sabato 26 giugno 2010

L'UOMO CHE, FERMO ALL'INCROCIO, LEGGEVA UN LIBRO

Senza ombra di dubbio è una persona distinta, alto, capelli bianchi folti, occhiali di marca, credo, poco più che sessantenne.
La prima volta l'ho notato cinque giorni fa, fermo, poco distante dal semaforo, all'ombra del fogliame di un albero che spunta dal giardino privato di un palazzetto in via Emanuele Filiberto quasi all'incrocio con viale Manzoni.
Mi sono incuriosito perchè l'uomo, non essendovi alcuna panchina, stava in piedi, immobile, con nelle mani un libro voluminoso, ad occhio e croce almeno di sei-settecento pagine, e mostrava di leggere avidamente senza alzare mai gli occhi da quelle pagine che dovevano interessargli molto.
Lì per lì ho pensato: va bene, si vede che è giunto ad un punto del libro veramente interessante per cui non vuole smettere di leggere. Nulla di strano, ognuno è libero di agire come meglio crede.
Due giorni dopo, poichè faccio tutti i giorni quel tratto di strada e sempre alla medesima ora del mattino, minuto più minuto meno, nello stesso posto e col medesimo atteggiamento ecco l'uomo col libro in mano che legge.
Passandogli piuttosto vicino mi accorgo che deve aver letto un bel numero di pagine del librone poiché ha superato abbondantemente la metà.
Chissà di che libro si tratta.
Sicuramente non è la Bibbia, non è il Corano e neppure il libro della Torah giacché sono riuscito a dare una sbirciatina e dalla scrittura delle pagine in bella vista noto che è certamente un romanzo.
Questa mattina stessa scena come le due precedenti. Una piccola differenza c'è però: il numero delle pagine ancora da leggere è notevolmente calato; l'uomo sta arrivando alla fine del suo
bets seller.
Mi viene voglia di domandargli se ha già capito chi è il serial killer ma sorvolo poiché il romanzo potrebbe essere un thriller con relative istruzioni.
Prendo una decisione: domani cambio percorso.
Anche perché c'è in giro un passaggio di "tortore" le quali accantonate le minigonne, forse perchè troppo lunghe o fuori moda, hanno optato per dei miscroscopici pantaloncini appartenenti, credo, ai loro fratellini o ai loro figli più piccoli.
Piacevoli incontri, senza dubbio.
Niente a che vedere però con quello che ho avuto circa un'ora dopo con un tale, piuttosto anziano, il quale indicandomi con un dito mi apostrofa dicendomi:
= Voi siete italiano?
Mi guardo intorno per vedere se con me c'è qualcun'altro ma sono solo e allora rispondo
= sì certo
Lui mi guarda serio e mi dice
= e a me che me ne frega
E si allontana nella direzione opposta alla mia.
Totalmente vero e scioccante.

mercoledì 23 giugno 2010

PERCHE' ALL'IMPROVVISO MI E' TORNATO IN MENTE QUEL GIORNO?

