giovedì 30 dicembre 2010

MEETING PIZZA E BIRRA

Per essere chiaro apprendo – fonte Wikipedia - che "un meeting è una riunione di due o più persone che è stato convocato per lo scopo di raggiungere un obiettivo comune attraverso l'interazione verbale...".
Nove blogger, si sono riuniti in un locale del Rione Esquilino - per la precisione una pizzeria - alle
ore 20.00 di ieri sera 29 dicembre 2010.
Tra i convenuti c'ero anch'io.
Contatti via e-mail, sms, telefonate etc, hanno consentito la perfetta riuscita della riunione anche perchè, contrariamente al solito, non è finita a tarallucci e vino ma a pizza e birra.
Evito di fare i nomi degli altri otto blogger poiché non ho avuto la liberatoria firmata, per la verità da me non richiesta. Si sarebbero opposti? Non credo. Ci siamo sì riuniti nel sotterraneo del locale ma i "moti carbonari" li abbiamo accantonati.
La riunione, durata circa tre ore, è stata prudentemente interrotta all'unanimità verso le 23.00 onde evitare la cacciata a pedate da parte dei proprietari e ciò a causa della "vivacità della interazione verbale" di tutti gli intervenuti interazione basata soprattutto su allegre e grasse risate, prese per il c... reciproche e amenità del genere.
Al termine del meeting, con sommo gaudio, sono stato accompagnato a casa, mano nella mano, da tutti gli altri otto blogger.
Il locale in questione dista appena cento passi da dove abito.
BUON ANNO A TUTTI I BLOGGER.

mercoledì 22 dicembre 2010

venerdì 17 dicembre 2010

IL PANE OVVERO LA PESATURA DELLA BRICIOLA

A volte qualcuno mi ride dietro, altre volte sbuffano ad un mio accenno di disapprovazione, altre volte ancora sorvolano sul comprendere il perchè di quello che vado dicendo riguardo il pane.
Mi viene detto "guarda che diventi paranoico con questa tua fissazione sul pane, sul suo uso e sul suo spreco".
Ebbene io conservo ancora oggi un ricordo molto amaro circa questo alimento.
A gennaio del 1940 cinque mesi prima dell'entrata in guerra dell'Italia il governo fascista dette il via alla distribuzione della carta annonaria per il razionamento di molti prodotti almentari tra i quali appunto il pane.
Alcuni di tali prodotti tipo caffè, carne, zucchero e altro o erano introvabili oppure appannaggio soltanto di persone agiate e "borsari neri" che potevano permetterselo insieme ai contadini con i quali nostro padre barattava minuscoli oggetti d'oro di proprietà di nostra madre per patate, cicerchie, carrube etc.
Qui a Roma come tipo di pane era di largo consumo la ciriola o "cirioletta" ognuna del peso di circa 100 grammi che era poi la razione giornaliera pro capite di ogni componente della famiglia.
Il nostro panettiere di fiducia a due passi da casa era il Sor Giggetto che, come testimone, figura tra l'altro nel mio estratto di nascita – 1930.
Ogni mattina si andava da lui , si esibiva la carta annonaria dalla quale prelevava i bollini relativi e si tornava a casa con i 600 grammi spettanti alla nostra famiglia composta dai genitori e da quattro figli.
Con il procedere della guerra le scorte di farina andavano esaurendosi e di conseguenza anche il pane diventava quasi un genere di lusso.
A volte capitava che il Sor Giggetto riusciva a rimediare non so come un po' di pane extra e allora ci avvisava di tornare il pomeriggio, fare la fila e sperare di ottenere qualche cirioletta in più di quella del razionamento.
Quelle volte in cui riuscivamo a rimediarne un paio anche noi naturalmente eravamo contenti ma tra noi fratelli sorgevano sempre delle discussioni perché nostra madre doveva dividere le ciriolette
esattamente in parti uguali e non sempre le riusciva.
Noi fratelli litigavamo persino per un pezzetto di mollica di pane in più o in meno. I primi due anni eravamo io e mio fratello più grande i partecipanti al dibattito poi si aggiunsero gli altri due, nel frattempo cresciuti.
Mio padre si stancò di quelle discussoni piuttosto animate e allora un giorno portò a casa una bilancia da farmacista o da orafo, che poteva pesare soltanto cose leggerissime. Briciole appunto.
Rammento ancora oggi la scena mentre, seduti intorno il tavolo in cucina, guardavamo con occhi attenti nostra madre che cercava di pesare e suddividere con precisione le due ciriolette.
Un ricordo che m'è rimasto impresso nella mente e che non ho mai dimenticato.

martedì 14 dicembre 2010

L'HO RIVISTA, MI HA RIVISTO.......

Eppure non mi ero sbagliato.
Ieri l'altro in giro come al solito ed in attesa che scattasse il verde di un semaforo per attraversare la strada vidi avvicinarsi alla vicina fermata un tram proveniente dalla periferia.
All'apertura delle porte notai alcune persone salire ed altre scendere e, tra queste ultime, una figura femminile che mi fece sobbalzare.
Incredulo mi chiesi se stavo avendo una visione.
Invece no.
Era proprio lei, la dolce e tenera donna che, vent'anni prima, per la sinuosità delle sue forme da me ben conosciute ed apprezzate, paragonai ad un violoncello.
Naturalmente così a prima vista notai alcuni cambiamenti del suo aspetto ma non vistosi, sempre piacevole malgrado i suoi quasi settant'anni.
D'altronde anch'io ero cambiato.
Feci del tutto per incrociarla, la guardai negli occhi, lei anche mi guardò e, dal lieve rossore che le apparve in viso come anni prima, compresi che mi aveva riconosciuto.
Gli occhi celesti, lo stesso piacevole sguardo.
Non ci dicemmo neppure una parola, nemmeno un ciao, abbozzammo un lieve sorriso l'inizio forse di un breve dialogo.
Invece lei si voltò avviandosi nella direzione opposta alla mia.
Io, fermo, immobile, indugiai a lungo osservandola nel suo incedere e sperando che si voltasse almeno per un cenno di saluto.
Ma non lo fece.
Perché?
E dire che da tanto tempo desideravo si verificasse quest'incontro.
Mi chiesi se c'eravamo mai visti e conosciuti.

sabato 11 dicembre 2010

mercoledì 8 dicembre 2010

MA L'ARTROSI E' CONTAGIOSA?

Me lo chiedo perché evidentemente i residenti dell'Esquilino – Rione XV del Municipio 1 di Roma dove anch'io risiedo e che sono oltre ventimila, da qualche anno devono essersi ammalati di artrosi,
osteoporosi, reumatismi e quant'altro relativamente alle ossa.
Non tutti, certamente, ma una buona parte sì, specialmente quelli della terza e quarta età.
La domanda sorge spontanea dal momento che c'è un pullulare di esercizi dove – chiedo scusa per il bisticcio - si esercitano alcune attività particolarmente lucrose.
Parlo di locali, una volta negozi di vario tipo a livello strada, con due o tre vetrine, aperti da poco come centri benessere, estetica, parrucchiere uomo e donna e centri massaggi, rigorosamente gestiti da ragazzi e ragazze orientali, per la precisione cinesi.
Questa mattina ho curiosato nelle strade vicinissme casa dove abito e ne ho contati sette.
Sarebbero stati nove se due di questi locali entrambi a livello stradale ma accessibili soltanto scendendo sette od otto gradini, non fossero sbarrati con tanto di cartello cellofanato applicato sulle porte d'ingresso con l'avviso che erano stati chiusi e messi sotto sequestro dalla Questura per attività illecite. Quali? Non è specificato.
Appena posso m'informerò meglio presso l'Azienda Sanitaria Locale per sapere cosa devo fare per salvarmi da questa pandemia.
Pillole no, ne ingurgito già troppe. Di malavoglia.

sabato 4 dicembre 2010

mercoledì 1 dicembre 2010

sabato 27 novembre 2010

MINUETTO

domenica 14 novembre 2010

CORNELIA - UNA STORIA VERA

Verso la fine dell'ottocento e i primi del novecento migliaia e migliaia di persone – uomini, donne e bambini – lasciavano i loro affetti, le loro case, i loro luoghi per emigrare dovunque, in ogni parte del mondo, alla ricerca di una vita migliore di quella che conducevano nei propri paesi d'origine.
Navi e treni trasportavano la loro speranza insieme ai loro corpi e alle loro menti.
Col trascorrere degli anni questa tremenda questione dell'emigrazione andò scemando per riprendere negli anni cinquanta e nei primi del sessanta, quelli del boom economico, quando migliaia di persone e intere famiglie emigrarono dal sud al nord d'Italia e non solo. Rammento i treni stracolmi e quelle valigie legate con lo spago.
Negli ultimi tempi la questione dell'emigrazione è tornata a galla ed in forma ancora più tragica.
Stavolta si tratta per la maggior parte di persone che emigrano dalle terre d'Africa e dai paesi dell'Europa dell'Est. Le ragioni sono molteplici, quelle della sopravvivenza soprattutto.
Tutto quanto sopra mi è tornato in mente ascoltando dalla viva voce della protagonista la sua storia personale.
Cornelia – non è il suo vero nome – è una giovane signora rumena di circa quarantatre anni, amica della signora, anche lei rumena, che assiste mia moglie di 82 anni, 24 ore su 24. Incuriositomi della sua vicenda appena accennatami ho chiesto se Cornelia poteva avere qualcosa in contrario ove io fossi riuscito a metterla per iscritto. Nulla da obiettare mi è stato risposto e allora lei è venuta a casa a raccontarmela portando con sé tre album di fotografie sue e della sua famiglia.
Sposatasi giovanissima, nel 2001, con due figli una di 16 anni ed uno di 9, divorzia dal marito che aveva allacciato una relazione con una ragazza molto più giovane di lui e di lei. I due figli rimangono con Cornelia la quale, per poter mandare avanti la baracca partecipa ad un corso di formazione terminato il quale riesce ad essere assunta presso l'Università della sua città come operaia addetta agli impianti termo-idraulici. Nel 2004, dopo tre anni di duro lavoro, subisce un incidente che le impedisce di poter continuare a fare quel mestiere. Ottiene una misera pensione e si mette alla ricerca di qualche altra opportunità lavorativa. Non ne trova. Dopo essersi consultata con alcune amiche, chiede un prestito bancario e ottenutolo ne lascia una parte ai figli che restano in Romania ed emigra a Roma ottenendo il visto per una "visita turistica" che rinnoverà dopo tre mesi. Gli ostacoli che le si presentano sono principalmente due: nessuna conoscenza della lingua italiana e la ricerca spasmodica di un posto dove passare le notti. Vaga frastornata nelle vie di questa città e finalmente, dopo due notti, fa la conoscenza di una rumena come lei che la indirizza verso tre località marine, a nord-ovest di Roma, dove abitano molti cittadini e cittadine rumene che lavorano soprattutto negli ospedali. Inizialmente lavora come assistente familiare presso persone anziane spostandosi continuamente perché priva di permesso di soggiorno e quindi clandestina. Trattandosi appunto di persone molto anziane ed in condizioni di salute piuttosto precarie, difficilmente riescono ad interloquire con Cornelia, ma lei testardamente si fa capire a gesti così' come cerca di interpretare i loro di gesti. Per la notte trova una casa dove deve adattarsi a dormire in un letto che le hanno sistemato nella cucina pagando mensilmente 265 euro più le spese, tutto in nero. Nel 2007 la Romania entra a far parte della Comunità Europea e pertanto Cornelia diventa cittadina comunitaria. Si mette quindi alla ricerca di una occupazione più stabile e la trova in una maniera un po' particolare. Salita su un autobus della linea che collega la località dove alloggia temporaneamente ad una più vicina a Roma, giunta alla fermata scende e parlando pochissimo l'italiano si guarda attorno e scorge due donne sedute su una panchina. Si rivolge ad una di loro usando la lingua rumena credendola tale, ma l'interpellata è un'italiana e le dice di non capire. L'altra vicina però è rumena e quindi fa da interprete. Cornelia racconta una parte della sua storia e dice che è alla ricerca di un posto di lavoro. Quando la signora italiana apprende tutto ciò, sempre tramite l'interprete rumena, le fornisce il recapito telefonico e l'indirizzo di una persona che sta cercando appunto una come lei.
Trovato il lavoro ha cercato la gentile signora italiana per dimostrarle la sua gratitudine ma non è più riuscita a trovarla e neppure a sentirla.
Conclusione ecco come stanno le cose attualmente: Cornelia, la cui figlia oggi venticinquenne si è sposata, è diventata nonna del suo bambino di tre anni e sta facendo studiare l'altro figlio diciottenne in Romania. In quasi tutte le foto che ho visto ho notato lo sguardo triste del ragazzo e Cornelia mi ha detto, con le lacrime agli occhi, che è molto attaccato a lei, è un "mammone" e la sua tristezza è dovuta alla lontananza. Quando può lo fa venire a Roma ospitandolo in un monocale che ha preso in affitto.
Adesso Cornelia parla bene l'italiano anche se ciò le è costato molta fatica.
Si occupa di un "vecchiotto" che vive da solo è autosufficiene, sa e vuole cucinare lui. E lo fa benissimo.
Ha ottant'anni, si chiama Aldo ed ha una folta capigliatura bianca.
Vabbè anch'io ho ottant'anni e mi chiamo Aldo, ma sono pelato e soprattutto non so cucinare.

