sabato 31 ottobre 2009

mercoledì 28 ottobre 2009

quinta ed ultima puntata de L'IMPREVISTO

Ho cercato più volte di interromperla ma lei ha voluto che io conoscessi ogni particolare perché sta cercando disperatamente in me quel conforto che io non riesco a darle divorato
come sono dallo sdegno e dall’intenzione di compiere chissà quale gesto pur di far pagare a quel criminale le atrocità commesse nei confronti di Rosi. Lei però, dopo essersi ripresa per quanto possibile, mi assicura che non la passerà liscia: si vuole vendicare con la stessa ferocia usata da lui. Le propongo di andare insieme al pronto soccorso e dai carabinieri ma non intende farlo poiché vuole prima telefonare alla madre e raccontarle ogni minima cosa, abituata a comportarsi in questo modo sin dalla nascita; insieme avrebbero concordato la decisione da prendere. La telefonata di Rosi alla propria madre scatenò una valanga.
L’indomani, primo pomeriggio del venerdì successivo alla vicenda, giunsero da Palermo entrambi i suoi genitori insieme ad un medico loro amico. Io mi ero ritirato discretamente nella mia camera: volevo che si sentissero più liberi nell’apprendere da Rosi i particolari di quanto era successo e nel decidere sul da farsi. Chiesero a Rosi di raccontare ogni minimo dettaglio dell’aggressione da lei subita e la fecero visitare dal medico il quale ne accertò le condizioni psico-fisiche e le prescrisse qualche lieve medicamento. Non ci furono né urli né strepiti di alcun tipo. Tutto si stava svolgendo con calma e decisione.
*******
Gli avvenimenti successivi procedettero velocemente come le sequenze di un film d’azione. Il capitano dei carabinieri Giannetto tese la trappola. Disse alla figlia di fare una telefonata allettante e suadente ad Enzo convincendolo a venire in casa da lei l’indomani, sabato, di primo pomeriggio, affermando che alla luce di quello che era successo era pentita di non essere stata gentile con lui fin dal momento in cui le aveva fatto vivere un’esperienza dolorosa ma anche piacevole, in qualche modo, e che era contenta di avere assaporato la sua virilità. Il furbastro, lusingato nel suo ego, non se lo fece ripetere due volte e le promise che avrebbero trascorso insieme un pomeriggio indimenticabile. Quel sabato sopraggiunse quasi troppo rapidamente ma le “operazioni” orchestrate impeccabilmente dal capitano Giannetto si svilupparono secondo lo scopo prefisso. Era una luminosa e splendida giornata di primavera inoltrata ma non per Enzo. Io e Agata, la mamma di Rosi, dovevamo uscire da casa prima dell’orario previsto per l’arrivo del furbastro, mentre il capitano si sarebbe posto nell’attesa in camera di Rosi la quale doveva aprire la porta al “suo ospite”, farlo entrare e poi - con una scusa - uscire anche lei.
*******
Poco prima delle 16, io e Agata usciamo. Dieci minuti dopo suona il citofono, Rosi risponde ed apre il portone ad Enzo. Gli apre anche la porta di casa e sorridendo lo accoglie con un finto bacio sulla guancia, lo fa entrare e lo saluta dicendo:
-Ciao Enzo, prego, vieni, vieni…scusami, però, devo uscire per pochi minuti perché non ho fatto in tempo a comprare un regalino che volevo tanto farti trovare: tu intanto accomodati pure in camera mia, mettiti a tuo agio, io torno subito
Enzo baldanzosamente si dirige verso la camera di Rosi apre la porta e:
-Oh,scusi, buongiorno forse sono venuto nel momento sbagliato
-No, no, sei venuto precisamente nel momento giusto, proprio così

-Penso sia meglio ritornare un altro giorno
-E perché? Entra, entra: ti ricordi di me? Tu sai chi sono io, vero?
-Sicuro lei è il padre di…
-Zitto verme! Tu non lo devi pronunciare il nome di mia figlia, te lo devi dimenticare, mentre invece è meglio che ti ricordi di questo…
Uno schiaffo tremendo arriva ad Enzo tra la guancia e la bocca, talmente violento da fargli torcere faccia e collo insieme. Sta per lanciare un urlo ma Giannetto gli preme una mano sulla bocca
-Tu non devi nemmeno respirare figurati se puoi urlare: mi capisci?
Enzo dolorante annuisce con la testa
-Ecco, bravo, sarò bravo anch’io con te lo vedi…Ho messo persino i guanti e vuoi sapere perché? Per non insudiciarmi con la tua lurida faccia schifosa, tieni…
Un secondo manrovescio si abbatte sul viso di Enzo il quale piange e singhiozza sommessamente
-Vedi Enzo le cose stanno così: tu ti sei permesso di dare due schiaffi a mia figlia così forti da lasciarle i segni sul viso e allora, siccome tu sei un uomo - perché tu sei un uomo, vero? te ne spettano almeno il doppio, tieni…
Ormai Enzo, letteralmente terrorizzato, dopo altri due pesanti schiaffoni, piange senza più alcun ritegno chiedendo pietà con un filo di voce
-Che dici? Non ti sento, mi dispiace…Invece ascoltami bene tu adesso perché ti dirò tutto una sola volta: tu hai fatto del male a mia figlia, molto male, l’hai anche violata, l’hai danneggiata nel corpo e nello spirito: non lo dovevi fare. Ed ora ti faccio il mio personale regalino… Sai, devi credermi é un regalone! Io conosco tuo padre e tua madre da molti anni, con tuo padre non siamo colleghi, né c’è differenza di grado tra noi, siamo come fratelli: io gli devo molta gratitudine perché una volta mi salvò la vita mentre eravamo in servizio. A loro non dirò nulla di nulla, non posso permettere che subiscano questo dolore, questa sofferenza e questa vergogna per colpa di un essere spregevole quale tu sei. Hai tradito la nostra fiducia e quella dei tuoi genitori: sarebbe molto semplice per me farti arrestare e condurre in un posticino dove saresti accolto molto amorevolmente ma, come ho promesso, ho un debito con tuo padre e i debiti si pagano. Anche tu da oggi in poi avrai un grosso debito con me e lo dovrai pagare, almeno in parte, con quanto dovrai fare. Da domani, capito che ho detto?, da domani tu scompari per sempre da questa città e dall’università che qui stavi frequentando insieme a mia figlia. Stasera te ne torni a casa: quando ti vedranno i segni che hai in faccia dirai ai tuoi che so…ecco… di essere caduto per le scale. Poi gli dirai che vuoi iscriverti ad un’altra università, sempre che tu abbia voglia di studiare, di voler cambiare città, nazione, mondo,insomma dovrai sparire: non potrai più farti vedere in giro. Sono stato chiaro? Hai capito quello che ho detto? Fammi soltanto un cenno con la testa perché mi schifo pure di sentire la tua voce
Enzo, sul viso una smorfia di dolore, annuisce con la testa, poi
-Per farti ricordare meglio quello che ho detto, tieni…
Lo colpisce duramente su entrambe le ginocchia
-Così renderai più veritiera la tua caduta dalle scale…E adesso togliti dalla mia presenza, sparisci prima che ci ripensi
Con una violenta spinta lo fa uscire dalla camera di Rosi e dalla porta di casa.
*******
Il lunedì seguente, appena qualche giorno prima della chiusura dell’anno scolastico Rosi si recò alla scuola dove aveva insegnato per salutare direttrice e colleghi ai quali fece presente di doversi allontanare con lieve anticipo per tornare in Sicilia a causa dei problemi di salute di uno dei suoi genitori. Giannetto e Agata decisero di partire insieme a Rosi quella sera stessa, poco prima di cena. Con Nico si salutarono affettuosamente, si abbracciarono e si dettero l’arrivederci per il prossimo settembre quando sarebbe iniziato il nuovo anno scolastico. Lo ringraziarono ancora una volta per tutto e gli rinnovarono l’invito per una vacanza da trascorrere a casa loro a Palermo. Agata si commosse quando lo abbracciò e gli disse di essere orgogliosa di avere una figlia come Rosi la quale, grazie al cielo, aveva con lei un rapporto tutto particolare: madre, sorella, amica e sapeva che di ciò che le accadeva le raccontava tutto, ogni minimo particolare. Uscita la madre, Rosi si avvicinò a Nico, lo avvolse con un forte abbraccio e, avvicinandosi al suo orecchio destro gli sussurrò:
“Quello di quella notte no”.

