comincio a riflettere. Devo cercare di comprendere qualcosa riguardo quello che mi è accaduto o che mi potrebbe accadere. Già. Chissà quali sviluppi prenderà la ”cosa”? Intanto comincio col pensare che il sacchetto “danzante”, meglio, i due sacchetti, c’entrano qualcosa e addirittura che questi sono un elemento importante, diciamo il primo indizio. Secondo me proprio loro hanno svolto la funzione di segnale di riconoscimento fra due persone che non si sono mai viste e che quindi non si conoscono. Mi viene in mente tutto ciò che ho appreso in questi ultimi dieci anni da libri e film polizieschi e di spionaggio. Devo ricordarlo poiché la faccenda lo richiede. Che ho in mano? Prima cosa ciò che m’ha dato l’uomo in grigio il quale ha usato sicuramente un travestimento per rendersi irriconoscibile mentre invece lui mi ha facilmente riconosciuto. Perché? Forse il segnale di riconoscimento è stato, per lui, il “sacchetto danzante”che avevo in mano. Seconda cosa da fare è quella di esaminare attentamente ciò che “l' uomo in grigio” mi ha consegnato. Nello scontrino leggo che è stato rilasciato questa mattina alle 8:30 a.m. dal deposito bagagli della vicina stazione ferroviaria. Se quel tale, oltre allo scontrino, mi ha dato anche una piccola chiave dicendomi pure che sapevo quello che dovevo fare la cosa più logica è andare a ritirare il bagaglio al deposito, aprirlo e vedere che diavolo spunta fuori.
Non reputo prudente andarci oggi. Potrebbe esserci qualcuno appostato nei pressi per vedere se il bagaglio viene ritirato e da chi. Lascerò passare qualche giorno. Il venerdì pomeriggio e il sabato mattina credo siano i momenti di maggior affollamento della stazione e allora…vada per sabato.
Eccomi alla stazione sabato mattina alle 9:00. C’è un viavai pazzesco di cose e persone; i bar sono stracolmi di gente che consuma brevi e veloci colazioni. In uno di questi bar, quello più vicino al deposito bagagli, riesco a prendere posto da solo, in un piccolo tavolino e ripasso a mente il piano che ho studiato a casa. Ho indossato abiti di foggia assai diversa da quelli dell’altro giorno sperando così di non essere facilmente riconosciuto. Adesso occorre contattare la persona adatta allo scopo che mi sono prefisso.
Eccola. È una ragazza sola, sottobraccio ha un paio di libri, probabilmente una studentessa universitaria fuori sede che torna a casa per il week-end ed è in attesa dell’arrivo del treno che dovrà prendere per tornarsene a casa. Lo presumo dal fatto che pur degustando un cappuccino molto lentamente consulta in continuazione il suo orologio e il quadro recante l’orario arrivi e partenze dei treni. Non mi alzo dal posto in cui sono seduto e la interpello falsando notevolmente il mio timbro di voce:
=Signorina scusi
=Prego, dica pure
Mi pare ben disposta:
=Mi deve proprio scusare ma alla mia età i problemi s’ingigantiscono…ehm…potrebbe farmi una cortesia?
=Certo, se posso, perché no
=Ecco, si tratta di questo. Io devo ritirare il bagaglio che ho lasciato in deposito, vede, quello là è il posto dove si depositano i bagagli…ehm…siccome ho un po’ di difficoltà, eh sì, le do lo scontrino. Me lo può ritirare lei? È abbastanza semplice se non le crea troppo disturbo. Mi eviterebbe una fatica anche se lieve
=Non si preoccupi, ci penso io. Spero soltanto che ci sia poca gente altrimenti rischio di perdere il mio treno
=No, no, non credo. Da qui vedo che è poco frequentato questa mattina. Ecco questo è lo scontrino per il ritiro e grazie tante in anticipo
=Prego
Tutto sta andando secondo il piano stabilito. La ragazza, tra l’altro proprio bellina, sta entrando. Ancora qualche minuto…eccola che torna verso di me con una grossa valigetta ventiquattr'ore in una mano. Prima di farle segno di avvicinarsi guardo attentamente se è pedinata da qualcuno, non si sa mai. Per precauzione mi sposto da dove ero seduto e dal fondo del bar faccio cenni alla ragazza che sta entrando…
=Eccomi, sono andato al bagno, sa, ad una certa età
=Sì, sì, capisco. Ecco il bagaglio
=Non so proprio come ringraziarla. Le posso offrire qualcosa?