PER UN PERIODO DI TEMPO SOSPENDO LA PUBBLICAZIONE DI POST MA CONTINUERO' A PASSARE DAGLI ALTRI BLOG, LEGGERLI E LASCIARE UN COMMENTO OVE IO SIA CAPACE DI FARLO.
UN SALUTO MOLTO CORDIALE.

mercoledì 10 novembre 2010

LA PRIMA VOLTA CHE VIDI PARIGI

Era l'estate del 1972 e capitò l'occasione buona per andare a vedere Parigi. Mai vista prima.
Ecco come andarono i fatti. Il fratello di mia moglie, mio cognato, era anche lui cognato del fratello di sua moglie. Il cognato di mio cognato, nato in Italia, viveva in Francia da oltre vent'anni, insieme alla sua famiglia, faceva il floricultore e aveva una bella casa nella campagna vicinissima a Parigi.
Da adesso in poi il "romano" sarà il mio di cognato e il "francese" sarà invece il suo di cognato così si potrà capire meglio la distinzione. Spero.
Il "francese" aveva invitato il "romano" a trascorrere una quindicina di giorni a casa sua appunto a Parigi estendendo l'invito anche a me in quanto eravamo quasi parenti. Lo eravamo? Credo di no.
Io e il romano tenemmo due o tre riunioni per pianificare il viaggio in tutti i minimi particolari.
Poichè a partire eravamo in sei e cioè io, mia moglie e mio figlio di tredici anni e lui, sua moglie e sua figlia di undici anni, decidemmo all'unanimità di andare con due autovetture: la mia 1100/R e la sua Renault. Consultando carte, cartine e mappe apprendemmo che la distanza da Roma a Parigi misurava 1500 chilometri circa e che, senza fermarsi mai – cosa sicuramente impossibile – ci avremmo impiegato non meno di 15 ore. L'unica soluzione era partire all'alba in maniera tale da arrivare a destinazione in un orario ragionevole.
Il romano abitava in un quartiere periferico mentre io invece in un rione del centro e allora pensammo di darci un appuntamento al primo distribuore di benzina presente all'inizio della via consolare che ci avrebbe consentito di accedere in autostrada verso Torino. Nessuno di noi sapeva
di quale società petrolifera fosse, ma doveva essere rigorosamente il primo. Le cinque del mattino
era l'ora fissata di comune accordo.
L'indomani mattina, prima dell'alba, dopo aver regolato i nostri orologi, ci mettemmo in marcia verso il primo obiettivo: un distributore di benzina qualsiasi. Miracolo dei miracoli, alle cinque in punto avvenne il rendez-vous esattamente davanti il primo distributore che, se ricordo bene, era quello del canone a sei zampe.
Verso le tredici – dopo otto ore di viaggio – ci fermammo per una brevissima sosta mangereccia e quindi proseguimmo a velocità sostenuta come se non si vedesse l'ora di arrivare alla meta.
Quando arrivammo a Lione era già pomeriggio inoltrato. Dovevamo ancora percorrere circa 500
chilometri per giungere a Parigi. Una breve sosta e di nuovo in marcia, ma ad un centinaio di chilometri da la Ville Lumiere decidemmo all'unamità di fermarci: eravamo stanchissimi. Cercammo un alberghetto per dormire ma l'unico che trovammo non era di gradimento delle nostre consorti. Parcheggiammo in un prato alberato quasi sul ciglio di un burrone in fondo al quale si vedevano dei binari ferroviari.
Avevamo sonno e allora, desiderando "ritirarci nei nostri alloggi", predisponemmo le nostre due auto per cercare di farle diventare qualcosa che somigliasse ad un posto dove dormire. Il romano aveva l'auto con i sedili anteriori adattabili e quindi lui e la moglie si misero discretamente comodi mentre la loro figlia si accomodò sul sedile posteriore. Mentre mio figlio prendeva possesso anche lui del sedile posteriore, si accinse a dormire con le gambe fuori dal finestrino. Io e mia moglie seduti sui due sedili anteriori. Natutralmente, meno i due ragazzi che dormirono placidamente, noi quattro non chiudemmo occhio anche perchè su quei binari ferroviari transitarono molti treni, sia in una direzione che in quella opposta. Riprendemmo il nostro viaggio e, finalmente, verso le undici di
mattina arrivammo a Parigi e quindi a casa del cognato francese. Io e i miei ci trattenemmo una settimana ma facemmo in tempo a visitare Champs Elysees, Notre Dame, Tour Eiffel, Tomba di Napoleone e altro ancora che non rammento. La sera prima di partire il figlio del francese c'invitò a noi maschietti di fare una capatina nella strada parigina dove si trovano le Folies Bergeres ed altro.
Per noi, quell'altro fu una capatina ad un locale notturno il buttafuori del quale ci aveva magnificato
lo spogliarello integrale al quale avremmo assistito. Non fu così, nulla era più casto di quello spettacolo. Meglio. Giusta punizione per dei turisti ingenui.
L'indomani di buon'ora io e i miei ci mettemmo in viaggio per Montpellier vicino Marsiglia dove eravamo stati invitati da una mia cugina figlia di un fratello di mio padre.
Rimanemmo lì circa sei giorni, facendo in tempo a farci alcuni bagni nel Mediterraneo e prendere atto che a quei tempi, anno 1972, topless e tanga andavano già di moda.
Ne ho una prova fotografica conservata con cura.

domenica 7 novembre 2010

LA RAGAZZA CON I CAPELLI COLOR FIAMMA

Ebbene sì, lo confesso, sono uno che s'incuriosisce specialmente quando fatti, persone e situazioni fanno aumentare il livello della mia innata curiosità.
Ieri mattina sono uscito di casa per recarmi alla vicinissima fermata del bus che dovevo prendere, ma il medesimo mi sfugge proprio sotto il naso. Pazienza. Tanto di tempo ne ho a volontà...Forse esagero.
Il bus successivo so benissimo che passerà non prima di quindici minuti, almeno.
Mi guardo intorno e noto che sono solo.
Dopo qualche minuto, lontana una ventina di metri, vedo avvicinarsi una figura femminile che, forse a causa del bel sole, sembra emanare bagliori di fuoco.
Cammina lentamente parlando attraverso un telefonino poggiato sull'orecchio destro. Noto alcuni particolari della sua silhouette anche perché viene a fermarsi proprio davanti a me. Evidentemente anche lei aspetta il bus.
È una figurina discretamente magra, indossa una giacchettina blu di velluto rasato che non arriva a coprirle il bacino. Le gambe snelle sono inguainate in jeans attillatissimi che terminano in un paio di stivali neri alti fin sotto le ginocchia. Le mani sono piccole con le dita affusolate e le unghie smaltate di un colore scuro, quasi nero, una delle quali stringe il telefonino tramite il quale parla sottovoce. I lineamenti del volto aggraziati e dolci sono circondati da una massa di capelli rossi, lisci e lunghi che le arrivano fino alle spalle. Sulla fronte una frangetta.
Vestita in una foggia diversa mi fa venire in mente una di quelle statuine applicate sui carillon.
Noto il colore rosso vivo dei suoi capelli e, appena interrompe la conversazione telefonica, non riesco a trattenermi e le dico
= Mi scusi, non pensi che voglia infastidirla però vorrei chiederle se quei capelli sono suoi o se è una parrucca. Sa, il motivo per cui glielo chiedo è...
= il colore vistoso, vero?
= ehm...ecco appunto...chiedo scusa ma...
= stia tranquillo, non è la prima persona che me lo chiede...
= lo credo bene, incuriosiscono molto
= certo, ma questi sono veramente i miei capelli, tinti è ovvio. Mi piace che si notino...
= mi scusi, ambisce forse a qualche ruolo in TV, al teatro o al cinema?
= nemmeno per sogno, io faccio la parrucchiera ed è un mestiere che mi piace e che faccio bene...
= peccato, ha tutti i requisiti adatti, mi permetta di dirglielo. È molto graziosa ed è giovane...
= ho trentacinque anni e la gioventù ormai...Ma non mi lamento, sto bene così
= le faccio i miei complimenti, sinceramente, mi creda, pensavo invece...
= che fossi più giovane, la ringrazio...Ecco l'autobus, buon giorno...
Non faccio in tempo a dire una sola parola che la "rossa" si avvia alla porta posteriore e sale.
Io, stupito – o stupido? - salgo da quella anteriore e dopo quattro fermate scendo.
Malgrado mi sia voltato più volte sbirciando tra i passeggeri del bus non sono riuscito a vederla.
Non mi domando il perché.