Era il 1975, mese di giugno, due giorni prima o dopo, non ricordo bene, di quello che si dice dia inizio all'estate.
Ed era sabato pomeriggio.
Libero dal lavoro decisi di andare con mia moglie a vedere un film che proiettavano in un cinema all'ultima traversa di via Veneto, verso Villa Borghese. Che strano. Nebbia completa circa il titolo del film, il nome del cinema e quello della traversa. Tutto il resto invece mi è rimasto impresso.
Ci andammo con la FIAT Celestina che parcheggiai sotto Villa Borghese.
Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo, mi alzai e andai a fumarmi una sigaretta all'ingresso del cinema dato che in sala era proibito.
Quando rientrammo in casa, ora di cena, io mi misi seduto in una poltrona del soggiorno davanti la TV mangiando due panini con altrettante salsicce.
Poco dopo le ventitre, stavo per mettermi a letto quando iniziai a sentire dei dolori al petto e al braccio sinistro che aumentavano rapidamente d'intensità. Svegliai mia moglie, chiamai mio figlio allora sedicenne e decisi di telefonare subito al 118. Spiegai la situazione a chi stava rispondendo al telefono e, dopo una ventina di minuti arrivò l'ambulanza. Il medico, preso atto dell'urgenza della cosa, disse subito agli ausiliari del pronto soccorso di caricarmi e portarmi al vicino Ospedale di San Giovanni.
Il medico di turno, cardiologo fortunatamente, ancora lo ricordo per varie ragioni. Intanto credo per avermi salvato la pelle in quanto diede subito il via alle manovre per questo tipo di ricovero.
Iniziai a non vedere più niente e, credo, ad addormentarmi. Mi risvegliai a notte inoltrata del terzo giorno dopo il mio ingresso, in una camera a sei letti. Il mio letto era circondato da medici ed infermieri e mio figlio passeggiava su e giù nel corridoio in conpagnia di un suo coetaneo
Mi informarono della diagnosi: infarto posteriore del miocardio al 3°-4° stadio; danno miocardico ischemico anteriore. Prognosi: trenta giorni immobile nel letto e una terapia buona per un cavallo.
Nonostante tutto trascorsi un bel mesetto tra chiacchiere, risate e avvenimenti sia comici, sia tragici, sia preoccupanti. A prescindere dagli arrivi e partenze continui di un bel numero di "ospiti" chi sulle proprie gambe chi invece coperto da un lenzuolo in posizione orizzontale e in barella – lì ci voleva poco a passare da degente a deceduto - ho stretto una bella amicizia con due miei compagni di sventura e di stanza. Stavano entrambi nei loro letti alla parete opposta la mia quindi avevamo tutti una chiara visione di come eravamo. Quello proprio di fronte al mio letto era un signore piuttosto su con gli anni, vicino agli ottanta, uguali ai miei attuali. Capelli folti, bianchi, quasi candidi, volto rubizzo, sempre sorridente ma molto esigente, e soprattutto uno che non faceva altro che corteggiare portantine e infermiere. Le flebo, le iniezioni e i prelievi voleva che fossero solo infermiere a fargli tali operazioni e mentre loro erano intente a curarlo lui dialogava con le stesse a forza di battute piene di complimenti ed anche pungenti. Un dongiovanni in piena regola. Noi tutti a ridere. Era nata tra me e lui una sorta di complicità. Quando nella nostra stanza arrivava qualche nuovo "inquilino" noi cercavamo subito d'inquadrarlo e gli facevamo "barba, capelli, shampoo, manicure e pedicure" sempre senza far capire nulla all'indagato di turno. Poi passavamo ai parenti, i nostri e quelli degli altri. Eravamo due "ragazzi" terribili.
L'altro mio compagno di stanza con il quale avevo stretto amicizia era molto più giovane del primo, intorno ai quaranta anni. Non sono mai riuscito a capire di cosa soffrisse. Durante il giorno calmo, tranquillo, compagnone, scherzava con noi, osservava scrupolosamente le indicazioni dei medici e del personale, insomma un paziente ideale. La notte invece urlava di dolore per chissà quale motivo.
Aveva avuto il permesso di far stare la moglie vicino a sé anche di notte ma questo non è che gli giovasse poi molto.
Io passavo molte notti in bianco e non poche volte la sua signora veniva da me e si lamentava, mi chiedeva scusa se il marito con le sue urla non ci faceva dormire ma nessuno sapeva come risolvere il problema.
Dopo il trentesimo giorno mi dimisero e nel salutare i compagni di stanza l'urlatore volle il mio recapito telefonico e lui mi dette il suo. Gli sarebbe piaciuto, un giorno uscito dall'ospedale anche lui, invitarmi a casa sua.
Due mesi dopo, una telefonata: era l'urlatore che m'invitava a trascorrere una giornata da lui e nello stesso tempo mi dava tutte le indicazioni necessarie.
Abitava in un paese a circa trenta chilometri da Roma, aveva una bella casa, un grande vigneto e un orto anche esteso dove coltivava di tutto. Oltre la moglie aveva due figli, un maschio e una femmina, intorno ai diciotto-venti anni, entrambi perfetti agricoltori.
Lui incredibilmente era in perfetta salute.
Ci siamo rivisti ancora per qualche altro anno: io – combinazione sempre di giugno - ho avuto altri due infarti lui sano come un pesce.
È proprio vero, c'è una grossa differenza tra l'aria di città e quella della campagna.
*******
Dopo quel primo infarto mi resi conto della situazione e buttai giù alcune frasi:
Puoi dire ad un cuore sia pure ferito di stare immobile di stare impassibile?
Dovresti mio povero cuore ferito restare impassibile perchè io devo restare impassibile.
Dovresti mio fragile cuore ferito restare lì immobile perché io devo restare sì immobile.
Mi chiedi allora: sempre? Sempre rispondo, anche quando la donna da me tanto amata di me non s'appena e ride felice e beata in gaia brigata.
Vorresti mio stupido cuore ferito gioire di cose giocose e di fatti felici, ma non puoi.
Vorresti mio illuso cuore ferito godere dei sensi goduti e di notti tra amici, ma non puoi.
Mi dici allora: ormai.. Ormai ti chiedo? Ormai rispondi l'hai capito povero fragile stupido illuso cuore ferito, per sempre ormai tu sei finito.