lunedì 26 ottobre 2009

quarta e penultima puntata de L'IMPREVISTO

Contrariamente al solito, stamattina mi sveglio tardi. Altrochè, le nove passate, Rosi é già andata a scuola. Un momento! A proposito di Rosi…ma…che sogno ho fatto stanotte? E’ meglio che mi prepari un bel caffè. Sul tavolo in cucina, già pronto per la colazione, c’è un biglietto: “Ciao Nico, dormivi così bene che non ti ho voluto svegliare, ci vediamo oggi pomeriggio, Rosi”. Lei mi ha visto dormire bene? Che vuol dire? Torno quasi di corsa in camera mia: nel letto lo spazio accanto al mio reca i segni di qualcuno che ha dormito accanto a me, sento persino uno strano, piacevole odore. Non ho sognato! E adesso? Mi viene in mente, e non so spiegarmi il perché, l’espressione che pronuncia Dante, tramite Virgilio nell”Inferno” della Divina Commedia: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandar”. Mettiamola così, è stata sua volontà? Allora io non domanderò.
Per ore ed ore rimuginai dentro di me quello che era accaduto e cercai di prepararmi ad affrontare la situazione nella maniera più serena e tranquilla possibile. Non potevo negare che nel biglietto che Rosi mi aveva lasciato sul tavolo c’era un chiaro invito ad attenderla appena uscita da scuola: era evidente che voleva fornire qualche spiegazione. Cercai di dedicarmi alle mie quotidiane occupazioni quando - appena dieci minuti dopo le 16.30 - sento introdurre le chiavi nella porta di casa e

-Dove sei Nico?
-Sono qui che sto leggendo
-Bene, soltanto qualche attimo e poi potrai andare dai tuoi amici come il solito
-Non c’è nessuna fretta
-Ci tenevo a parlare con te dopo…beh…Dopo, sai che cosa intendo. Ecco, secondo me entrambi “abbiamo sognato”! Che ne dici?. A te sta bene questa interpretazione di quello che è avvenuto?
-Sono d’accordo soprattutto perché ho già dimenticato. Adesso vado, ciao, ci vediamo più tardi!
-Preparo io la cena, va bene?
-Benissimo, ciao
Conversazione lampo, rapido scambio di battute, capitolo chiuso anzi episodio mai accaduto!. A me andava bene così; e dire che avevo impiegato numerose ore ad escogitare quale comportamento tenere riguardo quella questione piuttosto imbarazzante almeno per me. Tutto risolto nel migliore dei modi.
*******
Ci trovavamo quasi al termine dell’anno scolastico e il penultimo giovedì io mi accingevo a rientrare a casa dopo il pomeriggio trascorso con i miei amici, quando dall’ascensore che si stava fermando al mio pianerottolo intravidi Enzo, il giovane amico di Rosi, Susi e Vera, che stava scendendo le scale. Allora ricordai che il giovedì era uno dei giorni in cui loro si riunivano. Aperta la porta di casa non sentii il solito chiacchiericcio delle giovani: sento invece piangere a dirotto, singhiozzi disperati. Ma questa è Rosi!
-Rosi, Rosi che c’è?
-No, no, non entrare, ti prego Nico
-Ti senti male? Dimmi qualcosa! Susi e Vera sono lì con te?
Non mi risponde, Che faccio?
-Per favore Rosi…Cosa succede?
-No, loro non ci sono, fammi un favore, ti prego: entra in camera tua, fra poco ti spiegherò, ma adesso devo stare un attimo da sola
Sempre preoccupato faccio quello che lei mi dice. La sento piangere più sommessamente e capisco che esce dalla sua camera ed entra nel bagno…mi chiedo cosa possa esserle accaduto:forse un malore? Dopo una ventina di minuti vado a sedermi in cucina e decido di aspettarla. Appena esce dal bagno Rosi, senza fermarsi, si dirige frettolosamente verso la sua camera ma io la chiamo con insistenza e allora lei si volta: io la guardo in viso e rimango di stucco. La sua faccia è tumefatta, il labbro inferiore spaccato, entrambi gli zigomi violacei. Quasi urlando le chiedo il perché di tutto quel massacro sul suo giovane viso. Lei piangendo disperatamente mi si getta fra le braccia e, sempre singhiozzando, mi racconta ogni cosa.
Quel pomeriggio, come sempre dedicato all’incontro con i suoi tre amici, si era verificata una cosa strana alla quale però, lei inizialmente, non aveva dato alcun peso. Enzo, il suo fraterno amico, si era presentato in casa con notevole anticipo e le aveva chiesto di telefonare alle altre due amiche Susi e Vera pregandole di annullare l’appuntamento odierno adducendo come scusa il fatto che lei, dovendo fare alcune commissioni urgenti, non sarebbe stata in casa per tutto il pomeriggio. Rosi volle sapere il perché di questa insolita richiesta e lui con molto tatto le spiegò che in questo modo, essendo solo in due, potevano concentrarsi meglio nello studio. Dopo appena un’ora trascorsa a confrontare entrambi il parziale contenuto delle rispettive tesi di laurea che stavano preparando Enzo disse di voler fare una pausa. Seduti su un piccolo divano iniziarono a parlare amichevolmente di piccole storie di vita quotidiana: Enzo le raccontò di alcune sue vicende confessandole che certe brevi avventure con ragazze che non stimava le aveva concluse rapidamente perché poco soddisfacenti e le disse anche dei fastidi che provava nel ricevere continue attenzioni da parte di alcune loro colleghe, anche di Susi e Vera; Rosi gli ricordò che questo era il prezzo da pagare per chi emanava un certo fascino dovuto alla sua bellezza e prestanza fisica. Enzo le si avvicinò e mettendole un braccio sulla spalla iniziò a lamentarsi affermando che soltanto lei non lo degnava di uno sguardo e non riusciva a rendersi conto del perché; le chiese se c’era qualcosa in lui che non le andava a genio. Rosi, pazientemente gli spiegò che non c’era nulla che non andava ma che lo considerava un vero e proprio fratello e quindi non poteva né sentiva di provare nulla di più di un sentimento di affettuosa fratellanza. Nello stesso tempo, palesemente seccata, si alzò dal divano e gli chiese con decisione di tornare subito a riprendere a studiare e per Enzo fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso: alzandosi di scatto anche lui, cercando di dominarsi, le disse allontanandosi che doveva recarsi un momento in bagno. Lo sentì uscire dal bagno e andare in cucina, poi la raggiunse con i lineamenti completamente stravolti. Con fare imperioso e con un coltello affilatissimo stretto nella sua mano sinistra le ordinò di stare zitta, di spogliarsi completamente e di stendersi sul letto facendole segni inequivocabili circa quello che le sarebbe accaduto se non gli avesse dato retta. Rosi, con il terrore negli occhi, lo implorò dicendogli di non commettere quella insensatezza, di ragionare, di pensare alle tragiche conseguenze di un tale gesto ma per tutta risposta Enzo la colpì con forza su entrambe le guance e sulla bocca puntandole il coltello alla gola.
Lei, in preda a dolori indicibili, sbottò in un pianto irrefrenabile ma lui le mise la mano destra sulla bocca, quasi soffocandola e con la sinistra le agitò il coltello davanti gli occhi. Dovette cedere. Lui non era più Enzo ma una bestia. Con gli occhi quasi fuori delle orbite, dopo averla costretta a denudarsi, diede inizio alla violenza. Pure tra il terrore e la sofferenza che provava si rese conto che lui aveva preso la precauzione di usare un profilattico, mentre i suoi modi erano violenti e dolorosi. La stava stuprando. Quando quello straziante momento terminò lui nel rialzarsi, sempre con il coltello puntato verso la sua gola, le ingiunse di non fare un fiato, poi con un fazzoletto strofinò il manico del coltello e glielo fece stringere nel pugno della sua mano, lo prese per la punta sempre con il fazzoletto in modo da non lasciare alcuna impronta, le disse di rivestirsi e quindi le bisbigliò nelle orecchie come avrebbe dovuto comportarsi da allora in poi. Non doveva dire nulla a nessuno, neanche una parola, perché se lo avesse fatto lui aveva già un piano per come modificare la versione dei fatti da quella che lei avrebbe tentato di raccontare ai suoi o a chiunque altro. Glielo espose irridendola…un piano diabolico e nello stesso tempo lucido. Intanto non esistendo testimoni la sua parola valeva quanto la propria e il bastardo le assicurò che sapeva come far ricadere la colpa di quanto era avvenuto su Nico sapendo inoltre come fare per affermare convincentemente di essere entrato in casa loro un paio d’ore dopo il solito orario delle riunioni che tenevano il martedì e il giovedì e d’averla già trovata in quello stato. Aggiunse pure che avrebbe raccontato in giro che lei, consenziente, aveva perso la verginità già da tempo come gli aveva confidato. Un ricatto vero e proprio e con l’eventualità del coinvolgimento di Nico in questa sordida vicenda. Non poteva permetterlo. Smise di piangere…gli promise che avrebbe mantenuto il silenzio e che si sarebbe inventata qualcosa per giustificare i segni sul suo viso. Poi, con assoluta padronanza di sé, sperando nel rientro anticipato di Nico, gli disse che se voleva poteva trattenersi ancora un po’ evitando ogni accenno su quanto era accaduto. Infine lui se ne andò.
(fine della quarta puntata)