giovedì 4 novembre 2010

IL MOMENTO DEL FRESCONE

…può capitare a tutti, certo, a me è capitato nel 1950 e probabilmente anche altre volte.
Bei tempi quelli.
Nei primi giorni di settembre di quell’anno, io ne avevo venti di anni, partii da Roma per il servizio militare: destinazione Casale Monferrato (Alessandria).
Circa due mesi di Centro Addestramento Reclute e poi trasferimento al reggimento di fanteria di stanza ad Asti dove ebbi la fortuna di essere assegnato - o imboscato - in fureria come “graduato di contabilità”, praticamente scribacchino.
Del periodo della “naia” – dodici mesi – trascorso tra alti e bassi, più frequenti questi ultimi, ricordo un discreto numero di episodi più o meno piacevoli.
Ad esempio trovavo molto gradevole trascorrere alcune serate in compagnia degli amici presso un locale vicino la caserma ed assaporare bagna cauda e barbera che ci venivano servite da due belle ragazze figlie del proprietario.
Probabilmente era quella la ragione principale per cui andavamo lì quasi tutte le sere.
Ma adesso, per onorare il titolo di questo breve scritto, mi riporto alla memoria un episodio un po' particolare.
Verso la fine del mese di giugno del 1951 la nostra Compagnia insieme ad altre, venne autotrasportata vicino a Dronero, circa 20-25 Km. da Cuneo, nei pressi dei Monti S.Bernardo, Rocceré e Pelvo d’Elva dove, in un tratto di mezza montagna, all’aperto, ci accampammo per prendere parte ad una serie di manovre estive di addestramento.
Il primo giorno in cui arrivammo ricevemmo l’ordine di montare le tende e costruirci una sorta di letto per trascorrervi la notte. Il quale letto consisteva in una serie di rami d’albero ricoperti da uno strato di foglie tenuto alto dalla “nuda terra” per circa una decina di centimetri.
Eravamo stati suddivisi quattro militari per ogni tenda ed a noi sembrò di aver messo su un buon riparo e di aver costruito dei discreti giacigli.
Fummo subito smentiti perché la sera si scatenò un nubifragio così violento che, oltre a farci trascorrere la notte in bianco quasi ci sommerse per la quantità di pioggia caduta.
Il classico temporalone d’estate. Ma non poteva aspettare altri due mesi?
Quando la sera, in libera uscita scendevamo a Dronero, ci si poteva permettere qualche svago in più come ad esempio frequentare un chiosco-bar all’aperto con tavolini e sedie a volontà.
Con un gruppo di compagni eravamo riusciti a fare amicizia con alcune ragazze. Lì per fortuna, al contrario di Casale e Asti dove ci “schifavano”, non facevano differenza tra chi era in borghese e chi in divisa da militare. Una sera, tra queste ragazze nostre coetanee, riuscii ad allacciare, abbastanza rapidamente, un rapporto più amichevole del solito con una piccolina - di statura, non d’età - capelli ed occhi chiari ed un personalino niente male. Mentre si stava avvicinando la fine della serata mi chiese se potevo accompagnarla a casa. Non me lo lasciai dire due volte e, dopo un breve tragitto, con lei che indicava la strada, ci trovammo al buio in aperta campagna.
Mi assicurò che il muretto dove ci stavamo sedendo rappresentava il confine della proprietà della sua famiglia. Si parlò tra noi per un po’ e ad un certo punto io cominciai con la tattica del romantico, della luna, delle stelle e così via ma lei, dopo un breve istante mi fermò e mi fece, chiara e tonda, questa semplice domanda:
= Ma che stai aspettando? =
Lì per lì non compresi. Poi rimasi di stucco, capii che ero stato un allocco. In quel momento avrei preferito sprofondare sotto terra. Le chiesi scusa, la salutai e me ne tornai mogio mogio all’accampamento.
Avevo fatto la figura del “pirla” più grossa della mia vita!
Agli amici che mi stavano aspettando per sapere com'erano andate le cose raccontai una bella balla da bullo.

domenica 31 ottobre 2010

SCUSI LEI BALLA?

Ho capito che non sarei mai stato capace di ballare sin da quando, sedicenne o poco più, facevo parte di una comitiva di ragazze e ragazzi della mia età che, quasi ogni domenica pomeriggio, si riuniva in casa di qualcuno di noi per fare quattro salti - non in padella anche se per me lo era. Infatti cadevo nella "brace" quando tentavo di muovere i piedi al suono di qualsiasi ritmo musicale sia lento sia veloce. Ero di legno. Credo di aver pestato più piedi io che chissà chi. Nessuno riusciva a battermi in questo primato.
Un bel giorno, anzi una bella domenica, visto che non riuscivo a fare un passo di danza neppure sotto tortura, la comitiva decise all'unamità, io astenuto, che il mio compito in quei pomeriggi danzanti fosse quello di mettere e togliere sul grammofono i dischi a 78 giri de "La Voce del Padrone". Se non ricordo male forse un giradischi di quelli che funzionava con la manovella.
All'età di circa diciannove anni la mia ragazza, che sapeva ballare, decise di insegnarmi pena le "dimissioni". Un pomeriggio, complici anche le sue datrici di lavoro, venni invitato a casa loro attigua al laboratorio di sartoria dove appunto lei lavorava , ci chiudemmo in una stanza e lì venni iniziato al ballo.
Il fatto è che sì riuscii ad imparare qualche passo di danza ma soltanto al suono di quella famosa canzone che credo si chiamasse "Beguine to beguine". Non ho mai capito se era un tango, una rumba o qualsiasi altro ritmo. Provarono persino a farmi ballare al suono di un valzer magari lento ma non ci fu verso che io riuscissi a muovermi. Ero negato totalmente.
Dopo un paio d'ore di "Beguine", stremati, decidemmo per quel giorno di smettere.
Col trascorrere degli anni ci furono altri tentativi, la maggior parte andati a vuoto, ma ormai s'era capito che era inutile cercare di farmi imparare a ballare.
Avevo compiuto cinquantacinque anni, ancora lo ricordo, e un mio amico che festeggiava il suo di compleanno, m'invitò a casa sua. Era un sabato pomeriggio d'autunno e il suo appartamento, veramente grande e piuttosto di lusso, pullulava di persone d'ambo i sessi sia nostri coetanei sia qualcuno anche più anziano. La maggior parte erano donne.
Ad un certo punto ci fu chi mise in funzione uno stereo ad alto volume e parecchi degli invitati si gettarono nel vortice delle danze. Io, prudentemente, mi sedetti su di una poltrona e cominciai ad ammirarli. Qualche minuto dopo si avvicinò una signora, di almeno cinque o sei anni più grande di me, la quale mi disse
= Scusi lei balla?
= Ehm... veramente io...le confesso che non so ballare
= Ma questo che sta ascoltando è un tango ed è facile da ballare
= La ringrazio ma non farei altro che pestarle i piedi
= Non si preoccupi, venga, la porto io
= Dove?
= Qui, a ballare, venga su, si faccia coraggio
= Non c'è una Beguine, mi sentirei più sicuro?
= Poi la cercheremo, adesso prenda il mio braccio e mi segua.
Dopo quel giorno la seguii anche altre volte.

mercoledì 27 ottobre 2010

CASO A COSE

Prima di parlare di cose cui sto facendo caso da un po’ di tempo, capitano molto spesso davanti la vista cose alle quali, magari involontariamente ci si fa più caso.
Credo di aver incasinato l’inizio .
A questo proposito mi torna in mente una breve e innocente barzelletta che l’indimenticabile Aldo Fabrizi amava raccontare. Prima in teatro, quando faceva avanspettacolo, poi al cinema e quindi in TV. A me sembra di ricordarla così: “Ahò…ci avete fatto caso che quanno annate ar cesso pe’ lavavve le mano, pjate ‘na saponetta, ve insaponate ma ve casca guasi sempre ner lavannino?…Quanno la riccojete ce trovate sempre un capello appiccicato…però si ve casca un capello cor cavolo che ce trovate appiccicata ‘na saponetta.”
Io ad esempio, quando tutte le mattine o quasi, prima passeggio per circa un’ora, poi vado al mercato a comprare qualcosa, o viceversa a seconda della temperatura, nel rientrare a casa mi accorgo che cammino con la stessa andatura e faccio le stesse mosse di un mio caro amico, più anziano di me, reduce dalla seconda guerra mondiale che non ha alcun impedimento fisico nella deambulazione.
Quindi niente a che vedere con il proverbio “chi pratica lo zoppo impara a zoppicare”.
Per di più non facciamo lo stesso percorso né si conciliano i nostri orari, lui esce da casa all’alba io invece un poco più tardi e, pur abitando a poca distanza l’uno dall’altro, c’incontriamo raramente, almeno in strada.
Come si spiega?
Da dove nasce questa sorta di emulazione?
Ho cercato di darmi una spiegazione e sono arrivato ad una semplice conclusione: è l’età, cari noi due, 88 anni lui e 80 io.
E’ perfettamente naturale che noi si viaggi a scartamento ridotto e un po’ penzolanti.
Altre cose a cui faccio caso - ricomincio? - sono gli abbigliamenti delle persone che incrocio per le strade del rione.
Per esempio quelli di noi maschietti-vecchiottii - incluso anch’io - che alla nostra veneranda età andiamo in giro con: scarpe da basket, blue-jeans da cowboy, camiciola ampia - adatta a nascondere la pancia abbondante, come la mia tanto per non fare nomi - cappello da baseball.
Così d’estate. Quando fa più fresco cambia poco, salvo l’aggiunta di un giubbotto dal colore indecifrabile imbottito da non so cosa che ti fa sembrare l’uomo michelin.
Io ricordo che, a qualunque età, direi a cominciare dalla nascita, non si usciva da casa se non con tanto di giacca, cravatta, pantaloni, scarpe normali, tutto o quasi della stessa tonalità e poi con i capelli luminescenti - brillantina oppure olio di cucina.
Incontro spesso un signore, anziano, che in una qualsiasi delle quattro stagioni - credo siano rimaste lo stesso numero soltanto quelle musicate da Antonio Vivaldi - indossa questo completo: scarpe lucidissime, pantaloni, camicia, cravatta, giacca con tanto di fazzoletto nel taschino, il tutto dai colori intonatissimi, senza mai il cappello. E sì che non ha capelli.
Ovviamente esamino anche fanciulle, ragazze e signore anche di una certa età.
Di loro faccio caso ad ogni cosa - non è ora di smetterla?- specialmente quando, indossando blue-jeans o micro-gonne a vita molto bassa espongono all’aria aperta anche indumenti particolarmente sfiziosi oltre alle loro parti inferiori del corpo comprese tra il torace e il bacino. Molte indossano pantaloncini microscopici.
Ognuno è libero di abbigliarsi come meglio crede.
Soltanto un suggerimento a chi fa parte dell’altra metà del cielo: per le più giovani se debordano maniglie dell’amore e quant’altro è meglio che non seguano la moda; per le attempate ci andrei un pochino più cauto.
Perché a questo punto mi viene in mente la favola della volpe che non potendo arrivare all'uva troppo in alto diceva che era acerba?

domenica 24 ottobre 2010

IL TAVOLO DEI LAVORI

Ieri 23 ottobre 2010 si sono finalmente riunite, quasi al completo, le parti interessate all'accordo
sul programma.
L'intesa è stata raggiunta all'unanimità dopo vari contatti sia telefonici sia tramite posta elettronica.
Anche l'oculata scelta della sede dell'incontro ha avuto il plauso degli intervenuti i quali, al termine della riunione di lavoro, iniziata alle 13:30 e terminata alle 16:30, hanno lasciato la sede medesima visibilmente soddisfatti.
Quattordici le personalità presenti.
Uno, io, in qualità di:
padre
suocero
nonno
fratello, quale rappresentante degli altri tre assenti
cognato
zio
il più vecchiotto
il più acciaccato.
mio figlio
sua moglie
due loro figlie
due cognate
sette nipoti, maschi e femmine, dei quali due venuti da Vienna.
Questo lo svolgimento dei lavori sul tavolo rettangolare:
primo, a scelta, spaghetti alla pescatora o spaghetti alla gricia;
secondo, sempre a scelta, spigola gamberoni e mazzancolle il tutto alla griglia o abbacchio pollo e maialino arrosto;
contorni, ancora a scelta, patate al forno o finocchi e carote crude a cazzimpero;
frutta, dolce, caffé e ammazzacaffé.
Naturalmente c'è stato chi ha voluto approfondire più degli altri gli argomenti all'ordine del giorno da lui maggiormente graditi ma, terminata la riunione, tutti si sono scambiate reciproche congratulazioni per il conseguimento dello scopo prefissato.

giovedì 21 ottobre 2010

LA VERA STORIA DER VARECCHINARO

Avevo dimenticato Flavio però mi tornò in mente quando un comune amico mi informò della sua scomparsa. Lui era appunto un "varecchinaro" il quale, tanti anni fa, vendeva la varechina - oggi candeggina - che a quei tempi era contenuta in fiaschi e fornita a casa di chi voleva servirsene.