=No, no, grazie adesso devo proprio andare, arrivederci
=Ah? Sì…speriamo. Arrivederci e grazie
Appena uscita la ragazza prima di prendere la valigetta indosso un paio di guanti che mi sono portato appresso per evitare di lasciare impronte. Con la valigetta in una mano ed un bastone nell’altra, simulando una finta zoppia, mi avvio verso casa. I miei saranno fuori per l’intera giornata invitati da una sorella di mia moglie. Gli ho detto che non sarei potuto andare con loro perché non mi sentivo troppo bene. Da solo in casa posso esaminare la valigetta più tranquillamente. Che ci sarà dentro? Una bomba? Non credo, perché dovrebbe esserci? Anche se mi hanno scambiato per qualcun altro, che so: un mafioso, una spia, un terrorista o un killer non credo sia possibile adottare simili metodi. Oppure sì? Poggio le orecchie sui bordi della valigetta per sentire un’eventuale ticchettio. Che idiozia, se dentro c’era qualcosa di esplodente a tempo a quest’ora il deposito bagagli era bello che saltato in aria. No, no, dentro ci deve essere per forza qualche altra cosa con le relative istruzioni su ciò che si doveva fare se fossi stato io il tizio che doveva essere contattato. Progetto di un’arma misteriosa da vendere ad una potenza straniera? Documenti segreti e pericolosi per qualche personalità importante? Basta. Se vado avanti così non aprirò mai questa benedetta o maledetta valigetta. Sempre con indosso i guanti prendo la chiave, la infilo nella serratura con molta delicatezza stando attento ad evitare qualsiasi brusco movimento come se così facendo, ove dentro ci fosse un esplosivo, io mi salvo. A volte sono proprio uno scemo. Via, coraggio, apriamo. In un millesimo di secondo apro e…chiudo con un colpo secco.
Comincio a sudare freddo…mi assale un tremito violento…non riesco a frenarmi. Cerco di alzarmi dalla sedia ma le gambe non ne vogliono sapere. Mi asciugo il sudore che m’ha invaso tutto il corpo e lentamente, molto lentamente sento che mi sto riprendendo da questa specie di shock. Forse è stato un sogno o un incubo? Sollevo nuovamente il coperchio e quello che avevo intravisto prima è realtà. Il contenuto è maledettamente reale. Un mucchio di biglietti da 500 euro ordinatamente impacchettati! Quanti saranno? Cento? Mille? La valigetta ne è completamente piena fino agli orli. Mi prende la smania di toccarli, di accarezzarli quasi ma mi freno in tempo. Un momento. Calma e sangue freddo. Che significato può avere tutto questo tesoro? Non ne ho la minima idea e nemmeno posso andarmene in giro a chiedere o a dare spiegazioni, quindi me la devo cavare da solo. Comincio a pormi delle domande: vediamo un po. Soldi da riciclare? Soldi falsi? Soldi frutto di qualcosa di disonesto che so, furti, rapine, saccheggi, sequestri di persona, tangenti? Oppure la ricompensa per qualcosa di delittuoso da compiere? Cerchiamo di conservare la calma, già ma come? Sono talmente agitato da sentirmi come in un frullatore. E mi gira anche la testa. Finalmente riesco ad alzarmi e allora decido di andarmi a preparare una tripla camomilla. Prima però richiudo la valigetta. Non si sa mai, si dovesse volatilizzare tutta quella grazia divina. Ingurgito la camomilla così velocemente che rischio di strozzarmi senza