domenica 20 giugno 2010

TRE AMERICANI A ROMA

Il 4 giugno 1944, dopo l'occupazione da parte dei nazisti, Roma venne liberata dagli anglo-americani i quali poi la "tennero occupata" per un bel po' di tempo.
Dall'inizio del 1945 io avrò cambiato almeno tre volte il tipo di lavoro, ma per un periodo abbastanza lungo svolsi l'aiuto di qualcuno presso il Teatro Galleria, dentro la Galleria Alberto Sordi già Colonna: una volta del guardaporta, un'altra del macchinista e un'altra ancora dell'aiuto elettricista.
Tutte le sere rientravo a casa dopo la mezzanotte, facendomi la strada a piedi da Piazza Colonna passando per Fontana di Trevi, Largo Tritone, il Traforo sotto il Quirinale, via Nazionale, via dei Serpenti, via degli Annibaldi, via del Fagutale fino a via della Polveriera.
Numerosi sono gli episodi di quel periodo che, se riuscissi a ricordandomeli tutti, potrei racontarne un notevole numero, però mi limito a parlarne soltanto di tre aventi come protagonisti altrettanti soldati americani.
L'AMERICANO N.1
che conobbi fu un sergente maggiore dell'esercito, nativo di Derby nel Connecticut, del quale ricordo ancora nome e cognome. Ci siamo tenuti in contatto tramite posta per molti anni, almeno una decina. Adesso che ci penso mi rammarico di una cosa. Lui m'informò che a Derby aveva una moglie e un figlio, che era proprietario di un'impresa, non ricordo di che tipo, e che lavorava con lui, oltre ad un gruppo di dipendenti, anche una giovane segretaria italo-americana. Malgrado io abbia dovuto affrontare lunghi periodi di disoccuppazione, non mi venne mai in mente di dirgli se potevo andare a lavorare nella sua impresa lì in America. Forse molte cose sarebbero cambiate per me. In meglio o in peggio non lo so.
Tornando a quel sergente, una sera, all'ingresso del teatro, sia all'inizio dello spettacolo di varietà in programma, sia al termine m'interpellò chiedendomi se a Roma c'erano dei reparti di boy-scout. Malgrado lui parlasse pochissimo l'italiano, altrettanto io l'inglese riuscimmo però a capirci e al mio diniego mi disse che lui in America era un capo degli scout e che avrebbe avuto piacere incontrare qualcuno per formarne un reparto qui da noi. L'indomani mattina ne parlai agli amici, anche a quelli più grandi di noi, i quali quasi tutti aderirono. In breve, grazie a questo soldato del Connecticut formammo uno dei primi reparti di scout laici del C.N.G.E.I. - Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani.
L'AMERICANO N.2
mi capitò di conoscerlo una delle sere o meglio delle notti in cui rientravo a casa dal lavoro. Arrivato a via degli Annibaldi successe un fatto incredibile.
Devo necessariamente fare una descrizione un po' noiosa di questa via perchè si possa raffigurare meglio l'accaduto. La via di cui parlo inizia da via Nicola Salvi di fronte al Colosseo e, scendendo, termina in via Cavour. Lungo entrambi i lati vi sono due muraglioni: all'inizio bassi fino metà dell'altezza di un uomo poi alti una quindicina di metri quando si arriva in via Cavour.
Quella notte io che provenivo da via dei Serpenti e avevo attraversato via Cavour stavo iniziando il percorso di via degli Annibaldi quando da uno dei due muri più alti piombò dinanzi ai miei piedi qualcosa di voluminoso e pesante. Per un pelo non mi aveva sotterrato. Una coppia che camminava davanti a me, udito quel forte colpo si era voltata e si era avvicinata per vedere cosa era successo. Ad un certo punto sentimmo dei flebili lamenti che provenivano dal "coso caduto". Malgrado la strada fosse semibuia io e la coppia ci chinammo per capire di cosa si trattava. Ci guardammo in faccia increduli: era un militare americano di colore, completamente sbronzo. Farfugliando non so cosa cominciò a muoversi per tentare di alzarsi, noi lo aiutammo, cercammo di fargli capire che volevamo chiamare "l'ambulance della Red Cross" ma lui invece faceva gesti di diniego e si svincolava da noi. Come se fosse atterrato col paracadute anche se un po' barcollante, si avviò, imboccò via Cavour e se ne andò verso via dei Fori. Mi parve addirittura di sentirlo fischiettare. Ad ogni modo, contento perchè era vivo,gli gridai dietro "piacere d'averti conosciuto Joe".
L'AMERICANO N.3
forse si chiamava John o chissà come quando lo vidi ma non riuscii a capirlo. Sempre una delle volte in cui, tornando a casa dopo mezzanotte camminavo lungo via dei Serpenti, a metà della stessa via mi accorsi che un militare americano, bianco, capelli nerissimi, stava seduto su alcuni gradini di un piccolo negozio chiuso e si lamentava. Mi avvicinai, mi accorsi che era ubriaco, gli chiesi se c'era qualcosa che non andava e lui, con un filo di voce e un linguaggio mezzo italiano condito dal dialetto siciliano mi rispose:
"picciuttieddu...u vedesti chi minchiata fecero a mia?" (ragazzino, hai visto che cavolata mi hanno fatto?)
"cu fu?" (chi era?)
"e che ne saccio, scuru era...talia chista banna" (e che ne so, era buio, guarda qui)
"minchia! Cuteddata fu? (cavolo! È stata una coltellata?)
"no, vasata di fimmina" (no, bacio di donna) ...e svenne mentre dalla ferita usciva sangue.
Feci cenno ad un signore che fortunatamente stava passando nei pressi, in fretta gli spiegai la faccenda ed insieme ci recammo in una vicina uscita laterale della sede centrale della Banca d'Italia
e a una guardia di finanza lì in servizio gli raccontammo tutto.
Fece un paio di telefonate dopo le quali arrivò la Polizia Militare Anericana e un'ambulanza.
Spiegai nuovamente come stavano le cose e, dopo alcuni accertamenti, mi lasciarono tornare a casa tranquillamente.
Ripensando all'accaduto credo che quel militare americano non poteva chiamarsi John.
Scommetto che si chiamava Caliddru (Calogero), il mio secondo nome.