Questo mio amico recentemente scomparso, più giovane di me di qualche anno, abitava con i genitori ed un fratello più grande, al piano mezzanino del fabbricato dove abitavo anch'io, in Via della Polveriera. Aveva una passione per il calcio, tifosissimo di una delle due squadre della Capitale, ma anche una gran voglia di studiare.

La sua famiglia non poteva permettergli gli studi ed allora per pagarseli lui faceva appunto "er varecchinaro". Caricava cioè una certa quantità di fiaschi di varechina in una sorta di riksciò al contrario nel senso cioè che la ruota per pedalare il " triciclo" era quella posteriore e poi andava in giro per il nostro Rione Monti e quelli confinanti. Una grande faticaccia tutti i pomeriggi di tutti i giorni feriali. Al mattino invece frequentava la scuola.

Si diplomò al liceo classico con ottimi voti, poi all'Università dove si laureò in giurisprudenza con 110 e lode sempre senza far pesare sulla propria famiglia l'onere delle spese necessarie per gli scopi da lui raggiunti.

All'inizio degli anni sessanta diventò avvocato civilista occupandosi inoltre di compravendite immobiliari.

Non c'incontravamo spesso perché entrambi impegnati ma quando succedeva allora stavamo volentieri insieme a raccontarci qualcosa delle nostre rispettive attività e famiglie.

Lui non aveva nessuna voglia di sposarsi e di mettere su famiglia, aveva altro per la testa.

Sul finire degli anni sessanta un importante e facoltoso cliente dello studio professionale dove ero impiegato doveva procedere all'acquisto di una villa situata in una località marina distante da Roma una cinquantina di chilometri. Prima di dare un acconto e firmare una scrittura privata il cliente dello studio chiese al mio capo di fare un accertamento all'ufficio competente per quella zona al fine di accertare se sull'immobile gravasse o meno qualche impedimento che ne impedise la libera disponibilità e la sua libertà da oneri, pesi o vincoli di qualsiasi tipo. Una richiesta logica.

Il proprietario dell'immobile oggetto della compravendita era rappresentato con regolare mandato proprio dal mio caro amico "er varecchinaro".

Per quest'operazione di compravendita d'immobile venni incaricato dal mio capo di andare ad eseguire l'accertamento di cui sopra presso un Ufficio pubblico poco distante da Roma. Il mio amico non più varecchinaro ma avvocato mi disse che mi avrebbe accompagnato lui, venendomi a prelevare a casa l'indomani mattina del giorno fissato per l'accertamento. Ed infatti puntualmente alle sette del mattino mi citofonò a casa e tutti allegri partimmo alla volta di quell'Ufficio. Lì giunti mi feci consegnare dall'impiegato addetto i registri che m'interessavano e purtroppo notai che sulla villa gravava un provvedimento di una certa importanza che ne impediva la vendita. Il mio amico avvocato ex varecchinaro che era accanto a me disse

= vabbe' Aldi' nun te preoccupa' ce penso io a sistema' la quistione

= a Flavie' qui nun ce sta solo da sistema' abbisogna cancella' quela rogna prima de firma' quarsiasi scrittura privata

= e perché?

= come perché, sei pure avvocato e ce lo sai er perché

= ma si tte dico che poi ce penso io

= poi quanno, l'anno der mai?

= no, io prenno la capara confirmatoria in conto prezzo, porto li sordi a chi ha messo 'sta rogna der cacchio e quello pjia e cancella

= no Flavie', nun funziona così, io ar capo io da di' le cose come stanno. Vedi: er cliente se fida der capo, er capo se fida de me e...

= e te fidete de me...

= te saluto Flavie'. Però dimme ' na cosa, ce fai o ce sei?

= che?

= ne parlamo la prossima vorta, pe' oggi è mejio ritornassene a Roma.

In macchina al ritorno lui continuava a ripetermi che non era necessario dire tutto al capo e al cliente ma io, pure se dispiaciuto, riferii puntualmente come stavano le cose. A quel punto l'"affare" non andò in porto, il mio amico se la prese con me malgrado l'evidenza dei fatti e da allora non ci vedemmo più.

Alcuni anni dopo lessi su un quotidiano di Roma che era stato arrestato per una truffa e si trovava detenuto in carcere a Regina Coeli.

Doveva aver combinato quacosa di grosso perché la notizia apparisse sui giornali.

Mi venne la tentazione di andarlo a trovare ma lasciai perdere.

Si poteva riaprire una ferita della quale ancora portavamo i segni.



lunedì 18 ottobre 2010

A CASA DAI MIEI

.......in Via della Polveriera ci sono rimasto dalla nascita fino a ventisei anni – 1956 – e la ricordo fin qusi in tutti i minimi particolari. Il piccolo ingresso, l'inizio del lungo corridoio che, dopo aver costeggiato una piccola cameretta – da noi chiamato camerino -, una camera da pranzo e attraversato un altro piccolo corridoio che consentiva l'accesso alla camera da letto e al gabinetto, arrivava fino in cucina. Praticamente quest'ultima era il centro dell'universo per tutti noi. Appena si entrava sulla destra c'era, fissato nel muro, il lavello di pietra, credo in travertino - noi lo chiamavamo lavandino - di colore avana a pallini bianchi, senza sotto lavello. Subito dopo un mobile da cucina – da noi chiamato credenza – con tre sportelli inferiori, tre cassetti e tre sportelli superiori. A sinistra un lungo tavolo da sei posti con sopra una lastra di marmo bianco che nostra madre usava per preparare la pasta fatta in casa, i dolci, etc. Poi una finestra a due sportelli senza persiane e accanto il fornello a carbone che, quando entrava in funzione , noi a turno dovevamo attizzarne il fuoco con una grossa ventola munita di belle e grandi piume non so di che animale. Se non ricordo male l'erogazione del gas iniziò alla fine della seconda guerra mondiale. Sotto il tavolo era posteggiata una grossa tinozza di zinco che fungeva da vasca da bagno in quanto il gabinetto era fornito soltanto di water e lavello. Noi quattro fratelli adoperammo quella specie di vasca fino ad almeno i quindici anni dopo di che andavamo a farci una doccia da quelli che all'epoca si chiamavano alberghi diurni: da Cobianchi all'inizio di Via del Corso – allora Corso Umberto – oppure alla Casa del Passeggero vicino la Stazione Termini. Naturalmente a pagamento. In casa non c'era riscaldamento di nessun tipo fino a che un giorno nostra madre, incuriosita, domandò al proprietario – siamo stati sempre in affitto – che cosa fosse quella forma muraria dall'apparente aspetto di un caminetto collocata sulla parete a metà del lungo corridoio. Il proprietario disse di non saperne nulla, ma acconsentì, dietro richiesta di nostra madre, che se voleva poteva abbattere quella piccola parte di muro per vedere di cosa si trattava. In poche parole era un vero e proprio caminetto che funzionava benissimo e da allora anche noi avemmo la nostra casa un po' meno fredda.
Nel 1976, sei anni dopo la scomparsa di mio padre, anche nostra madre a sessantasei anni ci lasciò sia noi sia la casa. Lei già da qualche anno viveva lì da sola in quanto noi quattro fratelli avevamo tutti la nostra famiglia, ma ci vedevamo spesso.
Nostro fratello più grande tentò di andarci ad abitare, ma per tanti motivi non riuscì a vedere esaudito il suo desiderio pertanto decidemmo insieme di lasciare libera la casa da persone e cose.
Il proprietario trovò prestissimo un nuovo inquilino il quale prima di occuparlo iniziò a fare grossi lavori di restauro.
Ricordo che appena qualche giorno dopo andai a vedere se nel frattempo fosse arrivata posta per nostra madre, salii le scale, giunsi al pianerottolo, vidi la porta aperta di quella che era stata la nostra casa per oltre quarantasei anni, entrai e, vedendo un paio d'operai che stavano picconando un po' dovunque, mi vennero i brividi perchè sentii risuonarmi nelle orecchie le parole di una nota canzone romana. ...fa piano a murato' co' quer piccone, ma nun lo vedi che mamma mia sta lì...
E piansi.

giovedì 14 ottobre 2010

PARDON, DIMENTICAVO

Una breve premessa per rinnovare ancora i miei più sinceri ringraziamenti a tutti i blognauti amici per i loro graditissimi commenti.
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Nello scritto precedente, quello dove raccontavo della mia recente vicenda ospedaliera, per semplice dimenticanza, non avevo raccontato alcunché del nuovo coinquilino che era entrato a far parte, prima recalcitrante poi convinto, del gruppo dei quattro occupanti la stanza dell'Unità sub-intensiva.
La disposizione dei letti era la seguente: entrando, in fondo alla parete erano disposti tre letti. A destra l'ottantunenne recalcitrante, al centro una giovane ragazza molto carina, a sinistra io che fronteggiavo nella parete opposta una signora sui settant'anni, biondissima, capigliatura folta, di bell'aspetto.
Col procedere delle ore di quel pomeriggio di venerdi 8 ottobre le nostre lingue cominciarono a sciogliersi. Io dialogavo con l'anziana bionda di fronte a me, il recalcitrante – che chiamerò Mister B, con la giovane carina la quale, per vari motivi, era accudita 24 ore su 24 dalla propria madre.
Mi pare opportuno precisare che la privacy di noi quattro era difesa da alcuni tendaggi di plastica molto pesanti e scorrevoli in modo tale da tenere separati e ben protetti i quattro letti oppure, al contrario, far sì che la stanza fosse interamente ben visibile.
Verso le 21:00 di quello stesso venerdi entrarono nella nostra stanza due infermieri i quali, senza un motivo apparente, cambiarono di posto al letto della giovane ed a quello mio talché, dopo gli spostamenti, io passai al centro accanto a Mister B e la giovane passò a sinistra di fronte la signora bionda.
Il giorno dopo, sabato 8 ottobre, eravamo in attesa del pasto quando, a gesti e mimando alcune espressioni, sia la mamma della giovane ragazza sia la signora bionda mi fecero capire che Mister B aveva la fissa per la "jolanda", per me di antica memoria, ed era un tantino petulante. Da qui la richiesta della mamma di un cambio di postazioni.
Hai capito l'arzillo nonnetto?
Col trascorrere del tempo mi accorsi di altre pecularietà del "giovane" Mister B.
Riceveva numerose telefonate al proprio cellulare il cui squillo di chiamata risuonava nella stanzacon le prime frasi della canzone di Gianna Nannini "Meravigliosa creatura". E fin qui niente male.
Di ogni telefonata noi potevamo udire lo scambio di paroline dolci tra Mister B e la sua interlocutrice all'altro capo del...di che?...una volta c'era il filo...boh.
A volume alto teneva funzionante il viva voce per cui era come ascoltare dalla radio le battute di una commedia amorosa e sentimentale.
Conosceva il nome di tutte le giovani infermiere dell'Unità graziose o no – evidentemente doveva essere stato lì ricoverato più volte – e, non appena qualcuna di loro entrava nella nostra stanza per somministrazione di medicinali od altro, Mister B le reclamava accanto a sé per averle vicino chiedendo loro di essere considerato (?). A volte le vedeva passare attraverso il corridoio antistante la nostra stanza e allora le chiamava ad alta voce.
Le infermiere, conoscendo evidentemente il soggetto, si tenevano alla larga il più possibile.
Quando il tardo pomeriggio di lunedi 11 ottobre venni dimesso, salutai ovviamente anche Mister B e vidi la sua figura piccolina, smagrita con gli occhi luminosi e vispi.
Mi parve uno spiritello dei boschi. Simpatico però.

