domenica 29 marzo 2009

seconda ed ultima parte de:IL DUBBIO - UNA STORIA VERA ANNI '50

Bruno non voleva insistere perché pensava che Alberto avesse le sue buone ragioni. Continuò da solo nel suo amichevole ed ottimo rapporto con Luisa. Si rividero tre o quattro volte per brevi passeggiate durante le quali anche lei cercava di sapere qualcosa circa lo strano comportamento di Alberto ma lui non sapeva spiegarle il perché.
Un giorno, erano tutti a pranzo nella mensa quando dall’altoparlante si sentì che veniva fatto il nome di Alberto perché era stato chiamato al telefono. Strano…Durante tutto il periodo trascorso in quel luogo non si era mai visto né sentito qualcuno che lo avesse cercato. Lui si alzò dal tavolo che entrambi dividevano anche con altri, andò verso la stanza dove c’era il telefono, fuori dalla mensa, fece ritorno dopo una ventina di minuti e si sedette senza dire una parola. Poiché lui non disse nulla e riprese in silenzio a mangiare, nessuno, discretamente, gli fece domande circa quella telefonata.
Nel primo pomeriggio di quello stesso giorno Alberto, vestito di tutto punto, si diresse verso la porta ed uscì. Da solo e senza dire una parola né alla caposala, né agli altri amici e neppure a Bruno. Non era mai accaduto. Come mai? Bruno si pose questa domanda parecchie volte e come risposta si diceva che Alberto non doveva spiegazioni a nessuno anche perché poteva trattarsi di una seria questione familiare che preferiva tenere per sé. Queste sortite di Alberto si ripeterono per oltre un mese al ritmo di due o tre volte per ogni settimana. Poi improvvisamente cessarono del tutto. Nello stesso periodo Bruno aveva smesso di incontrare Luisa perché ogni volta che le telefonava gli diceva che aveva degli impegni e quindi non potevano vedersi. Allora cominciò a collegare questi episodi ed il dubbio iniziò a divenire quasi certezza. Però si chiedeva: se Luisa ed Alberto per quel periodo si erano visti, incontrati ed erano stati insieme perché non dirglielo? Avrebbe compreso benissimo e ne sarebbe stato contentissimo soprattutto per Alberto ma anche per Luisa. Secondo lui formavano una bella coppia. Per qualche giorno non domandò nulla al “pacioccone”, poi una mattina decise di telefonare a Luisa. Voleva sentire da lei che cos’era accaduto. Lei non solo si dimostrò felicissima della telefonata ma gli chiese se potevano vedersi il pomeriggio dell’indomani. Avevano fissato l’appuntamento, di comune accordo, a Largo Brancaccio davanti l’ingresso di un teatro. La stagione già permetteva spettacoli all’aperto perciò, dopo aver preso posto ed in attesa che lo spettacolo di varietà iniziasse conversarono per oltre mezz’ora. Luisa lo mise al corrente di tutto; gli confermò che aveva visto giusto e che lei e Alberto avevano avuto una sorta di flirt che poi però avevano deciso, reciprocamente, di interrompere amichevolmente e serenamente. Bruno non volle sapere alcun dettaglio e lei gliene fu grata. Si gustarono lo spettacolo e al termine gli chiese di accompagnarla a casa anche se per farlo dovevano fare una discreta passeggiata. Avviandosi verso casa sua costeggiarono il Colle Oppio, scesero tramite un’ampia scalinata verso l’incrocio di Via Merulana con Via Labicana . Arrivando nei pressi di una breve strada privata Luisa prese Bruno per mano, fecero qualche passo e giunti a metà della strada privata gli fece capire che voleva fermarsi. Si appoggiò al muro di un edificio, lo fece avvicinare a lei, prese il viso di Bruno fra le sue mani e, guardandolo negli occhi, lo baciò leggermente e castamente sulle labbra. Lui rimase perplesso e lei accorgendosi che la guardava con un’aria interrogativa e sbalordita nello stesso tempo, tornò nuovamente a baciarlo ma questa volta con molta più intensità: lui non fu da meno. Benché protetti dalla solitudine della via e dall’imbrunire che li rendeva quasi invisibili non andarono oltre. Teneramente abbracciati ripresero il cammino verso casa di lei senza parlare stringendosi soltanto l’uno verso l’altra. Bruno si sentiva felice ma allora perché il dubbio faceva ancora capolino nella sua mente? I loro incontri si ripeterono per più giorni poi però, quando Bruno iniziò a rendersi conto che le cose stavano prendendo una certa piega, disse a Luisa che da qualche anno era impegnato con un’altra ragazza la quale, malgrado tutto, non aveva mai voluto interrompere il loro rapporto. Era un passo che sentiva di dover fare. Si sarebbe aspettato una reazione sdegnosa e sprezzante di Luisa ed invece lei si mostrò molto comprensiva. Disse che si era calata nei panni dell’altra persona alla quale lui aveva fatto un torto sia pure ingenuamente. Volle comunque ringraziarlo per essere stato onesto e sincero con lei e per essersi comportato sempre più che correttamente. Rimasero amici e per un po’ di tempo seguitarono a telefonarsi. Poi, col tempo, più nulla. Bruno, dopo aver chiarito la situazione con Luisa, volle raccontare tutto ad Alberto il quale si complimentò per l’intera vicenda ma non disse nulla su di lui e su Luisa. Perché?. Anche quella volta il dubbio si rifece vivo!
Bruno passò varie volte nei pressi dell’abitazione di Luisa e, magari involontariamente, il suo sguardo andava sempre verso il portone di lei. Una di quelle volte, erano trascorsi oltre dieci anni da allora, gli capitò di vederla uscire dal portone di casa sua, sorridente, sottobraccio ad un uomo di bell’aspetto e con due bambini che davano la loro manina ad entrambi. I ricordi gli riaffiorarono nella mente insieme però al dubbio! . Dubbio che comunque non si era mai dissolto.

giovedì 26 marzo 2009

IL DUBBIO - UNA STORIA VERA ANNI '50 - (prima parte)