giovedì 17 giugno 2010

GUARDANDO UNA FOTO

Ieri cercavo qualcosa nel cassetto di un mobile del soggiorno ma evidentemente ho aperto quello sbagliato perché invece dell'oggetto che volevo ho trovato una gran quantità di fotografie e tre o quattro album che avrebbero dovuto contenerle. Proprio così, album vuoti e foto sparse nel cassetto. Una faccenda che avrei dovuto sbrigare da più di mezzo secolo e che non ho mai sbrigato. E non perchè non ne avessi mai avuto il tempo. Il punto è che tra me, le foto e gli apparecchi per scattarle c'è incompatibilità. Cerco di evitarli il più possibile. Forse è qualcosa che mi porto dietro sin da quando ero piccolo perché ricordo di aver avuto uno zio acquisito, marito di una sorella di mia madre, il quale aveva questa chiamiamola pure fissazione. Per me e i miei fratelli era un incubo. Una volta però gli accadde un incidente che a noi fece molto piacere. A lui non tanto. Stava per scattarci l'ennesima istantanea con una macchinetta molto antica munita di un lampo al magnesio, credo si chiamasse così, il quale non appena lo zio fece il clic gli bruciò tutto il naso. Noi ridemmo a crepapelle mentre lui urlava dal dolore.
Taglio corto perché dall'apertura di un cassetto guarda un po' dove sono andato a finire.
M'è venuto il ghiribizzo, già che c'ero, di dare un'occhiata a quelle foto riposte lì alla rinfusa ed ho pure guardato gli album, completamente vuoti, rammentandomi che mi erano stati regalati da vari parenti, uno anche da mia madre.
Non posso nascondere il fatto che ho ritrovato un discreto numero di fotografie che mi hanno emozionato, altre invece che mi hanno fatto tornare in mente ricordi poco piacevoli.
Quelle a colori superano di gran lunga quelle in bianco e nero e proprio tra queste mi è capitata in mano una piccola foto che ho guardato con maggiore interesse.
Il perchè non sono in grado di precisarlo però mi sono soffermato a guardarla molto a lungo.
E sono riaffiorati ancora ricordi.
Risalgo abbastanza facilmente all'anno: è il 1939.
Il luogo è l'inizio del parco del Colle Oppio qui a Roma, i raffigurati nella foto tutti nati in via della Polveriera. Un gruppo di ragazzine e ragazzini. Cinque femmine sorridenti e due maschi: uno con lo sguardo verso l'alto, strafottente, l'altro con un sorriso a metà. Come mai questa insolita conposizione? Forse a scattarla dev'essere stato il fratello di una delle femmine. Penso proprio di sì. Faccio una specie di appello e noto che appaiono due sorelle gemelle – forse del fotografo? - poi una molto alta, sorella di due miei coetanei non presenti nel gruppo. Infine davanti a loro i più bassi: altre due femmine che si tengono abbracciate e, ai loro lati, i due maschietti: mio fratello più grande undicenne ed io di nove anni.
Chissà come mai noi due, io lo strafottente e mio fratello col sorriso a metà, stavamo accanto alla due femmine per le quali, ricordo benissimo, spasimavamo.