lunedì 11 ottobre 2010

OSPITE PER SETTE NOTTI E SETTE GIORNI

PRIMA DI OGNI COSA I MIEI PIU' CALOROSI RINGRAZIAMENTI A TUTTI I BLOGNAUTI AMICI PER I LORO "COMMENTI" AFFETTUOSI, ALLEGRI, GENEROSI, DI SOLIDARIETA', SARDONICI, SCHERZOSI, SINCERI.
Tutto iniziò lunedì 4 ottobre c.c. alle ore 23:50 mentre ero seduto davanti al mio pc-Pasquale. Sentii un dolore al petto piuttosto diffuso, non troppo intenso ma che avevo già conosciuto in altre
precedenti occasioni. Con molta cautela, bussai alla camera dell'assistente familiare di mia moglie, telefonai a mio figlio il quale s'incaricò di chiamare l'ambulanza del 118. Mezz'ora dopo entravano in camera mia sei persone: un medico con tanto di apparecchio per l'ECG portatile, un assistente, due barellieri, mia nuora e mio figlio. Dopo avermi fatto mettere sotto la lingua una pillola Carvasin
diede l'ordine di portarmi all'ospedale. Giunti al Pronto Soccorso, subito altro ECG, due prelievi con tanto di installazione sulle braccia di due ram-valvola-farfalla utili per futuri prelievi ed altri usi nonché una dozzina di elettrodi sparsi per il torace debitamente pre-depilato. Martedì 5 ottobre alle ore 3:00 a.m. mentre cercavo inutilmente di dormire sistemato com'ero in quella stretta barella, mio figlio e mia nuora mi salutarono abbracciandomi e informandomi che poco dopo gli infermieri mi avrebbero portato al Pronto Soccorso Cardiologico il che avvenne invece alle 6:30 a.m. previo mio trasferimento dalla barella del 118 che i barellieri erano venuti a reclamare, ad una barella del P.S.C.
poco più ampia ma durissima. Nella saletta di questo P.S.C. oltre a cinque pazienti nelle loro rispettive barelle erano presenti quattro infermieri: tre donne ed un uomo, oltre ad una cardiologa – brunetta, giovane, capelli neri, occhiali, di una efficienza strabiliante. Dirigeva il caotico traffico di pazienti, personale, tre telefoni e non so più che altro. Lei cercava disperatamente di sapere in quali reparti ci fossero posti disponibili. Alle 15:00 eravamo rimasti in due, io e un uomo di bell'aspetto, distinto, abbronzatisimo, poco sopra i quarant'anni. Lui ingannava il tempo telefonando con il suo cellulare malgrado l'invito a non farlo da parte della dottoressa. In più, quando notava che non c'era nessuno che l'osservava si accendeva tranquillamente qualche sigaretta. Io ne contai tre. Mezz'ora dopo l'infermiere mi disse di spogliarmi e di rimanere nudo poiché il posto per me era stato trovato presso il reparto di Cardiologia Unità Intensiva e lì si doveva stare senza vestiti ma sotto le coperte.
Mi collocarono in una stanza singola con tanto di monitor al quale mi avevavo collegato per il controllo, 24 ore su 24, di frequenza cardiaca e pressione arteriosa. Un paio di prelievi e poi un medico con un apparecchio per eseguire su di me un Ecocardiogramma che durò a lungo e fu molto accurato.Al termine la sentenza fu che avevo avuto un"infartino" e che l'indomani avrei dovuto sottopormi ad un piccolo – per lui - intervento di coronografia. Mi raccomandò di non cenare quella sera e di non fare colazione l'indomani mattina poichè sarei dovuto entrare in sala operatoria alle 8:30 a.m. Informai il medico che non avevo fatto colazione quel giorno e neppure pranzato. Meglio così, affermo lui. Mah! Mercoledi mattina 6 ottobre, alle ore 8:30 precise ero prontissimo ma trascorrevano le ore e nesuna chiamata arrivava dalla sala operatoria. Alle 15:30 debitamente sollecitati i chirurghi finalmente chiamarono e venni portato in barella da loro. All'ingresso della sala operatoria era schierato un discreto numero di infermieri, assistenti e chirughi i quali mi stavano effettuando le prime operazioni quando una di loro disse ad alta voce che si doveva sospendere il mio intervento in quanto stava per arrivare "un infarto urgente e in pericolo". Si fece ritorno all'unità intensiva in quanto il mio intervento si sarebbe sicuramente effettuato l'indomani 7 ottobre, giovedì, di primissimo mattino. Quella sera potevo cenare ma l'indomani niente colazione.
Alle 8:30 a.m.di quel 7 ottobre mi anestetizzarono localmente poichè la coronografia si esegue partendo con cateteri dall'inguine alla ricerca del by-pass che non funzionava. Osservando attraverso i monitor mi dicono che avevo avuto un "infartello". Dopo oltre un'ora, ben stretto in una specie di cintura di castità, quasi incollatami attorno il bassissimo ventre ed anche più giù, mi riportarono nella mia stanza. Alcune utili ed obbligatorie raccomandazioni mi vennero fatte: dovevo giacere con la gamba destra sempre distesa e ferma, la cintura di castità potevo farmela togliere solo l'indomani mattina e per quel giorno non potevo pranzare. Se ne sarebbe parlato la sera a cena. Verso le 22:00 per decisione di non so chi venni trasferito in una stanza dell'unità sub-intensiva, praticamente come se fossi stato premiato per il miglioramente delle mie condizioni. Appena misi piede – pardon - le ruote della barella nella mia nuova destinazione malgrado l'oscurità riuscii ad accorgermi che nella stanza di quattro letti, tolto il mio che era libero, gli altri tre erano occupati da donne. Sperai che nessun suggerimento fosse giunto dall'esterno. Dalla notte del 4 ottobre non m'era ancora riuscito di fare una dormitina e neppure di chiudere un occhio. Proprio per questo fatto mi accorsi che passata la mezzanotte una delle pazienti decise di recarsi altrove tra il pianto dei suoi due figli. Alle prime ore del mattino di venerdì 8 ottobre mi viene tolta la cintura di castità ed inizio una regolare vita ospedaliera tra prelievi, flebo, medicinali vari e conversazione con le amabili altre pazienti. Nel pomeriggio si aggiunge alla nostra comitiva un mio quasi coetaneo ottantunenne il quale fa i capricci perché non vuole stare in una stanza mista, poi si lascia convincere ed entra a far parte del nostro gruppo di chiacchieroni.
Oggi lunedì 11 ottobre il medico consulta la mia cartella clinica, mi che dice che posso uscire e che ho avuto un "infarto". Da infartino, a infartello e quindi a infarto. Mah! Dopo un'ora mi viene consegnata la relazione di dimissione, con molti suggerimenti terapeutici e una lunga lista di nuovi e vecchi medicinali.
Viene a prendermi mio figlio, saluto con abbracci e baci "le colleghe e il collega" e me ne torno a casa dal mio pc-Pasquale.

mercoledì 6 ottobre 2010

Aldo il Monticiano

Ringrazia tutti i blog-nauti amici e informa di trovarsi attualmente ospite in un ospedale il tagliando-controllo del proprio "tic- tac tic-tac".
Un salutone e a rileggersi presto.