La loro convalescenza sarebbe finalmente terminata al massimo entro un paio di mesi. Giovani com’erano Bruno e un gruppo di coetanei con i quali aveva stretto una vera amicizia, non vedevano l’ora di lasciare quel posto. Ultimamente gli era stata concessa ogni più ampia libertà ma alle 22 di ogni sera dovevano rientrare, gli sembrava quasi di vivere in una caserma, ma non lo era. No perché chi li controllava erano due suore, le cosiddette “cappellone” per via di quella specie di cappello di un bianco abbagliante, enorme, inamidato e con due grandi falde che sembravano ali di cigno. La loro testa era completamente coperta tanto che non era possibile sapere se avevano o no i capelli. La più anzianotta delle due, la caposala, aveva un volto marcatamente maschile, forse si radeva anche la peluria che s’intravedeva sopra il labbro superiore. I suoi lineamenti erano talmente duri da sembrare scolpiti con martello e scalpello. E’ vero invece che a volte l’apparenza inganna. Caratterialmente era di una dolcezza e di una tale tenerezza che, agli occhi di Bruno ed amici, lei appariva più gradevole anche perché si mostrava molto comprensiva nei confronti della loro condizione passata ed attuale. Al contrario, la suora più giovane che non doveva avere più di 22 o 23 anni, era piccola, rotonda, con un viso così fresco e colorito che sembrava una pesca matura. Era lei quella alla quale erano rivolti gli sguardi più famelici da parte di tutti ma la stessa si sapeva ben destreggiare anche quando inavvertitamente le giungevano i loro salàci commenti. A quel punto il suo pudico viso diventava ancora più rosso, ma le sue poche rotondità che si intravedevano erano miele per gli occhi, i pensieri e i sogni di tutti. Dopo la cena, verso le 20, entrambe le suore si ritiravano nel loro alloggio che si trovava nell’altra metà dello stesso edificio che attualmente li ospitava: un’enorme fabbricato di tre o quattro piani con alte guglie gotiche ornamentali che si dipartivano dal tetto. Il fatto singolare era che l’edificio, suddiviso a metà soltanto da una sottile parete di legno, confinava appunto con l’alloggio delle due suore destinate alla cura e sorveglianza nostra. Lo stesso ospitava anche altre loro consorelle oltre ad un bel gruppo di giovani ragazze-madri. La lunga permanenza in quel luogo aveva permesso a questi giovani di conoscere bene quei particolari che però non consentirono loro di andare mai oltre le proprie aspirazioni.
Il gruppetto di amici di cui faceva parte Bruno era composto da quattro o cinque persone, tutte o quasi della stessa età, ma lui era legato da vincoli più stretti soltanto con due di loro: Luigino “il nasone” e Alberto “il pacioccone”. A distanza di tanti anni li ricordava ancora, per molte ragioni.. Luigino si sposò alcuni anni dopo, ebbe due figli, poi morì investito da un’auto: aveva appena 48 anni. Alberto, il più istruito, era diventato un funzionario del Ministero del Lavoro, si era sposato e aveva messo su famiglia anche lui. Si incontrarono un paio di volte poi si persero di vista e non seppero più niente l’uno dell’altro. Col “nasone” la vita era tutta uno spasso. Allegro, estroverso, generoso e premuroso sebbene, orfano di madre, aveva vissuto l’intera sua infanzia e parte dell’adolescenza in un orfanotrofio. Il “pacioccone” invece aveva tutto un altro carattere: buono sì ma introverso, triste. Bruno il “compagnone” doveva fare dei grossi sforzi per farlo sorridere,ma lui, grande appassionato di musica classica e lirica stava quasi tutto il giorno a seguire i programmi di quel genere che ascoltava da una sua radiolina. La mattinata si passava giocando a carte fino all’ora di pranzo. Questo era servito in un gran salone adibito a mensa,vicino l’androne d’ingresso mentre il pomeriggio e parte della sera erano riservati a lunghe passeggiate e ad altri svaghi. Ma Alberto “il pacioccone” non vi partecipò mai. Rimaneva in “camerata” tutti i giorni seduto vicino al suo letto. Non da solo, però. Infatti Suor Severina, la caposala “cappellona”, gli faceva compagnia come…una madre (o un padre?): erano legatissimi mentre gli altri erano più legati a Suor Adele “la pesca”.
A volte tutti trascorrevano qualche ora a parlare dei loro problemi sia di famiglia che personali e cercavano di immaginarsi il loro futuro. L’unico che non partecipava e che si rintanava vicino il suo letto ad ascoltare musica era “il pacioccone”, senza alcuna scortesia da parte sua e pertanto lo si lasciava in pace. Un giorno Bruno e Alberto lessero su un quotidiano, che era stato indetto da un ente pubblico un concorso per l’assunzione di alcuni giovani. Occorreva fare un’apposita domanda e farsi autenticare la firma da un pubblico ufficiale. Bruno e il “pacioccone” avevano i requisiti richiesti perciò decisero di tentare la sorte. Compilarono la domanda e, per l’autentica delle firme, si recarono in una vicina Delegazione Comunale . Arrivati sul posto si trovarono a dover fare una piccola fila dinanzi ad uno sportello dove erano in attesa, per lo stesso motivo, altri giovani come loro tra i quali una ragazza dalla corporatura minuta ma ben fatta nei punti opportuni, capelli biondo-cenere, occhi celeste-chiaro, molto graziosa e socievole. Entrambi rimasero colpiti dalla sua affabilità e dalla sua piacevolissima cordialità tanto che si intrattennero subito con lei come se fossero amici da chissà quanto tempo. Disse di chiamarsi Luisa e Bruno ed Alberto le dissero i propri nomi. Appena usciti dalla Delegazione si recarono insieme al vicino ufficio postale dove spedirono le raccomandate con le domande di partecipazione a quel concorso. Durante il cammino conversarono amichevolmente con Luisa la quale ad un certo punto si mise sottobraccio ad entrambi e chiese loro se fossero dispiaciuti ad accompagnarla a casa. Aderirono di buon grado e, dopo una breve chiacchierata, si scambiarono i rispettivi recapiti telefonici. Quando le spiegarono il perché, pur non essendo parenti, avevano in comune lo stesso numero di telefono lei disse con molta franchezza che non c’era alcun motivo di cui preoccuparsi in quanto anche lei, qualche anno prima, aveva sofferto della loro stessa malattia dalla quale in seguito era guarita completamente. Luisa abitava in una piccola via all’incrocio con Via Appia e, quando arrivarono davanti il suo portone di casa, si salutarono con molto calore e si scambiarono la reciproca promessa di volersi rivedere ancora. Ogni volta però che a Bruno veniva l’idea di incontrare di nuovo Luisa, Alberto diceva che lui preferiva non muoversi da lì e lo invitava ad andarci da solo. Bruno insisteva ma era inutile: gentile come sempre diceva che non se la sentiva di andare. L’aveva visto così ben disposto verso di lei, contento di aver fatto questa conoscenza come Bruno lo era altrettanto visto l’immediato affiatamento che s’era creato tra loro tre. Il dubbio assaliva Bruno: perché Alberto non voleva mai uscire da quel luogo? Che cosa lo tratteneva lì? Eppure era uscito per andare in Delegazione e alla posta; era stato brillantissimo in occasione dell’incontro con Luisa, aveva persino promesso che si sarebbero rivisti loro tre insieme, e allora?
(fine prima parte)