lunedì 14 giugno 2010

SPERO SEMPRE D'INCONTRARLA

Vent'anni fa i deci anni di differenza tra di noi non si notavano. Oggi chissà.
Questo fatto anziché rattristarmi mi fa aumentare la voglia di rivederla.
Entrambi invecchiati è naturale, però avendola conosciuta molto bene e frequentata per un discreto periodo sono certo che non la troverei cambiata di molto.
È rimasta per me colei che paragonai per le sue forme ad un violoncello.
Mi piace credere e illudermi che la speranza d'incontrarci sia reciproca.
Pur conoscendo il suo recapito telefonico, la sua abitazione, i luoghi e gli amici che ho frequentato anch'io, nonché la localita vicino Torre del Lago Puccini dove era solita trascorrervi tutti gli anni almeno venti giorni di villeggiatura, non cercherò di rintracciarla anche perché non ho saputo più nulla di lei e quindi chissà quanti e quali cambiamenti potrebbero essersi verificati.
Invece se si verificasse un incontro casuale questo sarebbe uno dei momenti più belli di quest'ultima parte della mia vita.
A volte penso, e ne sono quasi certo, che anche lei ha fatto e magari starà facendo queste mie stesse riflessioni.
Il perché è presto detto. Il nostro rapporto, durato un notevole periodo è stato vissuto da entrambi in maniera intensa poiché nutrivamo, l'uno verso l'altro, sentimenti veri e sinceri.
I nostri incontri all'inizio avvenivano nella sua macchina in luoghi appartati e molto lontani dalle nostre rispettive abitazioni. Poi a casa sua quando le desiderate circostanze favorevoli lo permettevano.
I momenti migliori li abbiamo trascorsi proprio lì e sono quelli a ritornarmi in mente così spesso.
In un incontro che spero avvenga presto, torneremo a riviverli quei momenti con la serenità che ci deriva dalla nostra attuale età ma anche con gli stessi sentimenti di venti anni prima.
Mi capita di immaginare la scena dell'auspicato incontro, ma riesco soltanto a intravedere le espressioni del suo volto, dei suoi occhi cerulei e del suo sguardo particolare che rammento sempre.
Io non so raffigurarmi come lei mi vedrà.
Sento che, dapprima increduli, ci abbracceremo commossi, poi torneremo a guardarci, a scrutarci,
a sorriderci, magari anche a ridere pensando all'errore che abbiamo commesso quando, venti anni prima, ci siamo lasciati senza nessun perché.
E parleremo a lungo di noi, delle nostre vite, di quello che ci è accaduto e di quello che abbiamo perso stando lontani.
Eviteremo sicuramente di parlare del futuro, almeno io.
Credo però che al momento di salutarci, anche senza dirlo, coltiveremo dentro di noi una speranza:
quella d'incontrarci ancora.
Non importa come, dove, quando.