lunedì 4 ottobre 2010

003 E' LA VOLTA BUONA ?

Mercoledì 5 marzo 2008 – ore 10,15 a.m. Per la terza volta in un anno (aprile 2007- ottobre 2007 - marzo 2008) faccio il mio ingresso all’ospedale con la richiesta di ricovero urgente prescrittami dal cardiologo. Dopo le formalità di rito per la registrazione d’entrata mi fanno accomodare in sala d’attesa mentre informano del mio arrivo il reparto dove dovrei essere ricoverato, se c’è posto . Nella sala d’attesa si trovano quattro lettighe e alcune poltroncine parzialmente occupate da alcuni pazienti che attendono. L’andirivieni è continuo, il tempo passa - e come passa - finché alle 15:00 vado da due operatori sanitari presenti in una stanza attigua e gli espongo i fatti. Loro mi assicurano che hanno già fatto quello che c’era da fare e che stanno aspettando risposte dal reparto per sapere quando si renderà disponibile un posto per me. Intanto mi fanno i primi accertamenti di rito. Non credo alle mie orecchie né alla mia vista quando in sala d’attesa fa il suo ingresso un operatore sanitario che pronuncia il mio nome e mi fa sedere in una sedia a rotelle. Sono le 16:20 p.m. Qualche minuto dopo, percorso un breve tragitto, sedia sempre sospinta dal giovane operatore, faccio il mio ingresso nello stesso reparto delle due volte precedenti. Mi si fa incontro un’operatrice sanitaria che appena mi vede, con un gran sorriso, esclama: "bentornato, bentornato". Mi assale la voglia di risponderle in malo modo ma riesco a trattenermi e, riconoscendola, le dico: "grazie, bentrovata, sempre qui?". Dopo alcuni convenevoli anche con altri operatori del reparto che si ricordano di me ed io altrettanto, entro nella camera assegnatami - la 156 - e prendo possesso del posto-letto assegnatomi - lettera B - al centro tra i due posti-letto contigui A e C. Sistemo le mie cose, mi metto il pigiama - a quadri bianco-blu, sembra una tovaglia d'osteria di campagna - ed inizia la mia “indagine” sul contenuto della stanza. Quando sono entrato nessuno dei due occupanti ha sussurrato alcunché dato che giacciono entrambi profondamente addormentati con la bocca aperta come aquilotti appena nati nell’attesa del cibo da mamma Aquila. Mi sdraio anch’io sul letto ed inizio a leggere L’eleganza del riccio di Muriel Barbery. Molto gradevole. Il mio apprezzamento è avvenuto di pari passo con la lettura. Ogni tanto scruto i miei vicini: quello alla mia destra, quasi mio coetaneo - saputo dopo dallo stesso interessato - porta in testa un buffo copricapo di lana che mi ricorda tanto il cappello dei sette nani di Biancaneve. La conferma arriva quando lui si alza e mostra il suo aspetto fisico: più basso di me - che è tutto dire - cicciottello, ventre calante e prominente. Per me lui si chiama Pisolo. Di quello alla mia sinistra riesco a scorgere soltanto il viso e allora mi torna in mente Buster Keaton - dev'essere il suo clone, famoso comico americano che non parlava né rideva mai. Da oggi in poi loro saranno per me Pisolo e Buster. Entra la dottoressa di guardia - dev'essere nuova dell’ambiente perché non l’avevo mai vista nei miei due soggiorni precedenti - e mi pone le domande rituali per la compilazione dell’anamnési. Per abbreviare la formalità le porgo la copia della mia cartella clinica relativa al mio precedente ricovero e la terapia farmacologica che sto seguendo in questo periodo. La quasi giovane dottoressa sorridendo compiaciuta si complimenta con me e mi confida che =magari fossero tutti così precisi= e pignoli aggiungo io, poi mi chiede se sono allergico a qualcosa ed io, d’impulso, =sì, ai medici=. Mi pare di scorgere il suo sorriso spegnersi lentamente. Poi mi visita, annota qualcosa sulla cartella, mi saluta e se ne va. Credo di aver detto qualcosa che non ha gradito. Appena uscita la dottoressa che in seguito vedrò molto raramente, Pisolo si alza dal letto, si siede sulla sua dura poltroncina di plastica ammorbidita da una sorta di cuscino di soffice tessuto bianco-neve a grossi pois neri. Mi viene in mente il film "La carica dei 101". Per prima cosa m’informa sull’inquilino del letto accanto al mio, il 156/C, cioè Buster. Il quadro che ne fa non è molto piacevole ma io spero, fiducioso, che la situazione sia meno fosca. Passa a parlarmi di sé, dei suoi acciacchi, della sua età e di quella del vicino - io attualmente sono il meno vecchio. Quindi mi dice che l’indomani se ne torna a casa. Beato lui. Mi sono preoccupato subito di domandargli:
=a zanzare come stiamo?=
=come mosche=
=cioè?=
=un esercito=.
Vabbe' lui è stato un militare di carriera, sempre seduto al Ministero Difesa e si può anche capire.
Alle zanzare penseremo stasera. Per fortuna ho portato da casa una batteria "antiaerea" di prodotti adatti allo scopo. Con il trascorrere delle ore e dei giorni ho avuto modo di verificare quanto spifferatomi da Pisolo su Buster. Purtroppo lui non si può alzare dal letto per seri impedimenti fisici ed è quindi costretto ad usare il campanello per chiedere aiuto a qualcuno del personale in maniera però troppo arrogante che indispettisce. Il fatto è che lo fa in continuazione anche per cose inutili e se qualcuno tarda a venire snocciola a voce alta una sfilza di bestemmie talmente forti da spaventare tutti. Poi ci aggiunge anche delle imprecazioni così pesanti da far inorridire anche il più violento dei scaricatori di porto. Buster poi adotta sempre una tattica. Dice -al vento perché nessuno gli da retta - peste e corna di tutto il personale, poi quando un’infermiera o un’operatrice sanitaria si presenta allora piagnucola, si lamenta, fa la vittima e, ringraziando a modo suo la persona che è intervenuta per aiutarlo, chiede scusa in maniera sfacciatamente ipocrita. Ogni tanto si vede sua figlia o suo genero che fanno l’indispensabile.
Giovedì 6 marzo 2008 – ore 5:00 alll’alba. A digiuno mi fanno gli esami clinici di rito:ECG, prelievi, temperatura, etc. In mattinata faccio un’altra domanda a Pisolo:
=oggi è giovedì, sai dirmi se per caso a pranzo passano gnocchi?=
=NOOO, magari. Perché?=
=perché non mi sono mai piaciuti=
Arriva mezzodì, l’ausiliaria porta i vassoi con il pranzo: primo gnocchi, secondo pollo.AIUTOOO!
Chiedo gentilmente se posso cambiare quei due piatti e ottengo una risposta positiva con l’avvertenza però che nei “rigatoni al sugo di pomodoro” e nella “fettina alla pizzaiola” c’è un po’ di sale. Non importa, mi dico, affronterò coraggiosamente qualsiasi evento, anche luttuoso. Poco dopo Pisolo ci ha salutato e ha lasciato vuoto il letto 156/A augurando buona permanenza.
Dopo circa due ore è venuta accanto a me una gentile infermiera la quale mi ha depilato accuratamente tutta la parte sinistra del petto pronta per l’intervento chirurgico fissato per l’indomani nella mattinata. Lentamente cala la sera, arriva la notte e Buster ogni tanto si sveglia e, tanto per cambiare, suona il campanello.
Venerdì 7 marzo 2008 – ore 9,00 a.m. Niente colazione oggi, è “IL GIORNO DELL’INVASIONE” -pardon dell’intervento. Dopo un po’ viene la mia personale ombra celeste - mio figlio - il quale mi segue passo passo fino alla sala operatoria dove mi ci porta in lettiga Caronte, ovvero Gaetano, il primo ferrista della sala operatoria, ormai un giovane-vecchio amico sin dal primo intervento dell’aprile 2007. Poi inizia la “fiesta” nel corso della quale si divertono tutti: i due cardio-chirurghi, l’assistente, il primo ferrista i quali continuano a scambiarsi battute piene d’ironia per tutta la durata dell’intervento che termina alle 12:10 circa. L’unico a non divertirsi sono stato io, anestetizzato solo localmente e pertanto poco disposto a partecipare se non marginalmente. Dopo che Caronte, sempre seguito dalla mia ombra-celeste, mi ha riportato in lettiga al mio letto tiro un bel respiro di sollievo. Strano, il letto 156/A è ancora libero. Non c’è stata alcuna nuova entree. L’inquilino del 156/C – Buster invece è lì che se la dorme a bocca aperta. Faccio appena in tempo ad ultimare il pensiero che fa il suo ingresso, accompagnato da moglie ed un figlio, seduto sulla solita sedia a rotelle, il “COLOSSO DI RODI”.Secondo i dati appresi col trascorrere delle ore tra me e lui spiccano le seguenti differenze: 84 anni d’età: 6 più di me, 190 cm.circa di altezza: 25 più di me, 106 Kg di peso: 40 più di me. Entriamo in confidenza abbastanza presto anche se certe volte faccio fatica a capirlo perché deve portare quasi sempre il boccaglio dell’ossigeno. Romano, lui con tutta la sua famiglia, nato nel quartiere Trionfale. Io e il Colosso abbiamo simpatizzato per tutta la durata del mio “soggiorno”. Anche se, specialmente di notte, quando gli viene voglia di cambiare posizione - capita spesso - il letto ed anche il resto trema tutto - scosse pari ad un terremoto d’intensità magnitudo 7. Lui ha sempre e soltanto due grossi desideri: dormire - anche lui a bocca aperta - e mangiare. Le giornate, lente a passare, procedono tra flebo, compresse, prelievi e cose del genere, sia per me che per Colosso del 156/A e Buster del 156/C.
Sabato 8 marzo 2008 – ore 21,00 p.m. Me ne sto seduto a leggere in attesa del sopraggiungere del sonno quando mi pare di sentire un continuo mormorìo. Mi guardo intorno per capire da dove proviene, protendo l’orecchio destro perché da quello sinistro non sento un “tubo" e resto a bocca aperta. Il mormorìo proviene dal letto 156/C occupato da Buster il quale sta recitando pater noster, avemaria e gloria patri nientepopodimenoche in LATINO. E come se non bastasse anche il rosario. Ma come, dico io, tiri giù bestemmie e moccoli giorno e notte e poi che fai ti metti a pregare?. Credi così di fare penitenza? Mah. Tanto vale non stupirci più di nulla.
Domenica 9 marzo 2008 – dall’alba al tramonto (ed anche oltre)
Lunedì 10 marzo 2008 – “ “ “
Nulla da segnalare su tutto il “fronte” se non le solite “lagne” di Buster-156/C e le “scosse telluriche” di Colosso-156/A.
Martedì 11 marzo 2008 – ore 12,30 a.m. Il 156/C-Buster viene dimesso. Nessun parente si è fatto vedere. E’ venuto a prenderlo l’autista del pulmino che trasporta i dializzati a casa propria. Accenna un saluto forzato ed esce dalla stanza sulla sedia a rotelle. Dal giorno in cui io sono entrato a quello odierno in cui Buster esce non l’ho mai visto né ridere o perloméno sorridere e neppure fare conversazione con chicchessia. Penso che si maceri dentro per le sue condizioni di salute. Appena il tempo di cambiare il letto e fare un po’ di pulizia che piomba veloce in stanza un nuovo arrivato sulla solita sedia a rotelle. Con lui ci sono moglie e figlia. Seduto in una delle poltroncine comincia a chiedere alle due donne, che nel frattempo stanno sistemando nell’armadietto numerosi suoi effetti personali,”che sono venuto a fare qui?”, ”che ore sono?”, ”quando si mangia?”. Né moglie né figlia per ora gli rispondono e lui continua "perché mi avete portato qui", "che ore sono", "quando si mangia", "di chi sono queste pantofole". La figlia Laura, grassottella, 33 anni, sposata, un figlioletto Marco di sei anni -ne siamo venuti a conoscenza subito dopo - vedendo la perplessità sui volti mio e del Colosso, mi si avvicina e mi fa =vi prego di scusare mio padre, sta in dialisi, ha il diabete e dopo quattro ischemìe cerebrali non ci sta più con la testa. E purtroppo ha perso anche la vista= E’ un comportamento educato e molto intelligente che noi abbiamo apprezzato.Mi si avvicina anche la moglie - ma perché a me?- e mi dice =a volte non si ricorda manco di noi e ripete sempre le stesse cose. Ha 74 anni ma fino a pochi anni fa stava bene. Lui è un buon napoletano, era un sarto prima di ammalarsi, ci vedeva bene una volta, adesso sembra che ci riconosce solo dalla voce. Si chiama Federico. Gli dia un’occhiata ogni tanto. Ah, ecco, è un fan di Mario Merola, delle sue canzoni, dei suoi film e delle sue sceneggiate a teatro e in TV. Conosce tutto di lui ma adesso non si ricorda più niente. Solo di nostro nipote Marco si ricorda.= Lancio uno sguardo al Colosso e allargo le braccia. Federico, cioé Merola, chiede l’orologio e le scarpe perché tra poco, lui dice, che deve andare a prendere Marco a scuola. Merola ha un fisico asciutto, piccolo di statura, capelli e sopraccigli folti candidi come neve, occhi nerissimi e attentissimi non so a che cosa perché volge lo sguardo a destra ed a manca. Prima della cena la moglie, Antonietta, settant'anni, mi ha raccontato una buona parte della loro vita. Fino a sera domande e risposte si sono ripetute varie volte: lui a chiedere i perché e le due donne a cercare di convincerlo e tranquillizzarlo. Terminato l’orario delle visite io, Colosso e Merola siamo rimasti soli ad aspettare il sonno.
Mercoledì 12 marzo 2008 – ore 1,30 (prima dell’alba) Le voci alterate di Merola e di un’infermiera del turno di notte mi svegliano di soprassalto. E’ in corso una discussione tra loro due perché lui chiede con insistenza vestiti e scarpe in quanto dice che deve andare a casa. Da parte sua lei cerca di farlo ragionare ma non c’è verso di fargli cambiare idea anzi più vanno avanti nella discussione più i loro atteggiamenti e le loro voci si alterano. Io e il Colosso stiamo a guardare ma non credo che possiamo fare nulla. Ad un certo punto l’infermiera esausta prende vestiti e scarpe di Merola e glieli mette con forza sul letto. Poi va a chiedere delucidazioni al medico di guardia. Trascorsi alcuni minuti torna con una siringa in mano e dice a Merola che gli deve fare un’iniezione. Peggio che andar di notte. Prima che tutto degeneri lui si convince in cambio della promessa che poi si potrà vestire. Quando l’infermiera se ne torna in medicheria mi alzo dal mio letto, mi avvicino e con la voce più calma e suadènte di questo mondo riesco, non so come, a calmarlo, a farlo ritornare nel suo letto, a dirgli che l’indomani sarebbe tornato da suo nipote Marco e rimetto i suoi vestiti e le sue scarpe nel suo armadietto. Manca poco che io gli sussurri una ninna nanna. Sembra però che, grazie all’iniezione, la cosa funzioni. Dopo un po’ l’infermiera, giustamente ancora incavolata, si affaccia nel piccolo ingresso della nostra stanza. Io le faccio cenno di non farsi vedere e le faccio capire di stare tranquilla. Lei si ritrae e mi guarda con un sorriso che non riesco a decifrare e che somiglia molto a quello affascinante ed enigmatico della Gioconda-Monna Lisa di Leonardo da Vinci. Avrò sbagliato? Non ho notizie al riguardo. All'ora d’inizio per l’ingresso dei parenti attendo in corridoio la moglie e la figlia di Merola e le metto al corrente della situazione invitandole a prendere provvedimenti in proposito dato che Merola dovrebbe avere vicino qualcuno 24 ore su 24, almeno secondo me. Entrambe si dichiarano completamente d’accordo e si recano a parlare con la caposala. Ottengono il permesso e la moglie decide di rimanere anche per la notte facendosi prestare una sdraia da una delle operatrici sanitarie. Quando la figlia di Merola se ne va mi abbraccia ringraziandomi! Perché? Apprendo con piacere dai cardiochirurghi in visita che l’indomani posso tornarmene a casa e seguitare per quindici giorni una potentissima cura antibiotica. Evviva! La giornata prosegue fino a tarda serata quando ad uno ad uno ci addormentiamo. Il primo è stato naturalmente Colosso seguito da Merola tranquillizzato dalla presenza della moglie, poi lei ed infine io, per ultimo, giacchè mi metto un po’a leggere. Alle 23:00 mi accorgo, aprendo gli occhi, che Merola, senza che la moglie profondamente addormentata se ne sia accorta, si è alzato dal letto e sta recandosi verso la porta per uscire. Sottovoce gli chiedo dove va e lui, volgendo lo sguardo verso un orologio che non ha, mi dice che vuole fare colazione poiché deve andare a prendere suo nipote Marco a scuola. Sveglio la moglie la quale appena si rende conto della situazione si precipita a prendersi cura del marito, lo calma, riesce a farlo ritornare a letto dopo un bel po’ di discussione.
Giovedì 13 marzo 2008 – ore 9,00 a.m. Dopo la bella nottata gli inquilini di questa stanza 156 si addormentano placidi tutti quanti. Veniamo svegliati dalle solite incombenze quotidiane. Fatte le medicazioni mi viene rilasciato il foglio di dimissioni dall’ospedale ed attendo l’arrivo della mia ombra celeste per ritornarmene a casa. La capo-sala – sempre la stessa dal 2007 - mi aveva chiesto se prima di andarmene potevo passare da lei per salutarla cosa che vado a fare ma, nel salutarmi, vedendo in lontananza uno dei cardiochirurghi gli chiede ad alta voce perché “dimette uno dei pazienti migliori sotto ogni aspetto?”. Io arrossisco e mi auguro che lo stia dicendo scherzando. Non ne sono molto lieto.Verso le 16:00 dopo aver fatto un po’ di conversazione tra me, il Colosso e la moglie di Merola mi accingo a riprendere a leggere quando mi accorgo che sul retro del segnalibro è stampata una ricetta culinaria per una zuppa di cipolle che mi fa un po’ sorridere. Chiedo ai due se gli va di conoscere tale brevissima ricetta e gliela leggo. Arrivato a metà alzo gli occhi e vedo che entrambi se la dormono placidi e tranquilli. Be' devo avere proprio una voce soporifera. Arriva mio figlio, mi aiuta a vestirmi e a riporre le mie cose nel borsone. In tutta fretta saluto quella parte del personale che riesco ad incontrare; abbraccio Colosso, Merola e la moglie. Non sono molto allegro.