venerdì 23 ottobre 2009

terza puntata de L'IMPREVISTO

Appena arrivati a casa Cesarina aveva già aperto la porta e ci accolse con cordialità: io mi affrettai a spiegarle di cosa si trattava e lei non sollevò la benché minima obbiezione, mi conosceva troppo bene. Rosi rimase molto soddisfatta della visita in casa e assicurò che avrebbe subito telefonato ai suoi per prospettargli la nuova situazione. Con la famiglia presso la quale abitava in questo periodo avrebbe sistemato ogni cosa, naturalmente con l’aiuto dei propri genitori. Due giorni dopo, verso le 13, sento squillare il telefono e, appena sollevato il ricevitore, una squillante voce femminile
-Ciao Nico, mi riconosci?
-Credo di si…sei Rosi vero?
-Complimenti, ti ricordi di me ed anche della mia voce
-Beh non è che io riceva molte telefonate femminili e a parte mia figlia e Cesarina non vedo proprio chi possa telefonarmi del gentil sesso
-Allora probabilmente alla tua lista ci aggiungerai anche me
-Che vuoi dire?
-Dico che ho telefonato ai miei e, benché io abbia insistito per evitare loro questo viaggio dicendogli che non era necessario, hanno deciso di venire domenica e, con il tuo permesso, vorrebbero conoscerti, parlarti e vedere con i propri occhi dove verrò a vivere dal prossimo lunedì in poi
-Ma allora tu hai già deciso?
-Certo! Quando domenica verremo porterò un paio di valigie con i miei effetti personali mentre mia madre, naturalmente, porterà chissà quante altre cose
-Di spazio per la tua roba credo ce ne sia abbastanza
-Nessun problema, ci vediamo domenica, nel pomeriggio
-Ma i tuoi a che ora arriveranno?
-Loro arriveranno con l’aereo: andremo prima a prendere le mie cose dove abitavo e poi, dopo pranzato, verremo da te…dovranno ripartire la sera stessa per i loro impegni a Palermo
Quella domenica pomeriggio tutto si svolse nel migliore dei modi. Facemmo la nostra reciproca conoscenza io e i genitori di Rosi ed il tempo trascorse in un clima cordiale e sereno. Mi sembravano una coppia ben assortita, entrambi vicini ai 55 anni, anche se Agata, la mamma di Rosi - la classica bellezza siciliana - “distava” almeno una ventina di centimetri in termini d’altezza dal proprio marito Giannetto. Quest’ultimo infatti era atletico, muscoloso, con due mani che avrebbero stritolato chiunque e talmente alto da domandargli come mai, allorquando iniziò la sua carriera, non si arruolò nell’Arma dei corazzieri al Quirinale. Lui mi spiegò, con molta tenerezza verso la propria moglie, che all’epoca rifiutò di entrarvi a farne parte giacché si era già innamorato di Agata e della Sicilia. Mi chiesero se la presenza di Rosi in casa significasse procurare limitazioni alla mia libertà ma confermai loro che mi avrebbe fatto piacere veder circolare in casa un’altra persona vista la mia ventennale solitudine e aggiunsi che in tal modo la casa tornava a “vivere”. Verso sera, poiché il loro aereo partiva intorno alle 22, ci salutammo con molta cordialità, fecero le loro raccomandazioni a Rosi e mi dissero che in occasione delle prime vacanze scolastiche avrebbero gradito una mia presenza a casa loro, in Sicilia. Ringraziai e assicurai che ci avrei pensato. Non cambiai nulla del mio abituale tenore di vita e sia io sia Rosi, alla quale avevo dato una copia delle chiavi di casa, eravamo riusciti in brevissimo tempo a coordinare molto bene le nostre reciproche abitudini e attività. Lei d’altronde tranne i giorni festivi rimaneva a scuola fino a metà pomeriggio e poi si vedeva con i suoi amici; qualche volta si cenava insieme, qualche altra andava con gli stessi amici al cinema, a teatro oppure a mangiare una pizza. In definitiva eravamo entrambi molto soddisfatti di come procedevano le cose, così come lo erano i suoi genitori che non facevano trascorrere più di tre o quattro giorni senza aver fatto la loro telefonata. Dopo qualche tempo Rosi mi chiese se poteva far venire in casa nei pomeriggi di due giorni la settimana, il martedì e il giovedì, tre suoi amici: Enzo, il figlio del maresciallo dei carabinieri presso il quale aveva abitato prima di venire a stare da me, Susi e Vera, tutti suoi coetanei e colleghi della stessa facoltà universitaria: volevano così preparare insieme le loro tesi di fine laurea. Io non ebbi nulla da dire anche perché trascorrevo tutti i pomeriggi fuori di casa insieme ai miei amici e poi, in ogni caso, non mi avrebbero recato alcun fastidio. Trascorse alcune settimane mi disse che i suoi amici avrebbero avuto piacere di conoscermi anche per ringraziarmi dell’ospitalità che ricevevano e così, un giovedì pomeriggio, anziché uscire rimasi in casa fino a quando sentii aprire la porta ed entrare Rosi in compagnia di Enzo, Susi e Vera
-Nico, ci sei?
-Sì, sì, sono qui, eccomi
-Allora…lui è Enzo di cui ti ho già parlato alcune volte
-Ciao, come va?
-Bene e lei?
-Lei è Susi e lei è Vera
-Ciao, siete molto carine, e anche tu Enzo, chissà che stragi di ragazze fai in giro
-Grazie. Noi abbiamo sentito parlare molto di lei: Rosi dice che é meglio di un padre
-Diciamo pure di un nonno
-Le si è affezionata, ci ha detto che é una persona speciale
-Adesso non esageriamo! Vi faccio un caffè o qualche altra cosa?
-Grazie, accettiamo volentieri
I giorni si susseguivano perfino troppo velocemente: arrivarono le vacanze natalizie e poi quelle pasquali che Rosi trascorse a casa sua in Sicilia. Malgrado gli insistenti inviti dei suoi genitori io dovetti rinunciare ogni volta ad andare da loro sia perché in quei periodi passava a trovami mio nipote Marco da Bologna sia perché mia figlia Camilla con suo marito Sandro, che vedevo raramente, mi volevano a Maiori.
*******
Mancavano appena un paio di mesi alla fine dell’anno scolastico e quella sera - erano circa le 23 - dopo aver letto qualche pagina del libro che stavo leggendo in quei giorni, spensi la luce e mi accingevo a dormire quando sentii bussare alla porta della mia camera
-Nico?
-Si?
Senza aggiungere altro Rosi aprì la porta, entrò e s’infilò nel mio letto. Percepii che si toglieva qualcosa di dosso. Si adagiò accanto a me e…
Stetti siccome immobile, esitante feci un sospiro…mi volsi verso di lei, mi colse un capogiro, il tacito domandar non mi fu dato…Ella s’avvicinò ancora più di prima. Il volto fra le sue mani mi prese dolcemente, mi baciò in fronte, indi le labbra sue raggiunsero le mie ed io non resistetti, contraccambiai…Volle allora prender le mani mie e sui seni suoi condurle lievemente: li carezzai, li baciai, sentii fremere il suo caldo corpo, lentamente mi fece proseguire premendo in modo tenue il capo mio lungo di lei là fin dove nasce ogni umana vita, gemiti sommessi e poi un grido a stento soffocato…Oltre non andammo: pose un dito suo sulle labbra mie, capii che un bel tacer era da lei gradito e infine prese una delle mie mani che a lei era avvinta, la baciò sul dorso e racchiusa nel mio corpo s’addormentò pian piano…Udii il suo russare tenero e delicato e m’addormentai anch’io sebbene frastornato.
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(fine della terza puntata)