peraltro avere evitato di scottarmi. Emano lingue di fuoco come il canone a sei zampe di quel logo. Riapro la valigetta: sono effettivamente biglietti da 500 euro. Non li avevo mai visti. Sono belli però, un bel colore. Sì, sì, sono proprio belli, da vedere e da spendere…Ma come? Sempre con le mani inguantate prendo un pacchetto di quei cari 500 euro e li conto: 1,2,3,4,5,6,7…Arrivo fino a 50. Allora: 500 per 50 quanto fa? Non riesco nemmeno a fare questa semplice operazione: 500 per 50…500 per 50…fa…25.000 euro? Impossibile, sono troppi. Ma no per la miseria sono proprio 25.000. Non ce la faccio a contare anche gli altri. Sto tremando di nuovo. Sono troppo agitato. Vado a farmi altre tre camomille. Il cuore mi sta martellando il petto. Calma, calma,calma. Cerchiamo di esaminare la “cosa” con freddezza. Vediamone gli eventuali lati negativi: se sono falsi come faccio a scoprirlo? Intanto voglio accertarmi se sono tutti soldi oppure in mezzo ai pacchetti ci sono soltanto pezzi di carta. Vediamo un po’: no, no sono soltanto soldi…Insomma “soltanto” per modo dire. Poi le fascette che li tengono sono semplici strisce di carta senza alcun timbro bancario…Ma quanti saranno? Non lo voglio sapere, almeno per ora, altrimenti rischio di farmi venire un colpo. Voglio solo accertarmi che i numeri di serie non siano consecutivi…Bene, non lo sono.
Devo escogitare un piano. Sarà meglio per un po’ di tempo non uscire di casa. La scusa e bella e pronta, dirò che non mi sento bene. Mi farò crescere la barba, mi metterò un paio di occhiali da vista anche finti, poi quando deciderò di uscire eviterò di passare dalle parti in cui l’altro giorno ho fatto quell’incontro.Mi piacerebbe rendermi invisibile almeno per un certo periodo.
Quando dovrò verificare se i biglietti sono falsi andrò a cambiarli ma non in banca e neppure alla posta perché se lo fossero verrei subito denunciato alle autorità competenti. Meglio evitare. Mi conviene andare in vari negozi. Intanto, per esempio, dal fornaio dove vado quasi tutti i giorni, mi conosce bene, inventerò una scusa qualsiasi, si, tutto però a tempo debito.
Ho letto da qualche parte che quando una persona trova del denaro di qualsiasi ammontare senza che si riesce a sapere a chi appartiene e nessuno lo reclama, dopo un certo periodo di tempo, mesi? Anni? non ricordo, il “fortunato” ne diventa il legittimo proprietario. Sarà così?Lo spero, ma se nel frattempo io, considerata la mia età, “navigherò verso altri lidi” che succede? Farò in modo che, eventualmente, la mia famiglia possa godersi il gruzzolo. Come ricevere una normale eredità. Proveniente da dove, si chiederanno? Troveranno una lettera al riguardo con tutti gli opportuni dettagli.
Lascio trascorrere alcuni mesi e quindi do inizio all’operazione “money changer”. Cambio settimanalmente soldi e zone della città. Tutto fila a meraviglia. I “500” sono più che buoni, sono ottimi. In casa si chiedono come mai spendo soldi così in continuazione e dove li trovo considerata la mia pensione. Ho raccontato una frottola. Per misura cautelativa un lavoretto extra a giorni e ad ore alterni, tipo venditore porta a porta di pubblicazioni.
Funziona! Giustifico così sia il cambiamento del mio aspetto che il flusso dei soldi.