venerdì 1 ottobre 2010

IL RITORNO

OTTOBRE 2007 - E venne il giorno! Proprio così. E’ venuto il giorno del mio ritorno in quel luogo ameno dove ho soggiornato dal 10 al 19 aprile e dove NON ho avuto il piacere di conoscere lo SCONOSCIUTO. Tralascio volutamente i dettagli del perché del mio ritorno. Almeno uno dei risultati che dovevo raggiungere è stato in ogni caso raggiunto Per il secondo se ne parlerà alla prossima puntata. Questa volta cinquanta ore appena sono state necessarie tra entrare ed uscire ma sono bastate per conoscere ed osservare un paio di compagni-soggiornanti. Sono certo che anche loro mi avranno osservato. Dopo oltre tre ore d’attesa tra disbrigo pratiche per l’accettazione e il reperimento di un letto disponibile faccio il mio ingresso nella stanza dove mi hanno sistemato la quale non è, ovviamente, la stessa dell’aprile scorso ma l’arredamento è identico: sempre tre posti letto, dei quali due già occupati ed il terzo, vicino la vetrata che dà sulla veranda, preceduto da un numero e quindi con la lettera C è quello assegnato a me. Come la volta precedente.
Calma piatta su tutto il fronte. E’ l’ora della pennichella post pranzo.
Nel primo letto a destra, entrando - lettera A – dorme placidamente un uomo del quale non sono distinguibili le sembianze ma soltanto il luminoso pigiama di seta, azzurro, maniche corte.
In quello centrale, sostenuto da quattro cuscini e fornito di tubicini per aerosol, ossigeno e catetere, si trova seduto un uomo piuttosto su con gli anni, assistito da un paio d’infermieri filippini e circondato da due o tre congiunti uno dei quali sembra darmi il benvenuto dicendomi “arriva la gioventù”(?).
Dopo le rituali operazioni per la mia sistemazione comincio con calma ad osservare tutto ciò che mi circonda. La veranda o meglio la terrazza a livello della stanza è davvero enorme credo più di una sessantina di metri quadrati ed è accessibile da altre quattro stanze oltre la nostra. Col trascorrere del tempo ho potuto notare con quanto piacere essa è usata da pazienti e congiunti - maggioranza femminile - soprattutto come “fumoir”.
Trascorsa un’ora “pigiama azzurro” si sveglia e si avvicina al mio letto. E’ un settantenne non molto alto, robustello, barba mefistofelica e radi capelli, entrambi grigi. M’informa che è un colonnello dei carabinieri naturalmente in pensione, che casa sua è situata ad una ventina di chilometri dall’ospedale, località di mare, che si trova lì tra noi perché ha circa 200 di pressione, circa 200 di glicemia, che ha le braccia, mostrandomele, piene di buchi e lividi giacchè per i prelievi di sangue necessari per le analisi non gli trovano mai le vene. IO NON GLI HO FATTO NEPPURE UNA MICROSCOPICA DOMANDINA. Evidentemente non vedeva l’ora di parlare con qualcuno disposto ad ascoltarlo. Durante l’intera nostra permanenza in ospedale - usciti entrambi lo stesso giorno ed alla medesima ora -, sia chiamando che ricevendo tramite il suo cellulare, ha reso partecipi anche altri, amici, conoscenti e parenti, di quello che stava passando informando tutti minuziosamente sul suo stato. A VOCE ALTA… Mah! Non ho contato quante altre volte mi ha ripetuto queste sue vicende, sempre le stesse. Evidentemente credeva di non avermene mai parlato. Prima di uscire ha fatto una chiamata, a voce alta, dicendo di essere il “colonnello tal dei tali” e che desiderava parlare con l’alto funzionario “tal dei tali”. (Se è in pensione sempre “colonnello” si presenta?). Mi è sorto un dubbio ma me lo sono tenuto. Una brava persona in fin dei conti, sempre desideroso di conversare usando un linguaggio pittoresco, in dialetto autenticamente romanesco intercalato da parole notevolmente “colorite”. In pratica come tra “compagni di camerata” dello stesso distretto militare romano.
Il soggiornante lettera B del letto di centro si è limitato a proferire pochissime parole peraltro con una flebile voce udibile soltanto da chi gli accosta l’orecchio. Ma si fa capire benissimo con i gesti.
La sera del mio primo giorno di degenza,verso le 20, sono venute a salutarmi un paio delle mie affezionate “zanzare-iena nottambule”. Munito di uno spray adatto allo scopo ho spruzzato la vetrata con un po’ di liquido protettivo. Qualche minuto dopo, al sopraggiungere di due parenti di lettera B sono stato invitato a non usare più quello spray perché il loro congiunto ne avrebbe sofferto. VA BEENE!…L’indomani mattina, rientrato dalla sala operatoria, mi sento osservato da lettera B il quale non appena si accorge che gli rivolgo il mio sguardo congiunge le mani come se volesse pregare, mi fa un cenno per mimare lo spruzzatore, scuote la testa in senso negativo facendomi capire abbastanza facilmente di evitare l’uso dello spray. Io chino la testa affermativamente, lo tranquillizzo gestualmente e lui, sempre soltanto con la testa e abbozzando un sorriso, mi ringrazia. Sembra la sequenza di un film muto. Quando cala la sera una gentile infermiera ci chiede se può provare il telecomando che ha in mano verso il televisore, disattivato, che si trova nella nostra stanza. La invito a farlo anzi le chiedo se una volta acceso lo può lasciare in funzione su Rai tre poichè io e “pigiama azzurro” vorremmo vedere un certo programma. Lei acconsente e se ne va.
Due congiunti di lettera B naturalmente informati a gesti, ci chiedono se possiamo spegnere il televisore facendoci capire che il “dominus” non gradisce il suo funzionamento. Io e “pigiama azzurro” ci guardiamo e acconsentiamo evitando, a denti stretti, qualsiasi commento. VA BEEENE!
Trascorro la seconda nottata tranquillamente anche perché le “zanzare-iena” non si sono fatte né sentire né vedere. Anche loro devono aver capito l’antifona.
Il giorno dopo, appena pranzato, io e “pigiama azzurro” ci salutiamo perché siamo in uscita, salutiamo anche lettera B e i suoi congiunti i quali cortesemente, gentilmente e sinceramente ci ringraziano per la nostra pazienza. Va bene, ne valeva la pena.
Sono riuscito, prima di andarmene, a strappare qualche informazione circa il mio vecchio SCONOSCIUTO di qualche mese prima: dopo qualche giorno dalla mia dimissione è stato trasferito in una vicina clinica convenzionata, per persone che hanno quel tipo di problema. Il nome? VILLA ARMONIA.
Giusto, aveva bisogno di trovarne un po' con se stesso.