mercoledì 21 ottobre 2009

seconda puntata de L'IMPREVISTO

Passandoci davanti le feci vedere il fabbricato dove abitavo e la scuola comunale e statale con esso confinante. Giunti nei prèssi della stanza dove ricordavo lavorava un funzionario mio vecchio amico, dissi a Rosi che l’avrei presentata come una nipote per dare maggior valore al mio interessamento: lei fu assolutamente d’accordo tanto che, scherzosamente, cominciò a chiamarmi “zio”. Quando entrammo l’amico mi salutò con molta cordialità e ci scambiamo alcuni ricordi su conoscenze comuni: le presentai “mia nipote” e gli chiesi se poteva aiutarla dandole alcune informazioni. Si mise subito all’opera ed in brevissimo tempo ci mise a conoscenza di tutto quello che c’interessava sapere. Lo ringraziammo e, appena usciti dal portone, ignorando ogni precedente convenevole, dissi a Rosi
-Ma tu guarda che combinazione
-Quale?
-La scuola dove andrai ad insegnare è quella che si trova proprio accanto a casa mia, qui a due passi
-Mi era sembrato di ricordare il nome della strada:vorrà dire che ci incontreremo più spesso
-Non solo: l’università non è molto distante da qua tanto che potrai andarci facendo soltanto una breve passeggiata…Anzi adesso t’indico il tragitto
-Sono proprio contenta!Almeno si attenuerà di molto il pendolarismo che dovrò affrontare ogni giorno sia per il lavoro sia per gli studi, e questo grazie a te
-Grazie di che? Ho fatto così poco
-Sai come saranno contenti i miei quando gli darò questa bella notizia
-Lo credo anch’io
Rosi continuò a parlare ma anziché ascoltarla stavo pensando fra me e me. Poi le dissi
-Scusami,non ti stavo seguendo perché mi è venuta un’idea
-Vale a dire?
-Hai fatto cenno al pendolarismo
-Sì perché con la scuola e l’università così vicine mi basterà prendere il treno soltanto due volte il giorno, la mattina per il lavoro e lo studio e la sera per il ritorno alla casa dove attualmente sono ospite
-A proposito di pendolarismo io vorrei proporti una cosa, però ti prego, non dare un’interpretazione sbagliata a quanto ti dirò
-Dimmi
-Tuo papà è capitano dei carabinieri vero?
-Beh ma che c’entra
-Io penso che lui possa fare o far fare degli accertamenti su di me
-E perché mai?
-Adesso te lo spiego: prendi nota delle mie complete generalità: nome, cognome, luogo e data di nascita, residenza anagrafica, stato civile, estremi del mio documento d’identità. Ecco, scrivi, scrivi
-Va bene, lo sto facendo…Fatto, però vorrei conoscere il perché
-Perché tu fornirai questi dati a tuo padre, parlerai sia con lui sia con tua madre e dirai loro che ti è capitata una buona occasione
-Quale sarebbe?
-Vedi…io abito in questo palazzo al terzo piano interno 9 da circa 40 anni. Aspetta, aspetta, fammi spiegare bene: ci vivo da solo, tre camere più servizi ed una di queste camere viene molto raramente occupata da mio nipote - figlio di mia figlia - ogni volta che gli capita di passare di qua per andare a Bologna. E’ uno studente universitario anche lui e quindi è una camera già pronta per ospitare qualcuno.
-Ho capito, ma io che cosa c’entro? Non sono tua nipote
-No, è vero, ma pensa alle comodità: non sarai più una pendolare, avrai lavoro e università a due passi e potrai dedicarti più agevolmente alle tue attività preferite
-Spiegati meglio
-Se vuoi potresti venire ad abitare da me
-Ma ti ho appena conosciuto! So talmente poco di te e poi…non capisco…mi sembra talmente incredibile quello che stai dicendo, senza parlare poi del fatto che nemmeno tu mi conosci
-Per quanto riguarda me ti ho fornito appunto tutti i miei dati personali in modo che tuo padre possa controllare che persona sono
-Io però potrei non essere una persona perbene
-Non credo: in ogni caso sei vuoi riflettici sopra e ascolta anche il parere dei tuoi genitori, anzi, se possono, sarebbe opportuno che venissero prima a controllare ciò che ti è proposto
-Sono un po’ perplessa
-Ti capisco però credimi, mi è venuto spontaneo dirti quello che ti ho accennato
-Non lo sto mettendo in dubbio, è che da parte mia era del tutto imprevedibile una…sì, insomma, una cosa del genere! Poi ho anche delle perplessità dovute al fatto che il maresciallo e sua moglie che mi ospitano in questo periodo hanno tutta la mia fiducia e quella dei miei. E con Enzo, il loro unico figlio - tra l’altro un bellissimo ragazzo - con il quale ci conosciamo sin dalle elementari, frequentiamo la stessa facoltà universitaria come già ti ho detto, studiamo insieme, viaggiamo insieme
-Hai ragione, se poi è anche il tuo ragazzo ti capisco benissimo
-No, no, non stiamo insieme, per me è soltanto un amico, magari fraterno ma niente di più anche se ci sono ragazze che se lo divorano con gli occhi! Noi due invece non abbiamo mai oltrepassato il confine della vera fratellanza forse perché ci conosciamo talmente bene da sapere quali sono i nostri reciproci difetti e allora ci sopportiamo, con affetto, ma niente di più
-Peccato, mi era sembrata una buona idea
-Altro che buona, ottima, e io ti ringrazio. Voglio anche aggiungere che non credo avrei potuto permettermi un costo d’ affitto troppo oneroso per me: preferisco non seguitare a farmi aiutare dai miei, anche se loro spingono per il contrario
-Questo non è un problema perché io non essendo proprietario ma inquilino della casa dove abito non posso subaffittàre neppure volendo: potrei solo ospitarti come una parente
-Ma com’è possibile che…
-Un momento però, potresti contribuire alle spese per l’energia elettrica, il gas, l‘acqua, il riscaldamento: ecco , per le cose indispensabili alla vita quotidiana. Come vedi avremo entrambi un certo vantaggio e poi credo che, così facendo, tu non avresti di che sentirti a disagio
-Mmm, stai dipingendomi una situazione veramente allettante
-Ti assicuro che non esiste alcuna intenzione recondita
-Se è per questo credo di avere abbastanza cervello da capire diciamo come stanno le cose,anzi sai che ti dico? Dove si trova casa tua? Vorrei dare uno sguardo a quella che potrebbe fare al caso mio
-Penso di sì, eccoci arrivati: questo è il portone e meno male che oggi è lunedì, a quest’ora c’è in casa Cesarina, la signora che mi dà una mano due volte la settimana, quindi puoi venire tranquillamente
-Scusami tanto Nico, sarà una mia impressione: ma tra noi due il più timoroso sembri tu e non ne vedo la ragione io sono tranquillissima
-Beh io sono un po’ all’antica e poi con tutto quello che si sente in giro
-Non ti preoccupare, andiamo su
-Aspetta che citofono a Cesarina e la informo che sto salendo con un’ospite
-Scrupoloso eh?
-Sono fatto così
(fine della seconda puntata)