domenica 22 marzo 2009

CASO A COSE

Prima di parlare di “cose” cui sto facendo “caso” da un po’ di tempo, mi torna in mente una breve e ingenua barzelletta che l’indimenticabile Aldo Fabrizi amava raccontare. Prima in teatro, quando faceva avanspettacolo, poi al cinema e quindi in TV. A me sembra di ricordarla così: “Ahò…ciavete fatto caso che quanno annate al cesso pe’ lavavve le mano, pjate ‘na saponetta, ve insaponate ma ve casca guasi sempre ner lavannino?…Quanno la riccojete ce trovate sempre un capello appiccicato…però si ve casca un capello cor cavolo che ce trovate appiccicata ‘na saponetta.”
Io ad esempio, quando tutte le mattine o quasi, prima passeggio per circa un’ora, poi vado al mercato, o viceversa a seconda della temperatura, nel rientrare a casa mi accorgo che cammino con la stessa andatura e faccio le stesse mosse di un mio caro amico, più anziano di me di circa dieci anni, reduce dalla II^guerra mondiale, che non ha alcun impedimento fisico nella deambulazione.
Per di più non facciamo lo stesso percorso né si conciliano i nostri orari, lui esce da casa all’alba io invece un po’ più tardi e, pur abitando a poca distanza l’uno dall’altro, c’incontriamo raramente, almeno in strada. Ci vediamo soltanto una o due volte la settimana per parlare del più e del meno.
Come si spiega allora il fatto che mi muovo come lui?
Da dove nasce questa sorta di emulazione?
Ho cercato di darmi una spiegazione e sono arrivato ad una semplice conclusione: è l’età, cari noi due, quasi 90 anni tu e quasi 80 io.
. E’ perfettamente naturale che noi si viaggi a scartamento ridotto e un po’ penzolanti.
Altre cose a cui faccio caso (ricomincio?) sono gli abbigliamenti delle persone che incrocio per le strade del rione e non solo.
Per esempio quelli di noi “maschietti-vecchiacci” (mi c’includo anch’io) che alla nostra veneranda età andiamo in giro con: scarpe da basket, blue-jeans da cowboy, camiciola ampia (atta a nascondere la pancia abbondante…come la mia tanto per non fare nomi, ma abbastanza aperta per mettere in mostra un qualsiasi ciondolo d’oro), cappello da baseball.
Così d’estate…Quando fa più fresco cambia poco, salvo l’aggiunta di un giubbotto dal colore indecifrabile imbottito da non so cosa che ti fa sembrare l’uomo michelin.
Ricordo che, a qualunque età, direi a cominciare dalla nascita, non si usciva da casa se non con tanto di giacca, cravatta, pantaloni, scarpe normali, tutto o quasi della stessa tonalità e poi con i capelli luminescènti e impomatati (brillantina oppure olio di cucina).
Non ho nessuna nostalgia però di quei tempi. Meglio casual.
Incontro spesso un tale, molto più anziano di me, che in una qualsiasi delle quattro stagioni (credo siano rimaste lo stesso numero soltanto quelle musicate da Antonio Vivaldi) indossa questo completo: scarpe lucidissime, pantaloni, camicia, cravatta, giacca con tanto di fazzoletto nel taschino, il tutto dai colori intonatissimi, senza mai il cappello (e sì che non ha capelli).
Ovviamente non trascuro di esaminare anche fanciulle, ragazze, signore giovani e meno giovani, ci mancherebbe altro.
Di loro faccio caso ad ogni cosa (ma non è ora di smetterla?) specialmente quando, indossando blue-jeans o micro-gonne a vita molto bassa (direi nana) espongono all’aria aperta anche indumenti particolarmente sfiziosi oltre alle loro parti inferiori del corpo comprese tra il torace e il bacino.
Ognuno è libero di abbigliarsi come meglio crede.
Soltanto un suggerimento a chi fa parte dell’altra metà del cielo: per le più giovani se debordano maniglie dell’amore e quant’altro è meglio che non seguano la moda; per le attempate non credo proprio che sia il caso.
Avvertenza per le naviganti: FATE QUELLO CHE VI VA DI FARE.
Sono un matusa rompiscatole e dovrei farmi i casi miei.