In giro, come ogni settimana, sono fermo ad un semaforo insieme ad altra gente ed attendo che diventi verde il segnale per l’attraversamento pedonale. Appena scatta siamo in molti che, nei due sensi di marcia, attraversiamo sulle strisce. Mi viene incontro un tizio grande e grosso con uno strano sguardo. Compie un’ancor più strano movimento come se sta per cadere, mi si aggrappa e nello stesso istante sento una specie di “plop”. Avverto un forte dolore al petto, all’altezza del cuore, scivolo lentamente a terra ed il tizio quasi mi ci accompagna mettendosi a gridare. Sento che le forze mi stanno abbandonando, mi sembra di non avere più né gambe né braccia. Non riesco a parlare mentre mi pare di udire grida e lamenti che tendono lentamente ad affievolirsi. Qualcuno, furtivamente, mi sta frugando in tasca. Se poco fa era mattina perché sta diventando sempre più buio…e perché mi vogliono togliere dalle mani il sacchetto?
NON LO SAPRO' MAI

mercoledì 10 febbraio 2010

COLOMBI

Sul finire del 1948 ero da poco fidanzato con una ragazza la quale, nata a Roma, abitava vicinissimo Piazza Navona in una stretta via del Rione VI Parione in un vecchio palazzetto.
Da circa venti anni, dopo un devastante restauro, è diventato “preda agognata” di cittadini di ogni nazionalità i quali, a prezzi elevatissimi, ne hanno fatto la loro residenza romana bohemien.
Di fronte a quello, altro palazzetto d'epoca remota nel quale, all'ultimo piano proprio sotto il tetto a tegole curve o coppi, abitava allora una famiglia composta da padre, madre e quattro figlie femmine delle quali la più piccola era fidanzata con il fratello della mia ragazza. A quei tempi si faceva presto a fare amicizia e a frequentarsi tanto che le due famiglie, anche per ragioni legate ai fidanzatini, stavano spesso insieme. Una domenica venni invitato anch'io a pranzo a casa delle “quattro sorelle”. La loro madre mi accolse con molta cordialità, mi fece persino visitare la casa come se io fossi stato un ospite di riguardo, insomma si era creata una bella atmosfera. Nel fare il giro delle stanze di quell'abitazione notai che in quella del soggiorno la porta-finestra che dava su un piccolo balcone era completamente spalancata. Non ne comprendevo il motivo nel senso che data la stagione rigida e la totale mancanza di riscaldamento nell'abitazione, da lì entravano folate di vento gelido a non finire. Chiesi alla gentile padrona di casa il perché di ciò e lei mi disse: 'per i colombi. Io gli metto qualcosa da mangiare non sul balcone ma per un bel tratto della stanza poi, quando cinque o sei di loro sono intenti ad occuparsi del cibo, chiudo la porta-finestra, li catturo, gli torco il collo, li spenno e poi li cucino. Sono ottimi in salmì.' Rimasi di stucco. Poi, molto educatamente, poco prima del pranzo dissi a “Diana la cacciatrice” che, per alcuni disturbi dello stomaco dovevo mangiare il primo piatto in bianco, poi un poco di contorno e un arancia. Da quella volta mi sono guardato bene dall'andare a pranzo o a cena in quella casa.
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Il cortile condominiale del fabbricato dove abito da oltre quaranta anni era stato sempre frequentato da una dozzina di colombi ambosessi – o anche tre ma non me ne sono mai accertato – i quali avevano costruito la loro dimora e nido d'amore sulla rivestitura esterna della canna fumaria che correva in alto, sotto il tetto di un locale una volta adibito a sala biliardi annessa a un grande bar e lungo il perimetro del locale medesimo. Salvo le pausa-pranzo e pausa-cena quei colombi trascorrevano la maggior parte della loro giornata su quella canna fumaria e tubavano e tubavano in continuazione proprio di fronte le mie tre finestre. Crescevano e si moltiplicavano praticamente senza soluzione di continuità. La mia abitazione situata al primo piano, specialmente d'estate, risuonava dei loro suoni e talvolta, quando avevo le finestre spalancate, qualcuno s'infilava dentro casa. Avevano però la brutta abitudine di insudiciare sia le mura esterne del locale ex sala biliardi sia i davanzali delle mie finestre e quelle degli altri abitanti del condominio. Qualche volta trovavamo loro “ricordini” sulla nostra biancheria stesa ad asciugare. Non solo la nostra naturalmente. Dopo anni ed anni finalmente è stata trovata una soluzione a tale problema. In tutti i posti dove i colombi si accomodavano per costruire i loro nidi, per dormire, per tubare e per far nascere altri loro eredi, sono state collocate delle sottili sbarre di ferro munite di una serie fittissima di punte metalliche acuminate così da impedire loro qualsiasi tipo di sosta su ogni dove. Rimedio perfetto e da allora colombi emigrati verso altri lidi.