lunedì 19 ottobre 2009

L'IMPREVISTO - Prima puntata

-Allora nonno, è arrivato il momento
-Già, però dimmi la verità Marco: sei stato bene questa settimana qui con me eh?
-E me lo chiedi? Altro che vacanza! E poi te l’ho sempre detto, ricordo molto i bei momenti di quando ero poco più che bambino…Non dico che tua figlia…
-Guarda che è tua madre, e sai pure quanto bene le voglio
-Non ho il minimo dubbio, ma è noto anche a te che sia lei sia papà, a causa dei loro impegni, hanno potuto dedicarmi ben poco del loro tempo. No, no, aspetta, non mi sto lamentando: te ne ho parlato spesso, non mi hanno fatto mancare mai il loro affetto e ogni volta che ne ho avuto bisogno hanno fatto l’impossibile per starmi vicino, però…
-Però cosa?
-Da quando sto con Janine…
-Ah, sì,la francesina! Frequentate la stessa facoltà all’università di Bologna,vivete insieme…mi hai già detto tutto
-Non solo ma con suo fratello Bernard che si è messo con Bruna, una bella ragazza di Amalfi, ed abitiamo tutti e quattro insieme in un discreto appartamento a pochi passi dal centro della città e siamo felicissimi
-Infatti tu non vedi l’ora di partire
-Nonno, sei stato giovane pure tu o no?
-Sì, ma erano altri tempi e non avevamo tutte queste libertà e possibilità
-Che fai? Predichi anche tu adesso?
-Nemmeno per sogno! E poi, adesso mi ricordo, i due parigini li hai conosciuti due anni fa proprio nell’albergo di tua madre lì a Maiori
-Nella splendida costiera amalfitana ,proprio così!
-E da cosa è nata cosa, vero?
-Hai ragione, ma tornerò a trovarti, giuro
-Qui c’è sempre posto per te. Beh, adesso basta, un abbraccione forte forte e fammi avere presto tue notizie. Ma tu ne hai di tuo padre?
-Credo che sia in volo per mezzo mondo: quando la settimana scorsa siamo venuti qua da te è partito da Fiumicino per Londra e lì lo aspettava l’intero suo equipaggio
-Hostess incluse…
-Naturalmente, poi da lì dovevano andare a New York, quindi…
-Basta, basta, va bene così, ritorna a Bologna è meglio
-Ciao nonno e grazie, so che posso contare sempre su di te oltre che su mamma e papà
-Ciao
Questo fu il breve dialogo che ci scambiammo al momento della sua partenza io e l’unico mio nipote, figlio della mia unica figlia Camilla e del mio unico genero Sandro. La casa adesso tornerà ad essere deserta giacché io vivo da solo. Però due volte a settimana e per tre ore viene Cesarina, quella santa donna che mi aiuta nel mio disordine. Ormai sono venti anni che mia moglie Alba riposa in pace accanto ai suoi cari dopo una lunga e dolorosa malattia. A dire la verità quasi tutti i giorni mi vedo con un gruppetto d’amici della mia età, disputiamo qualche partita a carte, a dama, a scacchi, insomma lasciamo scorrere il tempo che è rimasto e poi ci sono anche le mie uscite mattutine per il giornale e acquisti vari.
E’ proprio giunta l’ora di farlo. Il mio solito giro coincide quasi sempre con l’incontrare persone che ormai conosco da anni e…

-Permette signore?
-Dice a me?
Mi volto e vedo una giovane ragazza non propriamente bella ma con dei capelli neri e talmente lunghi da fasciarle quasi la parte superiore del corpo, zigomi alti, viso interessante e il resto pure
-Sì, se non la disturba
-E perché mai? Dica
-Sto cercando l’Ufficio Scolastico Regionale del Ministero dell’Istruzione per…
-Lei è un insegnante, vero?
-Sì Perché sorride?
-Il motivo le sembrerà un po’ stupido: il fatto è che abito in questo rione dal 1968 e quasi tutti gli anni, sul finire del periodo estivo, ho spesso incontrato persone giovani come lei ed anche più anziane che mi hanno chiesto l’ubicazione dell’Ufficio Scolastico che qualche tempo fa si chiamava Provveditorato agli Studi
-Beh noi ci andiamo per avere informazioni più precise circa l’Istituto Scolastico dove siamo stati destinati
-Lo so, lo so, ho lavorato lì per oltre un trentennio
-Allora conosce qualcuno che potrebbe darmi indicazioni utili?
-Per la verità molti sono andati in pensione ma qualcuno c’è ancora
-Lei mi farebbe il favore di dirmi il nome di qualche funzionario che potrebbe…
-Facciamo così: da dove ci troviamo potrebbe essere un po’ complicato spiegarle le strade da percorrere, dove girare a sinistra o a destra e via discorrendo; giacché io abito vicinissimo all’Ufficio che sta cercando avrei da suggerire una cosa
-L’ascolto
-Ehm, io cammino davanti, lei mi segue, arrivati in prossimità dell’Ufficio io le indico il portone e lei è bella che arrivata
-Scusi, ma perché devo seguirla? Non posso camminarle accanto?
-Mah, dicevo così, chiamiamola discrezione
-Invece sa che le dico? Se lei mi accompagna dentro l’Ufficio e mi presenta a qualcuno delle sue conoscenze che magari mi aiuta io non posso far altro che ringraziarla, sempre se non ha altro da fare
-Alla mia età? No, no, sono un vecchio pensionato adesso
-E io invece sono una giovane insegnante che ha bisogno d’aiuto
-D’accordo, d’accordo Tanto per cominciare il mio nome è Nicola ma mi faccio chiamare Nico
-Io mi chiamo Rosi ma il nome intero è Rosalia, la santa patrona di Palermo
-E’ siciliana?
-Si sente dall’accento vero? Lo sono per metà, mio padre Giannetto è umbro mentre mia madre è nata a Palermo come me: si chiama Agata dal nome di una santa protettrice spodestata in seguito da quella attuale
-Anch’io quasi lo sono, nel senso cioè che entrambi i miei genitori erano nati in Sicilia mentre io invece qui
C’incamminammo quindi verso la nostra destinazione raccontandoci qualcosa di entrambi. Lei mi disse che suo padre era un capitano dei Carabinieri tuttora in servizio mentre la madre era proprietaria di un’attività commerciale; aggiunse di essere figlia unica, di avere ventidue anni e di aver conseguito la laurea breve in lettere, di voler proseguire gli studi fino alla specializzazione, di essere ospitata attualmente in una località distante una cinquantina di chilometri in casa di un maresciallo dell’Arma per molto tempo agli ordini del padre in Sicilia, sposato, con un figlio della stessa sua età e collega di facoltà nella stessa università: in definitiva una famiglia molto perbène presso la quale si sentiva a suo agio, peccato per la distanza sia dall’università sia dalla scuola dove avrebbe dovuto insegnare.
(fine della prima puntata)

giovedì 15 ottobre 2009

UNA NOTTE CHE NON ERA TEMPESTOSA E BUIA ACCADDE CHE...

…s’era fatta quasi mezzanotte e io presi la decisione di andarmene a dormire, che ormai era pure arrivata l’ora di farlo.

Feci le mie solite operazioni, sempre quelle da secula e seculorum, e mi presi la mia brava pilloletta che m’aveva sempre aiutato a cadere nelle braccia di Morfeo.

Infilatomi sotto le lenzuola nel mio bel lettuccio mi preparai ben bene assumendo sempre la solita posizione: voltato sul fianco destro, la manina destra poggiata tra il mento e la guancia pure destra, un bel respiro e pronto per il giusto sonno.

Il tempo trascorreva, ma io non facevo altro che girarmi continuamente nel letto. C’era qualcosa che prima di coricarmi avrei dovuto fare e non ricordavo d’averla fatta. Ma cosa?

Decisi di alzarmi, andai in giro per casa e così vedere se riuscivo a ricordarmi quello che avevo dimenticato di fare. Niente. Risposte non n’arrivavano.

Aspettai un altro po’, presi anche un libro, lessi qualche pagina e quando sentii che le palpebre mi facevano pupi pupi – Camilleri docet – m’infilai di corsa nel letto.

Naturalmente cominciai pure a contare le pecore, ma arrivato a 326 mi fermai visto che il trucco non funzionava. Mi cantai allora, sottovoce, una tenera ninna nanna che avevo adoperato molti anni prima per le mie nipotine, ma di sonno neppure un piccolo segnale.

Cominciai a pormi delle domande. C’era qualche motivo d’eccessiva preoccupazione che mi tormentava? Non mi sembrava, almeno quella notte. Morfeo si era stancato di tenermi tra le sue braccia e voleva scaricarmi su quelle di Oniro? Forse, ma io che c’entravo? Loro dovevano provvedere, che facessero pure.

Mi rialzai, accesi una piccola luce e cercai di fare mente locale per capire quale accidenti di mossa avevo in programma e che invece avevo dimenticato. Ripassai mentalmente i movimenti che facevo da sempre tutte le sere, ma non mi rendevo conto di cosa potevo aver trascurato. Ero certo d’averle fatte tutte.

Presi allora una decisione. Avevo da parte, pronta per qualsiasi evenienza, una medicina che si prendeva a gocce – non più di dieci – insieme a pochissima acqua. Visto come stava andando la faccenda presi quindici gocce e forse qualcuna in più. Spensi la luce, mi coricai di nuovo e attesi pazientemente.

Detti un’occhiata all’orologio e mi spaventai: s’erano fatte quasi le tre del mattino e di dormire manco a parlarne.

Mi arresi, accesi il televisore tenendo l’audio spento, feci un po’ di zapping qua e là per le varie TV ma mi accorsi che tra televendite, film horror, film di fantasciènza e programmi simili mi stavo innervosendo troppo. Lasciai stare.