mercoledì 18 marzo 2009

LA COPPIA

Erano veramente una bella coppia…se non altro…la meglio assortita! Lei, più alta, magra come un chiodo, capelli bianchi, occhi cerulei, viso segaligno, età intorno agli 85, lui invece molto più basso, piuttosto grassottello, capelli assenti, occhi chiari, viso rubizzo, età vicino ai 90. Lei, bergamasca con un accento talmente tosto che facevi fatica a comprenderla se parlava svelta, con la protesi dentaria che le ballava frequentemente (ma se ne infischiava) e per di più sorda al 99,99% tanto che se volevi dialogare con lei correvi il rischio di perdere la voce dovendo urlare per essere ascoltato. Lui, ciociaro invece facevi fatica a sentirlo talmente basso era il tono che usava quando ci si chiacchierava insieme.(Ma fra di loro come facevano a capirsi?…probabilmente a gesti o scrivendosi bigliettini). Lei una specie di carabiniere in pensione, arcigna, austera, severa e con lo sguardo continuamente rivolto in giro verso le altre persone: forse, poiché non sentiva cosa dicevano gli altri, penso leggesse le loro labbra per capire qualcosa e per, eventualmente, partecipare alla conversazione, con quale risultato non è dato sapere. Lui, un bonaccione sempre col sorriso sulle labbra, ben disposto verso tutti e attaccato a lei come un bimbo al braccio della mamma. Lei, Guendalina, vestita sempre con un lungo vestito scuro ed un colletto bianco, tipo istitutrice di collegio femminile…lui, Bernardino, sia d’inverno che d’estate, agghindato con un completo chiaro, pesante o leggero secondo la stagione, camicia, cravatta e cappello borsalino in testa di colore in sintonia con l’abito che indossava di volta in volta. Chi era più assortito di loro?. E’ proprio vero…gli opposti si attraggono!.
Entrambi abitavano vicino al centro anziani comunale che frequentavamo e dove ci eravamo conosciuti. I primi tempi erano trascorsi nella reciproca indifferenza ma poi, col passare dei giorni, diventammo amici anche se tra me e loro c’erano molti anni di differenza. M’ispiravano simpatia, non so spiegarne i motivi ma credo che anche loro nutrissero per me lo stesso sentimento. Ne ebbi una prova concreta cinque o sei mesi dopo.
Ogni pomeriggio alle 16 in punto, pioggia o sole, freddo o caldo, loro si presentavano al centro anziani e si sedevano occupando sempre lo stesso posto… gli altri frequentatori avevano preso l’abitudine di lasciare libere le loro due poltroncine. Non prendevano mai l’iniziativa di fare quattro chiacchiere con chicchessia…aspettavano sempre che fossero gli altri ad interpellarli. Guendalina trascorreva il tempo sferruzzando in continuazione cose di lana: sciarpe, calze e così via mentre Bernardino si faceva sempre qualche partitella a carte: briscola, scopa o scopone. Anche se nessuno gli chiedeva se voleva giocare lui si autoinvitava. Era un disastro per i compagni nel gioco, un vero dono per gli avversari. Ma sembrava che ci provasse gusto a commettere errori perché quando gli altri, incavolati, lo rimproveravano o addirittura lo insultavano lui, calmo, sereno e pacioso se la rideva seraficamente come se le “male” parole gli scivolassero addosso.
Comunque sia Guendalina che Bernardino trascorrevano tutti i giorni tre ore precise lì nel centro anziani infischiandosene di tutto e di tutti: alle 19 in punto di tutte le sere sussurravano “buona serata” e se ne tornavano a casa…passetto, passetto…braccetto, braccetto.
Un giorno Guendalina mi fece cenno che voleva parlarmi. Io che ero seduto poco distante intento con altri tre amici a farmi una partita a tressette, le feci cenno di aspettare un attimo, poi dopo poco mi alzai, stavo per cedere il mio posto a Bernardino ma per miracolo evitai di venire preso a male parole dagli altri tre e quindi, anziché col morto, continuarono la partita con un altro seduto lì vicino al momento nullafacente. Per me fu un sollievo perché non sono mai stato un appassionato del gioco delle carte e pertanto fui ben contento di andare a sedermi accanto a Guendalina curioso di sapere che cosa doveva dirmi. A stento riuscii a capire che tra lei e Bernardino c’era qualcosa che non stava andando troppo bene. Le dissi che ero dispiaciuto per questo ma la pregai di non coinvolgermi in faccende personali e private confessandole che non ero tagliato per dare aiuto e conforto in situazioni del genere. Lei testardamente insistette e mi mise al corrente di tutto. Mi disse che non erano sposati, che convivevano soltanto da parecchi anni…platonicamente…perché, mi disse testualmente, lui era “troppo vecchio per lei!”…Io lì per lì rimasi un po’ sconcertato…tentai di farfugliare qualcosa ma Guendalina, imperterrita, proseguì dicendomi che dopo tanto tempo s’erano fatti vivi i figli di Bernardino che lo stavano incalzando per costringerlo a ritornare con loro nel loro paese. Le conseguenze per Guendalina sarebbero state disastrose perché doveva lasciare la casa dove attualmente abitava in quanto la proprietà era di Bernardino ma ancora per poco dato che i figli l’avevano messa in vendita. Lei quindi dove sarebbe andata a finire?. Le era rimasta una sola sorella, più grande di lei, che viveva su nel nord anch’essa sola e per di più gravemente malata. Non sapevo proprio cosa dirle…l’unico consiglio che gli diedi fu quello di provare a rivolgersi ad alcuni uffici comunali competenti e la indirizzai da un funzionario che conoscevo con il quale avevo stretto un’ottima amicizia qualche tempo prima.
Per un po’ di giorni Guendalina e Bernardino non si fecero più vedere…Poi, ricordo era di sabato, alle 16 in punto venne solo lei che si rivolse subito a me…chissà, forse ero diventato il suo unico punto d’appoggio…Mi disse che Bernardino era tornato al suo paese con uno dei figli; che le avevano concesso di stare in quella casa ancora due o tre giorni ma che poi l’avrebbe dovuta lasciare; che era riuscita, grazie a quel funzionario al quale l’avevo indirizzata, ad ottenere una sistemazione in una casa di riposo comunale. I suoi ringraziamenti e i suoi saluti mi commossero profondamente ma mi assicurò che si sarebbe fatta rivedere tra non molto.
Così avvenne dopo una ventina di giorni…Entrò in quello che era stato anche il suo centro, da una busta di plastica tirò fuori un maglioncino di lana piuttosto pesante, senza maniche, collo a V, di colore blu…esattamente della mia misura e che, dopo circa 25 anni, tuttora conservo ed indosso, d’inverno è ovvio. La ringraziai e con le lacrime agli occhi, davanti a tanti altri, ci abbracciammo affettuosamente…Non ci dicemmo nulla ma entrambi sapevamo che non ci saremmo più rivisti.
E così è stato.