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Quando un giorno sì e l'altro pure mi reco presso uno dei supermercati che distano non troppo lontano da casa mia, quello più vicino mi consente di camminare in un tratto non breve di una strada fiancheggiata da due larghissimi marciapiede uno dei quali – quello da me percorso – costeggia le mura di un Istituto tecnico statale e di una facoltà dell'Università La Sapienza di Roma. Su questo tratto di strada non ci sono negozi di alcun genere e neppure accessi di abitazioni, soltanto mura perimetrali. Verso le 9.30 di ogni mattina io transito di là e noto un mio amico molto anziano che sembra ormai non starci più con la testa in quanto lo saluto, mi guarda e, assorto nei suoi pensieri, passa oltre senza profferire parola. Altre volte invece mi saluta molto cordialmente senza però chiamarmi per nome tanto non credo che lo rammenti. Quest'amico porta sempre con sé una capiente busta di plastica stracolma di chissà quale tipo di briciole, chicchi o semi ecc. che sparge a piene mani sul marciapiede. Circondato da una miriade di colombi – chissà se tra loro ci sono quelli emigrati dal mio cortile – l'amico non si cura né dei passanti né di me che gli passo accanto e cerco di attaccare discorso. È in tutt'altre faccende affaccendato.
Da tre o quattro giorni però su quel tratto di marciapiede vedo solo i colombi che beccano, girano e svolazzano in cerca di qualcosa, ma del mio amico con c'è traccia alcuna. Aspetto un po', mi guardo intorno, infine proseguo. Non formulo ipotesi di nessun tipo.

domenica 7 febbraio 2010

LA TRASFERTA

Nel maggio del 1965 mio figlio, che aveva sei anni, aveva deciso che con me e mia moglie trentacinquenni, si dovesse andare in trasferta a Livorno per seguire la sua squadra del cuore – per la verità anche la mia.
Il piccolo particolare che da Roma a Livorno ci dividessero circa quattrocento chilometri all'andata ed altrettanti al ritorno non era cosa che lo riguardasse più di tanto.
A quell'epoca io non avevo ancora la patente nè avevo voglia di prenderla e di conseguenza non avevo neppure la macchina. Pertanto l'unico mezzo a disposizione era il treno.
Tre giorni prima della fatidica domenica di calcio che ci attendeva per assistere alla partita contro i labronici, conversando con un mio ottimo collega di lavoro ed amico, un cinquantenne sardo sposato ma senza figli e che stravedeva per mio figlio, gli parlai di quello che stava bollendo in pentola circa la ormai prossima domenica.
Lui mi sembrò come se fosse stato folgorato da chissà che perché, senza pensarci due volte, mi disse: = veniamo anche noi, anzi sai che facciamo? Ci andiamo in macchina e partiamo sabato pomeriggio =.
Ora a prescindere dal fatto che andarci di sabato significava dover pernottare in albergo e aumentare così il costo già previsto per la trasferta, c'era anche il problema della macchina del mio collega. Già perché lui aveva una Opel cabriolet a due posti e, fatti rapidamente i conti del numero dei partecipanti, noi eravamo in quattro più il nostro frugoletto tifoso ultrabollente.