Inforcai la cyclette che si trova nella stanza dove dormo – quando ci riesco – e cominciai a pedalare, ma le gambe dopo poco tempo cominciarono a farmi pasquale pasquale. Lo so che il nome è un altro, ma in quel momento non lo ricordavo.

Mi arresi, accesi la piccola luce, mi misi davanti al pc, questo sì battezzato Pasquale, parlai un po’ con lui, ci litigai anche perché le dita sulla tastiera andavano dove a loro piaceva andare e non sui tasti che intendevo io e, stremato, attesi l’alba che si presentò verso le sei a.m. abbondanti.

Stavo accingendomi a fare le quotidiane operazioni mattutine quando improvvisamente mi si fece luce nella mente.

Ogni sera prima di andare a letto controllavo sempre se i rubinetti del gas erano stati chiusi e quella sera non l’avevo fatto.

Mi precipitai in cucina e…erano SPENTI!

Quel giorno dormii ininterrottamente fino all’indomani mattina.

lunedì 12 ottobre 2009

OSTERIA NUMERO UNO PARAPONZI PONZI PO...

Mi mancava questa parte dei miei ricordi poi, leggendo un post di Serenella – Maremé che trattava delle osterie, m’è venuto in mente di scrivere qualcosa riguardo allo stesso argomento.
Un passo indietro.
Veramente un passo indietro di cinquantaquattro anni, dato che fino al ventiseiesimo ero single e frequentavo quei locali caratteristici almeno da dieci anni prima.
Allo scopo di individuare meglio la loro posizione cerco di descrivere la zona dove si trovavano e che facevano parte integrante di un gruppo di fabbricati ad uso abitazioni e negozi vari. La combriccola della quale facevo parte chiamava questa zona “Isola del zibibbo”. Essendoci nato sono pertanto un isolano. Andiamo adesso a spiegare perché gli è stato attribuito quel nome. Questa piccola parte del 1° Rione di Roma, il Monti, era ed è racchiusa tra via della Polveriera, Largo della Polveriera, via delle Terme di Tito, via Nicola Salvi, via del Fagutale e via Monte Oppio. Per entrarvi bisogna scendere dal Colle Oppio-Domus Aurea-Casa di Nerone, oppure salire dal Colosseo, oppure ancora dalla salita dei Borgia e annessa gradinata.
Tre erano le osterie a quei tempi:
- la prima, a via della Polveriera angolo Largo della stessa, era annessa ad un “orzarolo” - soprannome di negozio senza forno che vendeva generi alimentari vari all’infuori di carne, pesce, frutta e verdura. I proprietari erano il sor Salvatore detto “er gricio”, la moglie sora Nunziata e un loro figlio Ennio detto “er gricetto”.
L’osteria apriva soltanto nei giorni feriali, dopo le 17.00. Noi bevevamo gazzose perché il vino costava troppo e la birra non andava di moda. Chi l’aveva fumava qualche sigaretta magari passandola poi a chi gli chiedeva “che me fai fa’ ‘na tirata?” e si giocava a carte – quelle napoletane - senza circolazione di soldi perché non girava ‘na lira, fino a che er gricio non ci buttava fuori. Avendo possibilità di scegliere la frequentavamo poco:
- la seconda, a via delle Terme di Tito angolo Largo della Polveriera, era osteria con possibilità di consumare cibi propri ovvero da coloro che erano chiamati “fagottari”. Il proprietario era il sor Felice il quale era aiutato da tre figlie femmine. Per questo fatto, forse, era la più frequentata dal mattino fino a sera inoltrata sia da noi “isolani” sia da operai edili e non solo. In questo locale c’era anche la possibilità di aggiungere al vino, per chi lo beveva, anche una o due spruzzatine di seltz contenuto dentro un sifone con un becco di metallo in cima. Interminabili partite a briscola, scopa, scopetta e tressette “cor morto” o senza ci aiutavano a farci arrivare all’ora di cena;
- la terza, sempre a via delle Terme di Tito verso via Nicola Salvi, era quella meno frequentata forse perché poco accogliente. Un unico locale, buio e con un cesso invisibile. Il figlio del proprietario, sempre nell’attesa di clienti, si chiamava Nestore ed era un nostro amico. Tranquillo, silenzioso, si faceva i fatti suoi e non dava fastidio a nessuno.
Confinava con un bar-latteria-tabacchi in angolo tra via Nicola Salvi e via Terme di Tito. Aveva una vista stupenda sul Colosseo che quasi si poteva toccare con mano. Esagero d’accordo, però era vicinissimo, sempre frequentato da grosse comitive di turisti. Anche questo bar aveva un piccolissimo locale dove si poteva giocare a carte ma dove però si doveva consumare qualcosa che aveva un suo costo al di sopra delle nostre possibilità. Il proprietario, piuttosto bonaccione, era il Sor Augusto. Lui e il Sor Giggetto, fornaio di via Monte Oppio, figurano con tanto di nome e cognome nel mio Estratto dal Registro degli Atti di Nascita, quali testimoni della mia nascita. Erano entrambi conoscenti di mio padre e la nostra famiglia faceva parte della loro clientela.
Ricordo che a quell’epoca ognuno di noi aveva un soprannome. Il mio era “er ficozza” per via di un colpo che avevo ricevuto sulla nuca gentilmente offertomi da un mio coetaneo. Poi c’era “er bacheca”, “er fazenda”, “er bucio nero, “er ciruzzo” , “er cammina” e tanti altri che adesso mi sfuggono.
Mi viene in mente adesso che nel ’49 o nel’50 fu presentata una bibita in concorrenza con la coca cola. Si chiamava Chinotto Neri e non era male. Andava a ruba specialmente nelle osterie.
Io non ero un bevitore di vino e non lo sono mai stato, ma una volta, avevo circa diciotto anni, presi una tale sbronza che mi dovettero quasi ricoverare.
Quella che poi era diventata la mia ragazza, m’aveva detto no! Altri tempi.