sabato 14 marzo 2009

IL MOMENTO DEL FRESCONE

…l’ho passato nel 1950 e probabilmente anche altre volte. Bei tempi quelli.
Nei primi giorni di settembre di quell’anno, io ne avevo venti di anni, partii da Roma per il servizio militare: destinazione Casale Monferrato (Alessandria).
Circa due mesi di Centro Addestramento Reclute e poi trasferimento al reggimento di fanteria di stanza ad Asti dove ebbi la fortuna di essere assegnato (o imboscato) in fureria come “graduato di contabilità” (in parole povere scribacchino).
Del periodo della “naia”, dodici mesi, trascorso tra alti e bassi (più frequenti questi ultimi) ricordo un discreto numero di episodi più o meno piacevoli.
Ad esempio trovavo molto gradevole passare alcune serate in compagnia degli amici presso un locale vicino la caserma ed assaporare bagna cauda e barbera che ci venivano servite da due belle ragazze figlie del proprietario.
Probabilmente era quella la ragione principale per cui andavamo lì quasi tutte le sere.
Ma adesso, per onorare il titolo di questo breve scritto, mi riporto alla memoria un episodio un po’ particolare.
Nel mese di giugno (o luglio?) del 1951 la nostra Compagnia insieme ad altre, venne autotrasportata vicino a Dronero, circa 20-25 Km. da Cuneo, nei pressi dei Monti S.Bernardo, Rocceré e Pelvo d’Elva dove, in un tratto di mezza montagna, all’aperto, ci accampammo per prendere parte ad una serie di manovre estive di addestramento (io escluso in quanto “imboscato” in “ufficio”).
Il primo giorno in cui arrivammo ricevemmo l’ordine di montare le tende, costruirci una sorta di letto per trascorrervi la notte, che consisteva in una serie di rami d’albero ricoperti da uno strato di foglie tenuto alto dalla “nuda terra” per circa una decina di centimetri.
Eravamo stati suddivisi quattro militari per ogni tenda ed a noi sembrò di aver messo su un buon riparo e di aver costruito dei discreti giacigli.
Fummo subito smentiti perché la sera si scatenò un nubifragio così violento che, oltre a farci trascorrere la notte in bianco quasi ci sommerse per la quantità di pioggia caduta.
Il classico temporalone d’estate (ma non poteva aspettare altri due mesi?).
Quando la sera, in libera uscita scendevamo a Dronero, ci si poteva permettere qualche svago in più come ad esempio frequentare un chiosco-bar all’aperto con annessa pista da ballo.
Con un gruppo di compagni eravamo riusciti a fare amicizia con alcune ragazze (lì per fortuna, al contrario di Casale e Asti dove ci “schifavano”, non facevano differenza tra chi era in borghese e chi in divisa da militare).
Una sera, tra queste ragazze nostre coetanee riuscii ad allacciare, abbastanza rapidamente, un rapporto più amichevole del sòlito con una piccolina (di statura, non d’età), capelli ed occhi chiari ed un personalino niente male.
Mentre si stava avvicinando la fine della serata mi chiese se potevo accompagnarla a casa.
Io non me lo lasciai dire due volte e, dopo un breve tragitto, con lei che indicava la strada, ci trovammo al buio in aperta campagna.
Mi assicurò che il muretto dove ci stavamo sedendo rappresentava il confine della proprietà della sua famiglia.
Si parlò tra di noi per un po’ e ad un certo punto io cominciai con la tattica del romantico, della luna, delle stelle e così via ma lei, dopo un breve istante mi fermò e mi fece, chiara e tonda, questa semplice domanda: “Ma che stai aspettando?”.
Lì per lì non compresi.
Poi rimasi di stucco, capii che ero stato un allocco.
In quel momento avrei preferito sprofondare sotto terra.
Le chiesi scusa, la salutai e me ne tornai mogio mogio all’accampamento.
Avevo fatto la figura del “pirla” più grossa della mia vita!.
Agli amici che mi stavano aspettando per sapere com’erano andate le cose raccontai una bella balla da bullo.

martedì 10 marzo 2009

INVESTIGAZIONI

L’INDIZIO
Nei tanti thriller che ho letto e in altrettanti film dello stesse genere che ho visto ho sempre sentito dire dal detective di turno che indaga su di un qualsiasi reato questa “storica” frase: “Quando si verificano tre coincidenze esse costituiscono un indizio.”
Vado per ordine.
1^ coincidenza: Ho circa 18 anni, in pratica sessant’anni or sono, e lavoro come uscière-fattorino presso un importante ufficio, non statale, al terzo piano di un antico palazzo nel centro storico di Roma – inizio di Corso Vittorio Emanuele, dopo Piazza del Gesù ed è mattino, intorno alle 10.
Suonano alla porta, apro, è il portalettere il quale appena mi vede, meravigliato, mi fa
=e tu che ci fai qui?=
=come che ci faccio… lavoro=
=ma che lavori in due uffici?=
=ma che stai dicendo?=
=ma non lavori in Via Tomacelli?=
=io non ci lavoro né ci ho mai lavorato=
=sembra impossibile…lì c’è un ragazzo come te che è la tua copia sputata=
=be’…un giorno ci andrò perché voglio proprio vedere se mi somiglia come dici tu=..
Se non ricordo male qualche mese dopo ci sono andato ma…nessuna traccia del mio “doppione”.
Questa prima coincidenza mi è tornata in mente quando, dopo 60 anni, si è verificata la
2^ coincidenza: Ieri mi arriva un’e-mail da mia nipote ventenne nella quale scrive, cito testualmente: “Nonno oggi in metro ho visto un tuo sosia. Uguale. Te lo giuro, non fosse stato per la pipa che aveva in bocca e il naso più ricurvo e appuntito, questo tizio era identico a te. Anche l’espressione, tutto! Sono rimasta a fissarlo per tutto il viaggio, più lo guardavo e più mi convincevo della somiglianza tanto che, ad un certo punto ho cominciato a pensare che fossi proprio tu! E infatti mi sa che il sosia si è accorto dei miei sguardi e alla fine mi sembrava un po’ seccato…mah! Non è che per caso hai una doppia vita segreta e misteriosa?”.
Be’…d’accordo, sono vecchio, ma non credo poi così tanto da potermi permettere una mia eventuale partecipazione ai moti carbonari (robetta del 1830-1831) o a qualsiasi altra setta segreta.
A prescindere poi dal fatto che da dieci anni non fumo né pipa, né sigaro e neppure sigarette.
Mi contento di respirare un bel po’ di smog.
Questa seconda coincidenza mi ha allarmato ma mai quanto la
3^ coincidenza: Letto il messaggio di mia nipote il giorno stesso ho un colloquio con un mio vecchio amico con il quale mi vedo spesso.
Lui mi dice: “Questa mattina quando sono andato in un ufficio per consegnare dei documenti che mi erano stati richiesti, mentre ero seduto in una stanza davanti a un impiegato questi riceve una telefonata e, parlando con il suo interlocutore, aggiunge queste parole
=…no, no…stai tranquillo il signor (dice il cognome) è già stato avvertito…verrà domattina=.
Al termine di quella telefonata il mio amico con molto garbo gli chiede: =scusi…involontariamente ho ascoltato quello che diceva al telefono, ma forse stava parlando del signor (e gli dice il mio nome e cognome) che abita vicino a me e lo conosco molto bene?=.
L’impiegato gli fa: =nome e cognome sono quelli, guarda un po’ che combinazione ma questo signore abita al quartiere TRIONFALE!”=
La terza coincidenza mi ha sconvolto specialmente per il nome di quel quartiere di Roma che per me ha un valore del tutto particolare e mi ricorda molte cose.
In conclusione: chi è che mi ha clonato e che va in giro con il mio identikit?
Mi corre l’obbligo di dover investigare al più presto servendomi delle tre sopraindicate coincidenze che costituiscono il primo INDIZIO.