giovedì 10 giugno 2010

LA SMANIA DEL VILLEGGIARE

È un po' quella che prende a molti quando si avvicina l'estate.
Per chi non possiede una seconda casa in campagna, al mare o ai monti la faccenda assume a volte anche aspetti grotteschi o piacevoli, a seconda dei punti di vista. Ovviamente la scelta delle localita di villeggiatura è tutta subordinata alle possibilità economiche di ciascuno. C'è chi può scegliere l'esotico, chi si accontenta del nazionale, chi rimane nell'ambito della propria regione e chi invece preferisce recarsi all'estero in visita turistica. C'è anche chi, purtroppo, può scegliere di passare l'estate soltanto in uno dei giardini pubblici vicino casa sempre che ve ne siano. Io personalmente e con me la mia famiglia, all'infuori dell'esotico, fino a trentadue anni fa qualcosa abbiamo sperimentato, poi dal 1978 più nulla. Mia moglie ed io a casa, il mio unico figlio in giro per l'Europa in autostop sui Tir.
Ho fatto alcune esperienze che mi sono rimaste impresse e si riferiscono soprattutto al periodo
che va dalla nascita del pargolo a quello della sua adolescenza.
I luoghi maggiormente preferiti erano quelli marini. Infatti rammento che una delle prime località balneari per un soggiorno di circa un mese fu Foceverde in provincia di Latina, Mar Tirreno. Poi Torvaianica in provincia di Roma, Mar Tirreno. L'anno successivo, il 1969, fu la volta di Pineto in provincia di Teramo, Mare Adriatico nel quale stavo affogando non sapendo nuotare. Nel 1971 decidemmo di andare a villeggiare in un paesello in collina con tanta campagna intorno, a circa sessanta chilometri da Roma, di cui non ricordo il nome e non mi sovviene neppure quello della provincia. Ciò che ricordo benissimo invece fu che ci trattenemmo soltanto per una diecina di giorni in quanto sotto la stanza dove eravamo alloggiati c'era una stalla con un asino il quale durante la notte amava scalciare verso le pareti di legno facendo un fracasso infernale e tenendoci svegli completamente. Inoltre sulla testa di mio figlio andò ad alloggiare un'intera colonia di pidocchi con le conseguenze che si possono immaginare. Fuggimmo a gambe levate. Venne poi la volta di andare in montagna e precisamente a Courmayeur in Valle d'Aosta. Il posto era incantevole, l'alberghetto tre stelle che ci ospitava molto accogliente solo che noi ci andammo non attrezzati per il freddo tanto che dovetti acquistare tutto nella cittadina: giacconi, maglioni, zuccotti, scarponi. Una vera mazzata tra capo e collo. Tre o quattro giorni prima del ritorno a Roma mio figlio insistette tanto per andare sul Monte Bianco. Io tentennai un po' dato che si trattava di salire fino a circa 4.800 metri d'altezza ma per fortuna era in funzione la funivia e quindi salimmo molto comodamente. Arrivati in cima, malgrado fosse estate trovammo un freddo polare. Ci barricammo subito in un rifugio-bar che per metà si trovava in territorio italiano e per l'altra metà in territorio francese. Bastava superare una linea tracciata sul pavimento per trovarci all'estero. Fuori il rifugio non si vedeva quasi nulla e non riuscivamo a capire se eravamo in mezzo la nebbia o se ci trovavamo tra le nuvole. Quando si trattò di ritornare in albergo io dissi a mia moglie e a mio figlio che il percorso di rientro l'avrei fatto a piedi, tanto era tutto in discesa, e che loro potevano pure tornare in filovia. Uno dei più grossi errori mai fatti. Arrivai stremato e con le gambe a pezzi. Rimasi due giorni a letto lamentandomi. Era meglio tornare nei luoghi marini. Infatti nel 1973 io e la mia famiglia, compresa la gatta Micia, prendemmo in affitto un appartamento ben arredato al Lido di Ostia – Roma, Mare Tirreno dove si trascorse quasi un mese al mare in tutta tranquillità tranne nei momenti in cui Micia spariva per saltare nel balcone dell'appartamento confinante, attirata non so da che cosa.