venerdì 9 ottobre 2009

seconda ed ultima puntata de L'ALBERGO

Si era stabilito fra loro un qualcosa d’invisibile che percepivano quasi materialmente ma che non riuscivano ancora a decifrare in modo compiuto. Dopo i primi tre o quattro giorni avevano convenuto che potevano tranquillamente usare tra loro un tono più confidenziale, come se si fossero conosciuti da anni e potersi così raccontare anche i più piccoli segreti. Gli altri ospiti dell’albergo, ovviamente, cambiavano in continuazione: chi per fine ciclo di cure e chi per fine periodo di vacanze. Così anche i frequentatori del “piccolo salotto”. Giusi e Lucio pensavano più volte a quando, purtroppo, sarebbe arrivato il “turno” di lui. Qualche giorno prima aveva avuto l’occasione di conoscere la suocera ed i bambini di Giusi: tre vivaci maschietti di cinque, sette e nove anni. Lei aveva voluto tanto farglieli conoscere e pensò di averne compreso il motivo. Arrivò l’ultimo giorno di vacanza. L’indomani Lucio doveva rientrare a casa e al lavoro. Decisero insieme di salutarsi quella sera, al riparo da tutti. Si abbracciarono calorosamente, sentirono qualcosa dentro di loro, si scambiarono due castissimi baci e Giusi lo pregò di telefonarle quando voleva e, possibilmente, di tornare. Lucio la rassicurò dicendole che le avrebbe telefonato sicuramente e le dette anche i numeri telefonici dell’ufficio in cui lavorava pregando anche lei di telefonargli al più presto. La mattina dopo saldò il conto riguardante la sua permanenza in albergo; salutò tutti cordialmente e si mise in macchina per il rientro a casa. Ripreso il lavoro, lasciò trascorrere due o tre giorni e poi decise di telefonarle ma non appena si accinse a farlo gli dissero che c’era una telefonata per lui: era Giusi. Telepatia allo stato puro. Alternativamente, ogni due giorni si telefonavano. . Il filo del telefono li faceva sentire molto più uniti e vicini. Entrambi comprendevano che più giorni passavano e più cresceva il loro comune desiderio. Alla fine di settembre Giusi gli telefonò in un’ora insolita per informarlo che l’indomani sarebbe partita per andare dai suoi genitori a Padova e che quindi non sarebbe stata in albergo per ricevere le sue telefonate. D’impulso le chiese a che ora partiva. Lei gli precisò orario e binario poi quando le assicurò che l’avrebbe accompagnata a Padova gli confessò che l’aveva sperato. La stazione era un brulichio di gente. Nella confusione riuscì lo stesso a trovare il binario dove era in attesa il treno per Padova e fatti pochi passi si sentì chiamare, si volse: era Giusi. Si abbracciarono quasi con violenza, felici. Sul treno trovarono posto in uno scompartimento dove c’erano già sedute sei o sette persone. Non si parlarono per un po’. Poi si guardarono e si abbracciarono incuranti della presenza degli altri. Si raccontarono reciprocamente qualcosa di entrambi ma sembrava avessero la mente un po’ annebbiata. In prossimità dell’arrivo a Padova, Giusi gli disse che appena giunti alla stazione lei sarebbe scesa per prima e lui doveva farlo qualche tempo dopo, per evitare che qualche suo conoscente li vedesse insieme. Gli scrisse il numero telefonico della casa dei suoi, gli disse in quali ore era preferibile telefonare e si salutarono abbracciandosi. Arrivati alla stazione di Padova Giusi scese dal treno e si allontanò rapidamente confondendosi tra la folla. Poco dopo anche Lucio si avviò verso l’uscita della stazione, prese un taxi e chiese all’autista di portarlo in un buon albergo. Appena arrivati l’autista lo accompagnò fino al bancone della reception e salutò quello che ritenne essere un suo amico. Nella sua camera Lucio si distese un po’, fece una telefonata a casa per comunicare ai suoi che era arrivato a destinazione ed uscì per fare uno spuntino. Dopo un paio di giorni, all’orario concordato, telefonò a Giusi. Gli rispose proprio lei e gli affermò che aveva atteso con impazienza questa telefonata. Gli chiese in quale albergo aveva trovato alloggio e Lucio le diede tutte le informazioni. Dai suoi le cose si stavano sistemando e aggiunse che aveva deciso di venirlo a trovare in albergo l’indomani verso le 14. Lui le confermò che l’avrebbe attesa con trepidazione e che non vedeva l’ora di poterla riabbracciare. Alle 14 in punto del giorno dopo gli telefonarono dalla portineria dell’albergo per dirgli che c’era una signora che desiderava salire da lui. Li rassicurò che la stava aspettando e che potevano farla salire. Dopo qualche minuto sentì bussare alla porta, la aprì rapidamente ed entrambi si tuffarono con foga l’uno nelle braccia dell’altra. Un lungo bacio dolce e appassionato disse loro più di mille parole. Si tolsero gli abiti di dosso. Lucio ammirò il corpo di Giusi minuto ed affusolato ma colmo di rotondità nei punti giusti e quindi, stringendosi con forza, si stesero nel letto cercando, in un primo tempo lentamente poi sempre più velocemente, di compiere l’atto che la natura imponeva loro. Ma c’era qualcosa che non andava. .Entrambi s’impegnarono quasi con furore per arrivare al culmine di ciò che desideravano da tanto però le cose non funzionavano come avrebbero dovuto. Si guardarono negli occhi come per chiedersi quali potevano essere i motivi che impedivano loro di ottenere la felicità tanto a lungo desiderata. O forse era proprio per questo che stavano fallendo? L’enorme desiderio? Giusi si staccò da Lucio, si distese al suo fianco coprendo le proprie nudità con il lenzuolo e voltò il suo viso verso il muro. Gli sembrò di sentirla piangere. Le prese il mento tra le proprie mani e osservò le lacrime spuntarle dagli occhi. Non sapeva cosa dirle. Stupidamente cercò di consolarla dicendole che doveva essere sua la colpa, forse per lo stress o chissà per quale altro motivo. Lei si asciugò le lacrime, si alzò dal letto e così come madre natura l’aveva creata si recò in bagno dal quale uscì pochi minuti dopo. Con dignità e lentamente si rivestì dinanzi a lui, come se nulla fosse accaduto. Terminato di sistemarsi gli si avvicinò, prese il suo viso tra le proprie mani e lo baciò delicatamente su di una guancia:

=Lucio non affliggerti. Forse il destino ha voluto che andasse così. ma non sono per niente pentita di ciò che ho tentato di fare e soprattutto sono più che felice di averti conosciuto. Addio e ogni tanto cerca di ricordarti di me. =

Lei uscì dalla camera e anche dalla vita di lui. Lucio impiegò un bel po’di tempo prima di riprendersi, poi si rivestì, avvertì la portineria che l’indomani mattina avrebbe lasciato l’albergo e decise anche di non andare a cenare, non ne aveva voglia. Alle 11 del giorno dopo si ritrovò alla stazione durante l’attesa del treno che l’avrebbe riportato a casa. Quante stranezze nella vita. Quella relazione, non sapeva se era giusto definirla così, aveva avuto inizio nell’Albergo Padova di quella piccola cittadina termale ed era finita malamente in un albergo della città di Padova!