venerdì 6 marzo 2009

DIMENTICANZE: la 1^) nell'"Estate del '43" e la seconda dopo la "Primavera del '44"

1^) - PENNICHELLA COL BOTTO
In dialetto romanesco pennichella è sinonimo di sonnellino specialmente pomeridiano. Un riposino in pratica, appunto quel che nostra madre ci ordinava di fare quasi tutti i giorni almeno fino alle soglie della pubertà. In realtà la “pennichella”serviva soprattutto a lei per tirare un po’ il fiato considerando la gran fatica che doveva affrontare quotidianamente per dedicarsi alle faccende di casa e occuparsi della nostra famiglia di sei persone: genitori e quattro figli maschi. Io, per la verità, non ho mai gradito quest’obbligo, non ricordo se era così anche per i miei tre fratelli. Sta di fatto che andavo sì a letto, ma stavo tutto il tempo con gli occhi spalancati. Per fortuna, specialmente d’estate, finestra e sportelli della camera da letto erano leggermente socchiusi permettendo così alla luce del giorno e ai raggi del sole di proiettare sul tetto una specie di sequenza cinematografica in movimento grazie al passaggio delle persone in strada. Avevo il mio schermo personale in casa e m’immaginavo film d’ogni genere. Stravaccato nel “lettone” di mamma e papà facevo trascorrere il tempo fantasticando storie su storie.
Un pomeriggio d’estate del ’43, il periodo in cui sulla città di Roma cadevano “bombe intelligenti” (anche allora!), ricordo quelle sul quartiere San Lorenzo, accadde un fatto straordinario. Ero, come il solito, sdraiato nel lettone per la “pennichella” quando improvvisamente un botto tremendo spalancò con violenza finestra e sportelli della camera da letto illuminandola smisuratamente.Sembrava una scena apocalittica. Io rimasi quasi paralizzato, nostra madre andava velocemente di qua e di là credo per sincerarsi se stavamo tutti bene e nello stesso tempo per farci correre al “rifugio antiaereo” (ovverosia nella solita cantina del fabbricato dove abitavamo la quale era talmente “sicura” che se avessero bombardato con palline da ping-pong noi saremmo rimasti seppelliti sotto le macerie come sorcetti). Per fortuna il “botto” fu unico e raro…almeno nel nostro rione. In serata venimmo a sapere che cosa era realmente accaduto…Fino ad un certo punto!
A confine con il parco del Colle Oppio, vicino casa nostra, più precisamente in via Mecenate, c’era allora e c’è ancora oggi, una clinica privata, forse convenzionata, sulla quale quel famoso giorno dell’estate del ’43 cadde…non si sa bene se una bomba o addirittura un piccolo aereo da ricognizione. Ancora oggi non credo ci sia qualcuno di noi, all’epoca abitanti in quella zona, che sappia con certezza la realtà dell’accadimento. Di sicuro la clinica subì danni ingenti.
In casa nostra, da quel giorno e fino al termine della guerra, nell’ordine del giorno fu prudentemente cancellata la consueta pennichella…con o senza botto.
2^) - FINALMENTE
Il 1945 fu un bellissimo anno.
Infatti il 25 aprile con la liberazione di Milano e Torino finì la guerra in Italia iniziata il 10 giugno1940. Il 7 maggio con la resa della Germania ed il 15 agosto dello stesso anno con la resa del Giappone finì la Seconda Guerra Mondiale iniziata nel settembre del 1939.
Tra il 1946 e il 1948 molte cose importanti avvennero in Italia: il referendum monarchia-repubblica, l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, le primi elezioni politiche.
Di tutto ciò, noi ragazzi, non ne avevamo piena consapevolezza. Peràltro la guerra e le sue conseguenze quali la disoccupazione, l’emigrazione, l’indigenza hanno contribuito non poco allo sconvolgimento della vita di tanti.
Io poi, irrequieto com’ero, ho vissuto gli anni dal 1944 al 1948 quasi assente dall’ambito della mia famiglia composta da mamma, papà e da quattro fratelli nati rispettivamente nel 1928 il primo, nel 1930 il secondo, io, nel 1934 il terzo, nel 1937 il quarto.
Tornando alla mia irrequietezza in quei quattro anni, trascurai gli studi scolastici per molto tempo intento com’ero a cercare altre priorità come quella di un lavoro qualsiasi per “portare qualcosa a casa”. Mio padre, non avendo mai voluto prendere la tessera del fascio, non ha mai lavorato come statale, parastatale o comunale. Faceva il venditore porta a porta alternato con occupazioni temporanee di macchinista teatrale e di maschera nei cinema. Eppure non è che ero costretto a lavorare dai miei genitori ai quali invece, con il mio comportamento, ho creato non poche preoccupazioni. Non volendo più studiare in quel periodo ho fatto un certo numero di vari mestieri a me consentiti data la mia giovane età, tra i quali:
- in un teatro quando ho lavorato come aiuto del macchinista di palcoscenico, mio padre. In quel teatro andò in scena, per un certo periodo, una compagnia di riviste con Renato Rascel, comico e capocomico e la moglie Tina De Mola cantante e soubrette;
- qualche mese dopo, con l’ausilio di mio padre, fui assunto come apprendista da una ditta che si occupava di commercio, manutenzione e riparazione di grosse macchine calcolatrici americane;
- trascorso poco tempo, per guadagnare qualcosa in più, mi licenziai e cambiai la “professione” andando a fare una specie di bigliettaio, lavoro in nero, su delle scalcinate camionette che all’epoca si occupavano del trasporto pubblico abusivo in sostituzione dei mezzi pubblici regolari ancora non funzionanti. La “nostra linea di servizio” era quella da Piazza San Silvestro alla Stazione Termini e ritorno. Per di più “garantivamo il servizio notturno” post teatro e concerto;
- sempre con mio padre, in un cinema centrale, mentre lui lavorava come “maschera” io per un po’ feci una specie di aiuto operatore ed in seguito il venditore di bruscolini-caramelle-mostaccioli durante gli intervalli del film nonchè addetto alla sorveglianza dell’uscita di sicurezza sul retro della sala di proiezione. Quest’uscita di sicurezza confinava con quella di servizio di un grande albergo requisito dall’esercito americano dove vi lavorava come sguattero un mio amico d’infanzia il quale, durante le pause, veniva da me, mi portava roba da mangiare ed io, in cambio, facevo entrare “a sbafo” lui e non so quanti altri nostri coetanei;
- ancora nello stesso teatro dove avevo già lavorato come aiuto macchinista, riuscii di nuovo ad entrarci, sempre lavorando in nero, come aiuto dell’aiuto dell’elettricista ufficiale: praticamente eravamo in tre e, combinazione, tutti con il nome Aldo. Ma mentre i primi due Aldo operavano in palcoscenico, io ero addetto al funzionamento dell’unico grosso riflettore sistemato al centro della galleria sovrastante la platea del teatro. La compagnia di riviste che andava in scena era composta da “Oly Macri and his orchestra”, dalla cantante-soubrette Luisa Poselli sposatasi in seguito con l’attore-caratterista Mario Carotenuto e dal comico Armando Libianchi;
- venne la volta di fare l’aiuto del manovale che aiutava il muratore. Il lavoro consisteva nel fabbricare travi di mattoni forati e cemento armato con tondini di ferro necessari per la costruzione dei solai. Lo stabilimento si trovava in periferia ma io dovetti interrompere appena tre giorni dopo perché quando rientravo a casa la sera avevo le mani piagate e sanguinanti;
- il lavoro successivo mi fu trovato da mio padre tramite la conoscenza di una persona in un’associazione di industriali dove fui assunto come usciere-fattorino. Penso che mi comportai bene dato che il Presidente di questa Associazione mi prese a benvolere e mi disse che dovevo riprendere gli studi iscrivendomi a sue spese in una scuola serale per ragionieri. A causa della mia mancata voglia di studiare ancora una volta pensai bene di commettere l’ennesima sciocchezza e la sera, invece di frequentare l’Istituto, me n’andavo regolarmente in giro a fare altro;
- infine, nell’impossibilità di trovare una qualsiasi altra occupazione, mi misi a fare saltuariamente il sostituto di mio padre che vendeva, a rate, porta a porta, alcuni articoli per l’igiene personale e di profumeria e romanzi storici (e polpettoni) a puntate.
Dulcis in fundo, nel turbinio di tutte queste mie pseudo-attività, non ho voluto farmi mancare tre mie brevissime fughe da casa: la prima verso Anzio (autunno’44), la seconda a Napoli (estate’45), la terza ed ultima a Genova (primavera’48) giacchè m’era venuta la “bellissima” idea d’imbarcarmi clandestinamente in una nave qualsiasi diretta chissà dove. Incoscientemente non ho mai pensato alle angosce dei miei genitori i quali loro stessi insieme a mio fratello più grande erano costretti ogni volta ad andare a cercarmi dappertutto.
Improvvisamente, come fu e come non fu, a dicembre del 1948 rinsavii! Entrai come impiegato privato in uno studio professionale e da allora diventai un’altra persona, completamente diversa dal giovane scapestrato che ero stato fino a qualche tempo prima. Ancora oggi mi chiedo a cosa devo la mia trasformazione. Io credo che vi abbiano concorso vari motivi e varie persone tra cui, principalmente, tutti i componenti della mia famiglia i quali non mi hanno mai fatto mancare il loro affetto.