Il mio amico e collega ascoltata la mia obiezione mi assicurò dicendo che in realtà non esisteva alcun problema. Lui e sua moglie avrebbero occupato i due sedili davanti mentre io, mia moglie e il pargolo ci saremmo accomodati, per modo di dire, dietro di loro ove c'era uno spazio vuoto non molto ampio in realtà. È vero anche che avremmo dovuto viaggiare con la capote bella aperta ma che eravamo quasi in estate e comunque le previsioni meteo promettevano bel tempo.
Quando il giorno stesso informai il resto della famiglia di questa opportunità le urla di gioia di mio figlio arrivarono al settimo piano mentre mia moglie sorrideva sorniona. Io ero in netta minoranza e mi dovetti adeguare.
Il sabato fissato per la partenza mi sembrò essere arrivato in anticipo. Alle 14:OO in punto arrivò sotto casa mia la cabriolet con i miei due amici, abbracci, baci e partenza lampo.
Ad un certo punto del viaggio un dubbio atroce mi balenò in testa: e se ci avesse fermato la polizia stradale per aver violato non so bene quanti articoli del Regolamento della circolazione stradale? Il Codice della strada è arrivato una trentina d'anni dopo. Mi stavo già immaginando le conseguenze e ne accennai al mio amico-autista-patentato. Lui, senza neppure dire una parola limitandosi sorridendo a farmi un cenno con la mano mi fece capire che non dovevo preoccuparmi e premette ancora di più l'acceleratore. Feci i debiti scongiuri e mi stetti zitto per la restante durata del viaggio mentre tutti gli altri cantavano a squarciagola.
Poco dopo le 19:30 arrivammo finalmente a Livorno, cercammo un albergo e ne trovammo soltanto uno che aveva due camere libere, una a pianoterra con bagno annesso e l'altra al quarto ed
ultimo piano con bagno in comune. Il mio amico molto generosamente lasciò a me la scelta io gli dissi che non mi sembrava giusto, in poche parole decidemmo scherzosamente di tirare a sorte con una moneta. Per farla breve a me toccò la camera all'ultimo piano. Se mai si fosse ripetuta una vicenda simile non avrei rifiutato l'offerta generosa di scegliere.
Prima di andare a dormire cenammo molto frugalmente in un locale vicino all'albergo, ci salutammo e ci ritirammo nelle nostre rispettive camere.
Nottata abbastanza tranquilla tranne alcuni rumorosi dialoghi che provenivano dalle altre camere che non c'impedirono però di addormentarci.
La mattina dopo, alle 8:00 circa mentre nostro figlio stava tra la veglia e il sonno, mia moglie mi chiese di accompagnarla al bagno, ma giunti al limitare della porta della camera che tenevo aperta per farla passare lei improvvisamente si fermò e, malgrado i miei incitamenti, come bloccata dalla vista di qualcosa di orrendo, senza dire una parola, m'indicò con la sua mano protesa il bagno situato proprio dinanzi la nostra camera. La porta del bagno era spalancata e, con il corpo voltato verso il muro, completamente nudi, tre giocatori della nostra squadra ridendo e scherzando erano intenti a fare pipì. Io m'infuriai, dissi loro che almeno avrebbero dovuto chiudere la porta ma proprio in quel momento mio figlio si svegliò, li riconobbe e gioiosamente gridò i loro nomi indicandoli uno ad uno. Chiusi la porta della mia camera sbattendola forte, sgridai mio figlio e dissi a mia moglie, ancora scioccata, di scusarmi giacché non avevo compreso il motivo per cui lei si era bloccata. Una scena da film commedia-panettone-natalizio. Il resto della mattinata scivolò via tranquillamente con mio figlio che racontava a tutti la gioia provata nel vedere de visu e forse anche de altro, i suoi idoli.
Facemmo una bella passeggiata per visitare la città, ci fermammo presto in un ristorante vicino lo stadio e pranzammo alla grande mangiando le specialità locali: caciucco alla livornese, spaghetti con frutti di mare, triglie alla livornese e un discreto vino bianco.
Abbastanza allegrotti ci dirigemmmo allo stadio, prendemmo posto, assistemmo alla partita e al termine uscimmo non troppo allegrotti perché la nostra squadra aveva perso sonoramente.