martedì 6 ottobre 2009

L'ALBERGO - Prima delle due puntate

Lucio notò che la ragazza dell’azienda di turismo in quella cittadina termale a 700 m.s.l.m., era stata molto gentile. In seguito alla richiesta gli aveva fornito una rosa di nomi d’alberghi che facevano al caso suo. Non troppo onerosi, muniti di parcheggio, piuttosto vicini al centro città per evitare di muoversi in macchina. Tre gli alberghi che facevano al caso suo e, non sapendo neppure il perché, scelse quello col nome più semplice: “Albergo Padova”. Gli altri due avevano nomi esotici. Ci arrivò rapidamente e notò che si trattava di un moderno fabbricato di tre piani unito ad un edificio minore di un solo livello, il tutto circondato da un ampio spazio asfaltato, adibito a parcheggio privato per i clienti dell’albergo. Entrò, gli sembrò di non vedere nessuno, ma fatti pochi passi verso il bancone della reception si affacciò da un piccolo salotto seminascosto da un tendaggio, una signora, forse sulla quarantina, minuta, ma graziosa nelle sue fattezze la quale, con molta cordialità, gli chiese se aveva bisogno di qualcosa. Le rispose affermativamente e chiese se ci fosse, libera, una camera singola con bagno annesso. Lei lo informò che n’aveva due disponibili: una al primo piano ed una al terzo aggiungendo che a questo piano vi si poteva arrivare anche con l’ascensore. Scelse quella al primo piano e lei, sorridendo, gli rivolse il cortese invito d’informarla quanto tempo aveva intenzione di trattenersi. Tra i 20 e i 25 giorni, le rispose. Sempre con un lieve sorriso sulle labbra gli chiese se desiderava vedere la camera e visitare l’albergo, ma le affermò che non era necessario e la ringraziò. Uscendo per prendere le valigie dalla macchina, Lucio si chiese se quella signora, che parlava con un lievissimo accento veneto, era la proprietaria oppure…Ma no, non poteva essere una dipendente. Appena rientrò trovo la signora al bancone che gli chiese, molto gentilmente, di fornirle un documento d’identità . Mentre gli consegnava la chiave della camera, fece un cenno ad una donna robusta che sembrò spuntata dal nulla la quale afferrò le valigie e gli disse cortesemente di seguirla. Durante il breve tragitto la “guida”, piuttosto ciarliera, lo informò di essere una delle cinque dipendenti dell’albergo, di avere circa sessanta anni, di chiamarsi Isolina, di lavorare in albergo da più di cinque anni, di essere una lontana parente del marito della proprietaria - la signora del bancone - la quale si chiamava Giusi ed era di Padova. Aggiunse che il marito di Giusi era impiegato alle terme e che avevano tre bambini accuditi dalla suocera, tutti abitanti nell’edificio accanto all’albergo che si chiamava appunto Albergo Padova in omaggio alla città ove era nata la sua proprietaria. Lucio pensò che se il tragitto si fosse prolungato fino al terzo piano probabilmente gli avrebbe raccontato vita, morte e miracoli dell’intero personale dell’albergo. Approfittò della loquacità d’Isolina per chiederle gli orari della prima colazione, del pranzo e della cena e se il menù era unico oppure si poteva scegliere. La risposta lo soddisfò favorevolmente. Ritenne di aver fatto un’ottima scelta venendo in quest’albergo. Diede un’occhiata alla camera assegnatagli: numero 11; osservò che era piccola ma ben arredata ivi compreso il bagno-doccia, tutto in ordine e pulizia perfetta. Sistemò con cura gli indumenti ed i vari accessori che aveva portato con se da casa. Si doveva ricordare di telefonare ai suoi per informarli in quale albergo si trovava. Loro, per motivi chi di lavoro chi di studio, non erano potuti venire con lui in questo periodo. Scese nell’atrio e non vedendo nessuno dietro il bancone chiamò la proprietaria la quale arrivò subito. Gli restituì il documento che le aveva lasciato poco prima e Lucio le chiese come mai non vedeva altri clienti. Lei lo informò che erano alle terme per la cura e che lui per oggi non avrebbe potuto iniziare il suo ciclo di cure. La interruppe affermandole che non era venuto lì per nessun tipo di cura ma soltanto per una vacanza di riposo al riparo dalla calura estiva della propria città. Al che Giusi gli disse che, notando la sua data di nascita, 46 anni, per l’appunto si era chiesta come mai avesse bisogno di cure termali. Gli confidò anche che lei ne aveva 41 abbondanti e che in pratica tra loro e gli altri clienti dell’albergo c’erano quasi 30 anni di differenza. Cambiarono discorso per non scivolare nella malinconia e nella tristezza. Gli fece vedere il salone ristorante, gli chiese quale tavolo desiderava scegliere e lui, nell’assicurarle che non aveva particolari esigenze, la salutò e uscì dall’albergo. Si diresse, a piedi, verso il centro della cittadina che non era molto lontano. Se era la prima impressione quella che contava doveva ritenersi abbastanza soddisfatto riguardo alla sua pur breve permanenza in quella località. Quaranta minuti più tardi rientrò in albergo e si diresse verso il salone ristorante. I tavoli, poco più di una diecina, erano quasi tutti già occupati; andò verso il suo e s’accorse di essere osservato. Comprendendo benissimo la curiosità verso un nuovo arrivato la cosa non gli dette alcun fastidio. Entrò ancora qualche altro ritardatario e notò che tutti i posti ai tavoli erano occupati da circa una cinquantina di ospiti. Alcune giovani cameriere cominciarono a svolazzare tra i tavoli e tutti furono serviti molto gentilmente, con cura e precisione. Dopo aver pranzato alcuni si diressero verso il salotto più grande per uno scambio di commenti ed opinioni, altri verso l’uscita per una breve passeggiata. Lui si aggirò un poco per l’albergo e notò che, dopo neanche trenta minuti, tutti si ritirarono nelle loro camere: era l’ora della siesta. Gli venne da sorridere senza sapere neppure il perché. Decise di dare un’occhiata al piccolo salotto e vide uno scaffale colmo di libri, scelse “La storia” di Elsa Morante e iniziò a leggerlo anche se era la seconda volta. Assorto nella lettura non si accorse che era entrata la proprietaria, Giusi, alla quale chiese se poteva prendere quel libro in prestito. Ottenuto il consenso senza alcun problema, salì in camera per poggiarlo su di un tavolino vicino al letto e ridiscese subito dopo. Stava avviandosi verso il bancone per depositare la chiave ma notò che Giusi stava parlando con un uomo che doveva avere circa la sua età. Si allontanò per discrezione ma lei lo chiamò e gli presentò la persona che era lì con lei dicendogli che si trattava di Ugo suo marito. Si strinsero la mano vicendevolmente e si scambiarono qualche parola di circostanza. Era un uomo prestante, cortese nei modi ed anche socievole. Lucio salutò entrambi e si avviò per il suo giro esplorativo della cittadina. Rientrò in albergo per la cena terminata la quale Giusi lo invitò nel piccolo salotto e gli presentò gli altri membri del gruppetto di lettori. Non erano ancora le 23 che già tutti gli ospiti dell’albergo si salutavano scambiandosi la buonanotte per ritirarsi quindi nelle loro rispettive camere. Sembrava che lui fosse l’unico ospite dell’albergo che ancora non era andato a dormire. La conferma gli venne da Giusi la quale, d’altra parte, gliel’aveva già anticipato. Le chiese se poteva trattenersi a parlare ancora un poco con lei e non ricevette alcuna obiezione anzi, per farle compagnia, lo invitò a rimanere, se voleva, fino alle 24, ora di chiusura dell’albergo. Accettò di buon grado e quindi cominciarono a parlare delle loro rispettive famiglie, a scambiarsi opinioni e pareri su svariati argomenti. Arrivò mezzanotte e quasi non se n’accorsero. Si salutarono ripromettendosi di continuare i loro colloqui nei giorni successivi. Puntualmente, ogni sera dalle 23 in poi, ma anche in altri momenti in cui entrambi erano più liberi, Giusi e Lucio si ritrovavano soli a parlare e non si stancavano mai di farlo.
(fine della prima puntata)

domenica 4 ottobre 2009

LUCCIOLE PER LANTERNE

UN RICORDO DEL MESE DI AGOSTO
Questa mattina ho fatto tardi. Volevo uscire da casa prima e non ci sono riuscito; sono le 9.30 e purtroppo il caldo si fa già sentire.
Arrivare a piedi al supermercato non è proprio consigliabile. Accaldato e sudato entrare lì dove c’è una temperatura siberiana rispetto quella esterna significa rischiare conseguenze spiacevoli per la salute. D’altra parte non posso uscire da casa con un cappotto, sia pure tenendolo in mano per poi infilarmelo quando entro. Penso che farei ridere polli, galline e tacchini - se sono ancora vivi - ma non credo. Arriveranno belli spennati e pronti per essere fatti a fettine. Fortuna che io non ne mangio e non ne ho mai mangiato.
Sto divagando, ma intanto rifletto.
Eccola la soluzione: a pochi metri da casa c’è la fermata di un bus che dopo appena due stop ne fa una proprio lì vicino. Ottima idea. Difatti m’incammino e noto che sono in attesa tre cinesi, due pakistani, un senegalese e una signora parecchio anziana, quasi della mia età, che si guarda intorno, ogni secondo sbuffa e scuote continuamente il capo. Chissà perché. Io sono europeo, se la signora scuoticapa è americana siamo a posto, significa che qui sono degnamente rappresentati i cinque continenti. Il mondo intero ad aspettare.
Il bus tarda ad arrivare: certo con la stagione estiva le corse dei mezzi pubblici sono state dimezzate ma a me sembra che si stia esagerando. Un quarto d’ora, mezz’ora…per la miseria se mi ci recavo a piedi ero già andato e tornato da un pezzo.
In lontananza vedo avvicinarsi un grosso automezzo, appena però riesco a vederlo bene noto che si tratta sì di un bus ma di quelli turistici.
Cinque minuti dopo, finalmente, ecco che arriva lèmme lèmme il nostro.
Quasi tutti i bus pubblici di qui hanno tre porte: la prima e l’ultima per salire quella centrale per scendere. Quando il nostro di bus si ferma io vado all’ultima porta e salgo, mentre la signora con lo scuotimento di testa sale a quella di centro seguita come una chioccia dagli altri sopracitàti. Perchè hanno preferito quella centrale con tanto di adesivi che ne vietano l’uso per salire non è dato sapere.
Appena salito m’incammino verso l’uscita quando intravedo di spalle, seduto in prima fila, il profilo inconfondibile di un mio caro amico, quasi coetaneo. Piuttosto in carne, capelli corti e radi, occhiali. Ultimamente, a differenza di qualche tempo prima, ci siamo incontrati molto di rado eppure non abitiamo molto lontani l’uno dall’altro. Poiché arrivo da dietro gli riverso un leggero colpo sulla spalla e lo saluto…
=Ciao Nico’…
Lo guardo e…toh! si è fatto crescere i baffi, bianchi come i quattro capelli che gli sono rimasti.
Lui, serissimo, la fronte corrucciata, mi fissa con uno sguardo piuttosto duro e mi fa…
=Chi è lei?
Io balbettando gli chiedo…
= Nico’ mo ti sei fatto crescere i baffi?
Lui con un fare molto altezzoso…
=Questi baffi ce li ho da cinquanta anni, non mi chiamo Nicola e non la conosco. =
Sono completamente esterrefatto, continuo a balbettare e cerco di chiedergli scusa facendogli capire che l’ho preso per un altro proprio identico a lui.
Non risponde neppure. Si alza, si avvicina alla porta centrale del bus per scendere dove io già mi trovo in quanto devo scendere anch’io. Mi passa davanti, scende tutto impettito senza degnarmi né di una parola né di uno sguardo e si avvia verso il supermercato.
Io prudentemente mi fermo, giro alla larga per una buona mezz’ora poi, appena lo vedo uscire con una busta in mano, aspetto che si allontani ed entro a mia volta nel supermercato.
Penso e ripenso all’accaduto ma non trovo una spiegazione logica.
Strano però, un preciso duplicato del mio amico.
Evidentemente questa volta ho visto LUCCIOLE PER…no, per lanterne è troppo poco, diciamo pure PER LAMPIONI. Può capitare quando si entra nella quarta età.