Invece l'ultima villeggiatura che facemmo fu del tutto particolare e non al mare. La sorella di una mia collega di lavoro, con marito e figli, desiderava tanto fare un viaggio in un camper girando per mezza Europa. Abitavano in un centro residenziale sulla via Flaminia, a circa trenta chilometri da Roma. Era loro intenzione viaggiare per poco meno di un mese, ma per molte ragioni lasciare la loro residenza senza qualcuno in casa non lo potevano fare. La mia collega sapendo che ancora non avevo preso una decisione circa il luogo dove trascorrere le mie ferie mi girò la proposta che le aveva fatto la propria sorella. In pratica ecco di cosa si trattava. La famiglia di sua sorella era composta dal marito, mercante d'arte, lei funzionario di non so quale banca e tre figli ancora minorenni studenti. Il giorno della loro partenza, di prima mattina, io e la mia famiglia, gatta Micia compresa, dovevamo andare da loro perché ci avrebbero dato le chiavi di casa e le indicazioni per il nostro soggiorno. Non volevano nulla per quanto riguarda l'affitto. A loro bastava che qualcuno abitasse in casa durante tutta la loro assenza. L'offerta era alquanto allettante perciò accettai. Il giorno stabilito ci recammo nel centro residenziale indicatoci e quando arrivammo rimanemmo di stucco. Ci trovammo di fronte una grande villa e davanti il cancello, un lussuoso camper adatto almeno per una dozzina di persone. Ci fecero visitare la villa da cima a fondo. Era composta da un ampio locale al piano seminterrato adibito a garage e a locale magazzino con tanto di rampa d'accesso. C'era quindi un piano a livello strada composto da ingresso, cucina, bagno, soggiorno e una scala interna che conduceva al piano superiore dove c'erano quattro camere delle quali tre da letto, due bagni e un'altra scala per accedere ad una grande mansarda. Nella villa, circondata da un giardino con piante e prato all'inglese, c'era una piscina all'aperto, un altro prato ed un piccolo appezzamento di terreno con un orto pieno di piante di pomodoro, piselli, zucchine, melanzane, insalata, odori vari, nonché un pollaio con una dozzina tra galli e galline. Dimenticavo: passeggiava indisturbata nel prato anche una grossa tartaruga e bighellonavano in quell'Eden due cani, uno alto e grosso simile ad un lupo e l'altro, un cucciolo, entrambi frutto di vari incroci. Senza guinzagli e neppure museruole. I "camperisti", impazienti, appena terminata la visita della dimora e dopo averci segnalato la presenza di un congelatore grande come due maxi- frigoriferi pieno fino all'orlo di verdure, ortaggi e altri cibi congelati; due armadi di cucina stracolmi l'uno di cibo per cani e mangime per il pollame e l'altro di pasta, olio, aceto, salumi vari, legumi, scatolette di tonno e altro, ci hanno fornito alcune indicazioni, ci hanno invitato a far uso di quello che più gradivamo e ci hanno salutato molto cordialmente. Ho fatto in tempo ad augurargli buon viaggio? Non me lo ricordo, ma nella fretta può darsi anche di no. Riuscii a riprendermi da quell'incontro abbastanza in fretta, chiamai le truppe a raccolta – mia moglie e mio figlio – e decidemmo di comune accordo i reciproci incarichi. La mia metà intendeva occuparsi soltanto del riordino della villa, mio figlio dopo un tuffo in piscina si mise subito in contatto con amici e cugini coetanei informandoli delle attrattive residenziali, a me rimase il resto: preparazione prima colazione, pranzo e cena per i cani e per noi; irrigazione verde e orto; raccolta ortaggi e verdure pronti per la tavola; visita al pollaio per fornire ai suoi occupanti il mangime necessario. Questa fu un'operazione direi a dir poco pericolosa poiché galli e galline percependo forse la mia antipatia per loro volevano prendermi a beccate ma feci in tempo a squagliarmi. Il mangime lo lanciavo loro dall'alto del recinto. Tutto andò per il meglio per quasi l'intera durata del nostro soggiorno fino a quattro giorni prima del previsto rientro dei "camperisti". Il tempo si era mantenuto splendido fino ad allora, poi venne giù il diluvio: i cani, ma anche noi, spaventatissmi e dal pollaio silenzio assoluto. Verso le diciotto sentimmo arrivare il camper e, sotto la pioggia, scesero sette od otto persone che ci salutarono con entusiasmo infilandosi di corsa in casa.
Malgrado il loro invito a rimanere ancora ed i loro sinceri ringraziamenti noi raccogliemmo le nostre cose, Micia compresa, la quale durante il nostro soggiorno era dovuta stare rinchiusa nella mansarda causa la non perfetta identità di vedute con i due cani peraltro buoni e affettuosi, quasi umani. Ci siamo salutati cordialmente e quindi abbiamo intrapreso il nostro ritorno a casa . Per mia moglie e mio figlio mestamente mentre io invece mi son sentito più rinfrancato.