Nel riprendere il viaggio di ritorno convenimmo tutti che la trasferta iniziata così cosi era finita nel peggiore dei modi.

mercoledì 3 febbraio 2010

I GIORNI BREVI DI UN BREVE VIAGGIO DI NOZZE

Avrei voluto scrivere alcuni precisi ricordi dei giorni precedenti quello fatidico delle mie nozze
- ottobre 1956 - ma preferisco limitarmi ad uno solo di essi, quello della sera precedente la cerimonia. Alle ore 21:00 ero seduto nella sala d'attesa dell'ufficio del mio datore di lavoro per ritirare il regalo promessomi di cinquantamila lire – 25 euro di oggi – senza i quali non avrei potuto partire l'indomani per il viaggio di nozze. Breve, ovviamente, poiché quello ci permettevano le nostre magre risorse, mie e della mia futura moglie. Avevamo deciso di fermarci i primi due giorni a Firenze e altri quattro a Bologna ospiti di un fratello di mia madre e della sua famiglia, in totale sei giorni in quanto all'indomani del nostro rientro a Roma dovevamo presentarci entrambi al nostro rispettivo posto di lavoro. Finalmente dopo oltre un'ora d'attesa ricevetti "il regalo", corsi alla stazione e feci i biglietti per il treno diretto a Firenze. Seconda classe senza prenotazione.
Il matrimonio che avevamo deciso di celebrare dopo otto anni di fidanzamento si era reso necessario dato che mia moglie, orfana di padre sin da quando aveva quattro anni, era rimasta l'unica single dalla sua famiglia e quindi tanto valeva unire le nostre due modeste risorse finanziarie e vivere per conto nostro. La chiesa per la cerimonia, scelta su indicazione di quattro zie paterne di mia moglie – tre suore di clausura ed una anziana single facente parte di non ricordo quale Ordine religioso, fu la Basilica di S.Maria Maggiore, qui a Roma, vicinisima sia alla trattoria dove avevamo prenotato per il pranzo, sia alla Stazione Termini.
I primi intoppi, sia pure di poco conto, ebbero inizio con il cadere di una pioggerellina fastidiosa, con il previsto ritardo dell'arrivo della sposa e con l'amara sorpresa riservatami non appena il corteo stava per entrare in chiesa. Due uomini piuttosto alti e robusti – forse quardie svizzere in borghese? - ci fermarono per dirci che non potevamo scattare alcuna fotografia all'interno. Con noi c'era un mio carissimo amico il quale per regalo ci avrebbe fatto l'intero servizio fotografico ma non gli venne concessa nessuna autorizzazione, stavano quasi per sequestrargli la macchina. Alquanto incacchiato chiesi allora come si sarebbe potuto ovviare all'inconveniente dato che non volevo rinunciare alle foto ricordo per me e i miei. Mi risposero che potevo usufruire soltanto del servizio
fornito da "un fotografo ufficiale" accreditato presso la Basilica, a pagamento ovviamente. Stavo quasi per dare in escandescenze dato che qando prenotai per la cerimonia non fui avvisato di questa strana prassi. Amici e parenti riuscirono a calmarmi e la cerimonia procedette mentre il fotografo accreditato scattava fotografie a rotta di collo e io, che non accennavo nemmeno ad un piccolo sorriso, tra me e me dicevo "scatta, scatta, tanto chi te le paga le foto, io no davvero". In seguito con quel fotografo stringemmo un patto di non belligeranza e ci mettemmo d'accordo sul prezzo del servizio, vantaggioso per entrambi. Per la verità le foto erano veramente ben riuscite e scattate molto professionalmente. L'unica nota stonata in esse le espressioni del mio viso piuttosto eloquenti circa l'incacchiamento. A cerimonia ultimata, tutti a piedi verso la vicina trattoria assente mia moglie per il suo cambio d'abito e, prima di terminare il pranzo due dei miei tre fratelli di corsa alla stazione per occupare due posti per gli sposini mentre mio padre piangeva sommessamente. Gli chiesi il perchè e lui mi manifestò i suoi timori circa il futuro della mia nuova situazione familiare. Mi commossi anch'io e cercai di rassicurarlo meglio possibile.