lunedì 2 marzo 2009

LA PRIMAVERA DEL 1944 A ROMA

Dovevo ancora compiere 14 anni ed ora, a distanza di oltre sei decenni, torno a dirmi che quella, nonostante la spensieratezza dovuta all’età non fu per me una bella primavera.
Ma non soltanto per me.
Tre episodi di cui ho ancora memoria sono parte di quel periodo:
- Via Rasella e dintorni
- Stazione Ostiense
- Colosseo
In ordine cronologico,dal 23 marzo al 4 giugno del ’44 (liberazione di Roma da parte degli alleati), vissi quei 74 giorni in modo particolare.
Secondo di 4 fratelli, tutti maschi, sono stato sicuramente il più discolo e la disperazione dei miei genitori purtroppo, fino al compimento del 18mo anno d’età. Poi, per fortuna, avvenne in me un radicale cambiamento; ma questa è un’altra storia e quindi torniamo a quei giorni.
Nel marzo del ’44, durante la seconda guerra mondiale (10 giugno 1940-25 aprile 1945), dopo l’armistizio chiesto agli anglo-americani nel settembre del ’43, Roma, dichiarata “città aperta”, insieme a gran parte dell’Italia, si trovava sotto l’occupazione dei tedeschi con i quali collaboravano attivamente i fascisti repubblichini di Salò.
Quasi ogni giorno, inventando chissà quali scuse, riuscivo a sfuggire alla sorveglianza di nostra madre, ad uscire da casa e a bighellonare in giro per la città. A quei tempi io e i miei fratelli abitavamo sin dalla nascita, insieme ai nostri genitori, a meno di cento metri dal Colosseo, vicinissimo alla Domus Aurea e a tre dei sette colli di Roma: Celio, Esquilino e Palatino. Questa posizione centrale mi consentiva pertanto di girare per Roma, soprattutto verso il centro storico della città, senza alcuna necessità di dover usare mezzi pubblici, anche perché ne circolavano pochissimi e io neppure avevo soldi per poterne usufruire (alcune volte in realtà presi qualche filobus ma soltanto perché mi attaccavo pericolosamente ai due avvolgifili in metallo posti dietro i filobus stessi).
Per pura combinazione il 23 marzo del ’44 (giorno dell’attacco dei partigiani del GAP, in cui morirono 33 militari delle SS – altoatesini volontari – e due civili italiani in via Rasella), intorno alle 17 gironzolavo nei pressi della centralissima Piazza Colonna e stavo percorrendo Via del Tritone per girare poi in Via del Traforo e fare ritorno a casa. Ma, appena arrivato al Largo del Tritone vicino il palazzo del quotidiano romano “Il Messaggero”, trovai la strada bloccata da un cordone di militari italiani e tedeschi. Gli italiani, guardie di finanza e i tedeschi, SS, stretti l’uno all’altro, avevano formato una barriera invalicabile circondando tutta l’intera zona intorno a via Rasella - Via del Tritone, Piazza Barberini, Via Quattro Fontane, Via del Traforo. Dovevo necessariamente passare di là, percorrere tutto il traforo (o tunnel) che collegava e collega tuttora Via del Tritone con Via Nazionale e quindi procedere per Via dei Serpenti, Via degli Annibaldi e arrivare infine a casa. Sebbene per tutta la durata della guerra, ma anche oltre, il traforo fosse stato adattato a rifugio antiaereo, era ugualmente percorribile sistemato in modo opportuno con murature sia all’entrata che all’uscita e dotato di condotti per l’aerazione. Con l’ingenuità derivante dalla mia giovanissima età, non conoscendo i motivi di quello sbarramento dato che l’attacco alla compagnia di polizia delle SS era avvenuto oltre un’ora prima e io non ne sapevo niente, mi avvicinai tranquillamente al cordone di militari e chiesi di poter passare. Naturalmente mi ero rivolto al militare italiano ma lui rispose che era impossibile. Io insistetti dicendogli che se non fossi rientrato presto a casa le avrei sicuramente buscate dai miei. Lui mi squadrò da capo a piedi poi rivolse lo sguardo verso le due SS che gli stavano ai lati, entrambe gli fecero un segno d’approvazione e lo sbarramento si aprì lasciandomi passare.
Soltanto tempo dopo venni a sapere quello che era successo lì in Via Rasella e del successivo eccidio delle Fosse Ardeatine avvenuto il giorno seguente.
Molte vicende di quel tremendo periodo erano poco conosciute da me e dai miei fratelli, un po’ per l’età (nel 1940 il più piccolo di noi (quattro) aveva tre anni, il più grande dodici) e un po’ perché i nostri genitori preferivano tenerci nascoste le brutture della guerra. Ma soprattutto perché avevamo come primaria necessità quella di sopperire alla penuria di cibo. La fame era qualcosa che non sono riuscito ancora a dimenticare. A proposito di fame.