domenica 6 giugno 2010

NINO detto ER BACHECA

È abbastanza noto il fatto che ad una certa età – io sono alla quarta – la memoria fa dei buffi scherzi. Parlo per me s'intende e lo ripeto spesso. Certe volte però riesco a ricordare episodi addirittura della mia infanzia. Il bello arriva quando qualcuno mi chiede se mi va di parlare di ricordi riguardanti un mio coetaneo con il quale sono stato legato d'amicizia sessanta o settanta anni prima. Riesco a scavare profondamente nella memoria e, perbacco, ci riesco. Non che sia un fenomeno, intendiamoci, ne conosco altri anche più avanti di me con l'età che sono molto più lucidi, però mi accontento.
Ecco infatti che, sollecitato dal fratello minore del mio carissimo amico Nino, mi sono messo di buzzo buono a tornare indietro nella mia mente a moltissimi anni fa.
Nino, le sue tre sorelle, il fratello più piccolo e i genitori abitavano in Via della Polveriera, qui a Roma, nello stesso fabbricato dove stavo io con la mia famiglia. Noi al terzo piano interno undici, loro al secondo interno sette. Avevano una loggetta ed un grande terrazzo che affacciavano sul cortile interno e spesso, attraverso la nostra finestra di cucina che dava sul loro terrazzo ci scambiavano le solite quattro chiacchiere. Quello era il luogo preferito dal loro Jack, un piccolo cane bianco, credo della stessa razza dei fox terrier, che abbaiava in continuazione in quanto nemico acerrimo dei gatti, una dozzina, "inquilini" presso un appartamento confinante. Le stagioni degli amori felini erano la fine per la tranquillità di tutti, vicini e lontani.
Io e Nino facevamo parte della stessa "banda" di coetanei tutti abitanti nel quadrilatero formato da Via della Polveriera, Largo della Polveriera, Via delle Terme di Tito e Via del Monte Oppio.
Fino ai primi anni quaranta trascorrevamo il tempo tra la vicinissima Scuola Vittorino da Feltre al mattino e a cercare di giocare a pallone nel pomeriggio, ma a volte anche a fare la "guerra" con quelli del Rione Celio – il XIX – con noi confinante. Ci divideva, oltre al Parco del Colle Oppio, una sorta di terrapieno rigoglioso di vegetazione – prato, piante ed alberi – che noi chiamavano "Africa" e che quasi lambiva il Colosseo. Loro erano svantaggiati in quanto si trovavano in basso rispetto a noi, abitanti della più alta "Isola del zibibbo" e quindi il più delle volte subivano delle cocenti sconfitte. Cercavamo di tenerli lontani e di non farli salire da noi a base di sassate – "serciate" – rifornendoci del necessario materiale in quello risultante dalla demolizione di un fabbricato di Via della Polveriera angolo Via del Fagutale. Un bel po' di anni dopo proprio lì venne costruito il "famoso" edificio comprendente l'appartamento di cui non si sa da dove siano piovuti una parte degli euro necessari per l'acquisto. Se non ricordo male demolirono quel fabbricato perché pericolante a seguito dei lavori di scavo della metropolitana interrotti causa l'inizio della seconda guerra mondiale nel 1940. La galleria sottostante quel fabbricato aveva l'accesso da Via degli Annibaldi e a noi dell'Isola" servì a volte come rifugio antiaereo.
Un giorno però quelli del Celio ebbero la meglio, salirono nella nostra "postazione" e furono botte da orbi. Uno di loro, grosso quanto un armadio malgrado la giovane età, beccò Nino che si era fatto avanti per primo e lo stava caricando di pugni e schiaffi. Lo aveva sdraiato a terra e sopra di lui "l'armadio" continuava a picchiare. Ad un certo punto Nino, rivolto verso di noi che stavamo lì intorno sbigottiti, urlò a più non posso le seguenti parole rimaste scolpite nella memoria di tutti: "levatemelo da sopra se no l'ammazzo". Noi sbottammo a ridere. Ma come, le stava buscando di brutto ed aveva pure questa faccia tosta? Però Nino era anche questo, spavaldo fino all'inverosimile. Poi finalmente la battaglia terminò e tutti i combattenti si dettero da fare per leccarsi le ferite.
Nel 1948 riuscimmo a formare una comitiva con alcune ragazze coetanee conosciute al mare. Ricordo che Nino strimpellava una chitarra accompagnato da un altro amico che suonava la fisarmonica. Io e Nino ci fidanzammo con due di quelle ragazze che abitavano proprio al centro di Roma, una a Piazza Navona e l'altra a Largo Argentina. Quando ci vedevamo andavamo tutti nella stessa direzione. Dopo qualche mese Nino si sfidanzò con quella di Largo Argentina, io invece continuai.
D'altra parte lui, alto e robusto, stava diventando un giovane attraente ed aveva varie ammiratrici.
Un anno dopo, nel 1949, Nino andò a fare il servizio militare ma ebbe la fortuna, non si sa come, di rimanere a Roma, alla Cecchignola, in periferia, un quartiere militare. A me invece, dieci mesi dopo, mi confinarono in Piemonte. Un giorno, era pomeriggio inoltrato, noi della banda ancora "civili" stavamo chiacchierando del più e del meno quando lo vedemmo comparire , in divisa, completamente bardato con tanto di elmetto, giberne, stivaletti e con un fucile Enfield in mano. Gli chiedemmo che stava combinando e lui senza scomporsi più di tanto ci disse che era il suo turno di sentinella davanti la caserma, però s'era scocciato quindi aveva deciso di prendere l'autobus e di venirci a trovare, cosa che stava tranquillamente facendo. Rischiava il processo davanti il Tribunale Militare, la galera a Gaeta e chissà che altro ma lui aveva altro per la testa.
Sforzandoci riuscimmo a farlo rinsavire e farlo tornare in caserma. Non finì sotto processo ma si beccò non so quanti giorni e notti di prigione di rigore, senza poter usufruire di permessi o licenza.
Dopo altre divertenti avventure e disavventure che ricordo vagamente e con lui protagonista, nel 1954 Nino decise di realizzare il suo sogno che era quello di fare il cowboy e avere una fattoria. Convinse i propri genitori e partì andando non in America e nel Texas ma in Brasile dove iniziò a fare fortuna con una propria "fazenda" e un'officina per la riparazione di macchine.
Un maledetto giorno del 1964, a San Paolo del Brasile, in uno scontro frontale della sua auto con quella guidata da un ubriaco Nino purtroppo morì. Aveva soltanto trentatre anni.
Questa brutta notizia me la diede mia madre che l'aveva appresa da quella di Nino.
Tutti noi suoi amici ci siamo chiesti molte volte il perchè e chi lo soprannominò ER BACHECA. Forse perché si metteva spesso in mostra, ma lui era l'unico tra di noi che se lo poteva permettere.