Lo scompartimento del treno per Firenze era occupato oltre cha da noi da un'altra coppia, più anziana, i quali anche loro mano nella mano cinguettavano sottovoce. Compresero subito che eravamo in viaggio di nozze, era fin troppo evidente, ma ci dissero sorridendo che stavano facendo quel viaggio per festeggiare il venticinquesimo anniversario delle proprie nozze, quelle d'argento. Poco dopo la partenza da Roma cominciammo a scambiare i soliti convenevoli, a raccontarci rispettivamente alcuni episodi delle nostre vite e, quando facemmo presente loro che eravamo diretti a Firenze e che ci saremmo lì trattenuti un paio di giorni per proseguire poi fino a Bologna, si scambiarono un'occhiata poi il marito ci disse che vivevano proprio in quella città e avrebbero avuto piacere di averci loro ospiti almeno un giorno a pranzo. Ci dettero indirizzo e telefono, li ringraziammo e, arrivati a Firenze, ci salutammo con un caloroso abbraccio. L'indirizzo del luogo dove avremmo trascorso la prima notte di nozze ci era stato fornito da un nostro amico sposatosi un paio di mesi prima parlandocene molto bene. Si trattava di un'abitazione molto grande la proprietaria della quale affittava una delle stanze per pochi giorni e soltanto per dormire. Entrati in
camera per poggiare la nostra valigia constatammo che era piuttosto ampia, ben tenuta e munita del necessario arredamento, ma quello che ci colpì fu il letto matrimoniale: enorme, gigantesco, con il materasso, abbastanza morbido, il cui bordo superiore ci arrivava fin quasi alla cintola. Noi due - entrambi di statura medio bassa - come avremmo fatto per coricarci? Dovevamo arrampicarci, fare
il salto in alto o che? Nel dare un'occhiata in giro mi accorsi che sotto il letto c'era un piccolo sgabello con due o tre scalini e allora ci tranquillizzammo. Nell'uscire per andare a mangiare qualcosa la proprietaria c'indirizzò verso una vicina trattoria e ci chiese se la camera era di nostro gradimento. Noi contenti del fatto che dovevamo dormire lì soltanto due notti rispondemmo affermativamente. Dopo un'ora facemmo ritorno, ci preparammo per la notte e...tutto andò per il meglio. Mentre stavo per addormentarmi sentii che mia moglie piangeva. Mentre le chiedevo il perché stavo per accendere la luce ma lei mi pregò di non farlo. Si fece consolare, l'abbracciai ma non volle dirmi il motivo di quel pianto. La mattina dopo, belli, freschi e felici ce ne andammo in giro per Firenze, una gran bella città e, avvicinandosi l'ora del pranzo, ci recammo in un bel ristorante. Terminato il primo piatto chiedemmo al cameriere di portarci due bistecche alla fiorentina ma lui, con tatto e cortesia, ci consigliò di ordinarne soltanto una e di dividerla a metà. Aveva avuto ragione lui perchè quella che ci portò, alta – mi venne in mente il letto – morbida e rossa avrebbe potuto saziare quattro persone.
Il successivo soggiorno a Bologna - altra bella città - ospiti di mio zio andò molto bene. Compreso uno dei quattro giorni di cui potevamo ancora disporre in quanto lo trascorremmo interamente con quella coppia di anziani conosciuta sul treno. Furono veramente genitilissimi e a pranzo ci condussero con la loro auto in un ritorante tra Casalecchio di Reno e Sasso Marconi dove, tra l'altro, gustammo del castrato cucinato al forno a legna veramente gustoso. Ci dissero che era una specialità del luogo.
Trascorsi felicemente i sei giorni del nostro breve viaggio di nozze, facemmo ritorno a Roma.
Quale futuro ci attendeva?