In una giornata di quel periodo io con un gruppo di miei coetanei abitanti nella mia stessa strada, eravamo venuti a sapere che alla stazione ferroviaria Ostiense, più volte bombardata dagli aerei americani – le famose fortezze volanti - c’erano dei treni semidistrutti stracolmi di ogni sorta di cibo. Non stemmo a pensarci due volte, tutti baldanzosi ci recammo, a piedi naturalmente, anche se il percorso non era breve, alla detta stazione che era ridotta in macerie e completamente deserta e vedemmo che c’erano veramente alcuni vagoni-merci delle ferrovie con i portelli scorrevoli spalancati. Come si usa dire, ci tuffammo a pesce ma, anziché generi alimentari trovammo, in quello che restava dei vagoni, soltanto materiale militare: giberne da soldato, munizioni per le armi, gavette e altre cose dello stesso genere. Arraffammo lo stesso quel che ritenevamo poterci ricavare qualcosa e ci accingemmo a riprendere la strada verso casa. quando, improvvisamente, dal recinto semidistrutto della stazione, lentamente e silenziosamente fece il suo ingresso un‘autovettura scoperta con dentro quattro militari tedeschi tra i quali un ufficiale. Fermatasi l’auto ad un centinaio di passi da noi, l’ufficiale tedesco, a voce alta e tono autoritario, ci fece capire che dovevamo avvicinarci a lui. Il tratto del percorso era tutto allo scoperto e noi eravamo totalmente in preda alla paura. Quasi tutti del gruppo riuscirono ad estrarre dalle tasche quanto prelevato dai vagoni-merci e a farlo cadere in terra man mano che ci si avvicinava ai militari tedeschi, io invece, che avevo avuto la bella idea di portarmi via una sciabola da carabiniere con l’elsa sull’impugnatura che sembrava d’oro, dovetti far finta di camminare zoppicando perché l’arma in questione ero riuscito a nasconderla sotto la maglietta e la gamba del pantalone, dalla parte sinistra.L’ufficiale, dai gesti che riuscimmo ad interpretare, ci fece una forte ramanzina e ci ordinò, a gesti, di uscire subito dalla stazione, cosa che ci affrettammo a fare e pure di corsa, eccetto me che seguitavo a zoppicare. Ci andò bene.
Tenni quell’arma per parecchi anni, ad imperitura memoria del mio scriteriato “gesto eroico”, però sempre ben tenuta nascosta da mia madre. Poi, dopo sposato e andato via da casa, ho perso le sue tracce. Chissà dov’è andata a finire.
Il 4 giugno del ’44 era una bella giornata di sole. Sentimmo sin dal mattino un rumore di autocarri, carri armati leggeri, moto che transitavano proprio vicino casa nostra. Incuriosito uscii abbastanza presto e vidi una lunga fiumana di uomini e mezzi tedeschi piuttosto male in arnese che si avviavano verso Via dei Fori, Piazza Venezia e da lì verso l’uscita della città.Era la ritirata delle truppe tedesche che andavano verso il Nord (dell’Italia) incalzati dagli alleati che ormai si trovavano alle porte di Roma. Verso metà della mattinata un discreto numero di soldati tedeschi, per concedersi un po’ di riposo, si accamparono intorno al Colosseo. Introdussero persino alcuni carri leggeri nelle piccole cavità ad arco poste alla base del grande anfiteatro, forse per ripararsi dal sole o da chissà che cosa. L’intera area circostante il grande monumento era gremita di soldati ma anche di gente delle case vicine e si fraternizzava volentieri. Fra loro c’ero anch’io che curiosavo qua e là. Guardandomi intorno vidi che in una di quelle cavità era stato fatto entrare un carro armato leggero ai piedi del quale, seduto in terra, senza elmetto, sudato e dal volto stanco, biondo, giovane, sostava uno di quei soldati che stava mangiando qualcosa. Mi avvicinai e, senza dire una parola, mi misi a guardarlo. Lui che evidentemente si era accorto di me, altrettanto silenziosamente mi porse una grossa fetta di pane bianchissimo ricoperto di burro o margarina, non ricordo bene. Non stetti lì a sottilizzare. Afferrai quello che mi veniva offerto e lo divorai. Feci appena in tempo perché sentii, io e tutti gli altri, il rumore di un aereo,forse un ricognitore, che si stava avvicinando e che, appena inquadrata la scena, cominciò a mitragliare in lungo e in largo. Fu un fuggi fuggi generale, ma non tutti se la cavarono. Tornai dopo più di un’ora per rendermi conto di quello che era successo e vidi che quel carro leggero al quale mi ero accostato in precedenza era andato completamente distrutto ed ancora bruciava, mentre non c’era nessuna traccia del soldato tedesco. Mi augurai si fosse salvato. Ancora oggi, quella piccola cavità lì al Colosseo reca i segni del carro che aveva preso fuoco.