martedì 28 settembre 2010

LO SCONOSCIUTO

APRILE 2007 - Il sesto giorno della mia degenza in ospedale ebbe inizio di notte, alle ore 1.53. Posso precisare l’ora ed i minuti con esattezza perché intravisti su quel tale aggeggio tanto in voga di questi tempi ma da me sempre ignorato: il cellulare! (Una volta era definito così il furgone che trasportava i detenuti da un carcere all’altro e, non capisco il perché, ma ci vedo un nesso).
Inizio il racconto dal “sesto giorno”… e il motivo c’è.
E’ opportuno che faccia un passo indietro per descrivere la stanza dove mi hanno “installato” il
primo giorno del mio ricovero: tre letti, tre mobiletti muniti di cassetto e sportello, tre poltroncine (di una plastica talmente dura da costringerti ad alzarti dopo neppure dieci minuti di “seduta”),tre armadietti a muro, un bagno, un’ampia vetrata che dà su una terrazza a livello di due o tre metri quadrati dalla quale ha libero accesso un “nutrito battaglione di zanzare-iena nottambule”.
Di quei tre letti il terzo a sinistra è stato da me occupato per dieci giorni esatti mentre negli altri
due si sono avvicendati ben sette “compagni-soggiornanti” (in appresso per brevità “co-so”):quattro nel primo letto a destra e tre in quello al centro (tra questi ultimi LO SCONOSCIUTO!).
Formulare critiche o giudizi sui miei amici “co-so” non mi compete né voglio farlo ma raccontare qualcosa di loro mi alletta molto.
1°GIORNO: il “co-so” occupante il letto a destra è un giovane romeno tra i 25 e i 30 anni, sposato
con una quasi coetanea sua connazionale e papà di una bella bambina. Un numero imprecisato di sorelle ed amiche, anch’esse romene, lo circondano, lo coccolano e lo coprono di attenzioni…molto
alimentari, quasi ininterrottamente. Per due notti di seguito e da nessuno disturbati, i due sposini hanno dormito beatamente e teneramente abbracciati in quel “loro” primo letto a destra cullati dal sottofondo del televisore acceso, senza soste, dalle 7 del mattino fino alle 23 inoltrate della sera (o notte?). Il proprietario del televisore in realtà è il “co-so” occupante il letto al centro il quale ha delegato il compito dello “zapping” al vicino romeno che si diverte persino con la pubblicità che imperversa sulle TV private e con l’audio discretamente elevato.
Il “co-so” del letto centrale, un omone alto 1 metro e 90, peso 125 chili, pancione da partoriente quadrigemellare, somigliante incredibilmente al famoso attore americano Ernest Borgnine, se
ne sta a letto, dormendo e russando, quasi tutto il giorno alla ricerca continua del modo migliore
per respirare più facilmente. Il medico gli ha detto che per ottenere quello che desidera è “calare
almeno di 40 chili”. Il “co-so” sghignazza e torna a dormire. Due cose mi hanno incuriosito di lui:
la prima è quella che, malgrado in letargo, appena sente la pubblicità di un gestore telefonico apre occhi e bocca e copre di insulti feroci la TV. La seconda che lui, malgrado il pancione, afferma di dormire molto meglio “a pancia sotto”. Infatti, dormendo, emette col respiro un suono talmente rumoroso che sembra spari cannonate. Ecco perché le “zanzare-iena” a lui non lo pensano proprio.
2°GIORNO: idem c.s.
3°GIORNO: il “co-so” romeno viene dimesso, ci saluta e ci informa,in un italiano stentato, che lascerà l’Italia per tornarsene in Austria dove ha numerosi parenti (non avevo dubbi) ed un lavoro.
Subito dopo anche E. Borgnine lascia la compagnia portandosi via il TV (un grazie di cuore!).
Non passa neppure un’ora che entrambi i letti vengono rioccupati: in quello a destra un ometto di circa 85 anni, piccolo, magro, occhialetti incollati sul naso (mi sembra di averglieli visti anche di notte), quasi sempre con una “coppola” sul capo,abruzzese capa-tosta, ex alpino, ex prigioniero di guerra in Polonia sotto i nazisti, “beccato” in Russia. Da qualche anno “commercialista(?) in nero”.
Possiede alcune virtù: ad ogni passaggio di ausiliarie, di infermiere e di medici non dimentica di
informarli, mattina, pomeriggio e sera, che a casa prendeva cinque pillole al mattino e sei prima di
andare a letto: il disco si è incantato! Poi, ogni quattro e cinque ore, ripete il racconto di quando in Russia è stato internato dai nazisti in un campo di concentramento: altro disco incantato.
Il letto al centro viene concesso ad un pensionato, ingegnere (laureatosi alla Facoltà d’Ingegneria vicino San Pietro in Vincoli, figlio di un abitante di Via della Polveriera per circa venti anni – però
guarda che combinazione – chissà se noi lo abbiamo conosciuto avendo lì abitato sin dal 1930),
molto ciarliero ed abbastanza cordiale, esperto di computer e di telefonini (io ne ho subito profittato).
4°GIORNO: di primo mattino, dopo il rito del giro di controllo dei medici, l’ex-alpino viene
“congedato” e il reduce…finalmente…torna a casa.
Il tempo per le ausiliarie di sistemare il letto di destra per un nuovo arrivo ed ecco che, in una sedia a rotelle, fa il suo ingresso un fresco “co-so”: alto, non troppo in forma, 75 anni, ex muratore
ora in pensione, anche lui ex alpino ma per sbaglio poiché al momento della leva era stato destinato
ai bersaglieri ma ci fu un equivoco (niente Porta Pia ma le Dolomiti). Lo accudisce, quasi dall’alba e sino al tramonto la moglie, un po’più giovane di lui, che lo ricopre di baci, carezze e parole dolci
come: amore, caro, tesoro. Non hanno potuto avere figli: questa la ragione di tante tenerezze? Tratta
il marito come un bebè e lui non ne è molto contento. Borbotta in continuazione ma cambia subito atteggiamento non appena riesce a farsi ascoltare dagli astanti raccontando innumerevoli episodi della sua vita in ciò confortato e sostenuto dalla propria moglie la quale, evidentemente, dopo 40 anni di matrimonio ha compreso benissimo il punto debole del consorte.
5°GIORNO: idem c.s.
6°GIORNO: il fatidico sesto giorno inizia con le dimissioni mattutine del “co-so” del letto di destra seguito nel pomeriggio da quello del letto di centro. Tanti saluti ed in bocca al lupo o in c… alla balena. Dal pronto soccorso portano in barella un uomo di circa 50 anni, conciato non troppo
bene con un paio di flebo e catetere attaccati al corpo ma che lui, adagiato semi-immobile nel letto di destra, non appena allontanati medico ed infermiere, se li stacca alzandosi per andare a bere al bagno in un continuo avanti e indietro per sei o sette volte.
Arriva il personale medico e…apriti cielo. A sera inoltrata la situazione lentamente si normalizza.
Potenza di certa terapia.
Mi addormento abbastanza facilmente rivolto verso il letto centrale vuoto.
All’1 e 53 apro casualmente gli occhi e noto che nel letto accanto al mio, quello di centro, dorme placidamente un “co-so”. Quando è arrivato? Come mai non me ne sono accorto?. Con l’ausilio del chiarore di una luce d’emergenza riesco a capire che si tratta di un uomo piuttosto robusto, scarsi capelli bianchissimi, senza pigiama con indosso soltanto un paio di slip leopardati. Lascio perdere l’esame e mi rimetto a dormire. Il mattino dopo, alla luce del giorno, riesco ad esaminare meglio il mio vicino di letto. E’ un distinto signore, piuttosto in carne, tratti gentili del viso, occhiali da lettura e da vista attraverso i quali guarda spesso intorno a sé. Dopo qualche minuto si alza e, a piedi scalzi, si dirige verso la porta d’ingresso della nostra stanza tornando subito al letto non appena entrano medico ed infermiera. Gli chiedono come si chiama e lui risponde che non lo sa!, poi passano all’età, allo stato civile, al luogo di nascita e di residenza ma lui continua a dire che non lo sa e non ricorda neppure il motivo per il quale si trova in ospedale. Gli spiegano che sono stati due carabinieri di pattuglia a condurlo lì e che è stato rintracciato vagante per la Via Aurelia, conciato piuttosto male, senza portafoglio, né documenti, né orologio,né altri oggetti all’infuori di due mazzi di chiavi: uno di una abitazione (ma quale?) e l’altro di due auto, una Lancia ed un’Audi e di due paia di occhiali. Gli dicono che al pronto soccorso gli sono state riscontrate due ecchimosi una in testa e l’altra alla schiena in corrispondenza del rene destro conseguenze evidenti di una caduta. Lui non riesce a ricordare il perché di quelle “botte”. Deve quindi trattenersi in ospedale per i necessari accertamenti. Lo informano che anche la P.S. si è data da fare cercando di sapere qualcosa di lui: lo hanno persino fotografato con e senza un cappello, con e senza occhiali e hanno inviato le foto alla trasmissione TV di RAI TRE “Chi l’ha visto?”…ma finora senza alcun risultato. Nessuno ha chiesto o chiede notizie di una persona che è scomparsa ormai da qualche giorno. Credendo di capire la sua voglia di parlare con qualcuno lo sollecito un po’ cercando di metterlo a suo agio ma ci blocchiamo sempre sul suo stato confusionale. Parla con un accento romano, non romanesco, ma lui insiste nel dire che non sa di dove viene né dove era diretto al momento della caduta. A volte gli sembra di ricordare di essersi fermato con la sua auto - ma quale? - ad un capolinea della Metropolitana - ma quale? La A o la B? Ed a quale capolinea? Sollecitato da medici ed infermiere a dire il proprio nome sorridendo risponde sempre che lo dirà l’indomani mattina - e questo ogni giorno almeno fino a quando sono restato io in ospedale. A volte indossa l’unico paio di calzoni con i quali è stato ricoverato: tipo jeans, moderni, di colore verde-bottiglia e così pure una bella maglietta, una camicia scozzese ed un paio di calzini che il giorno precedente la mia dimissione ha lavato da solo perché insudiciatisi nella caduta ed ha steso il tutto alla terrazza fuori la stanza L’unica nota un po’stonata, rispetto all’età dimostrata, un paio di scarpe da ginnastica di ottima marca ma di una misura che non deve essere la sua e che il primo giorno si è tolto lo sfizio di lavare accuratamente. Abbiamo stretto quasi un rapporto amichevole e conversa volentieri con me sempre senza la memoria del suo passato ma anche con la consapevolezza che vuole affrontare il presente e con il desiderio di uscire al più presto dall’ospedale. Ma per andare dove?. Non lo sa ma spera nell’aiuto delle forze dell’ordine. Qualche volta lo vedo prendere un quotidiano o una rivista lasciati dal precedente “co-so” e osservo che legge avidamente quasi sorridendo muovendo lievemente le labbra senza emettere alcun suono. Poi mi dice che sfogliando le pagine gli viene in mente qualcosa ed aggiunge, facendomi vedere una foto pubblicitaria che mostra il bellissimo volto di una giovane miss, che gli ricorda qualcuno anzi che l’ha persino conosciuta personalmente. Mah?!?!
E’ giunto il giorno delle mie temporanee dimissioni dall’ospedale sapendo già che dovrò ritornarci tra non molto. Che ne sarà dello SCONOSCIUTO? . Dopo quattro giorni dal suo arrivo nessuno si è fatto né sentire né vedere. L’augurio che gli faccio è che presto qualcuno si ricordi di lui anche se si tratta di uno SCONOSCIUTO che probabilmente vive o ama vivere da solo.
Ci salutiamo cordialmente stringendoci le mani senza sapere quali siano i nostri rispettivi nomi.

sabato 25 settembre 2010

LUI MI HA SUPERATO

Forse sarà il periodo che intercorre tra i sei e i sedici anni a far sì che noi giovanissimi abitanti a Via della Polveriera – monticiani – ne combinassimo di tutti i colori.
Aggiungiamoci anche che dal 1936 al 1946 non è stato un gran bel vivere per molti ma soprattutto per noi bambini e poi ragazzi. Il nostro sviluppo è stato un po' problematico.
Sembrava che noi si facesse una gara per vedere chi combinava più "frescacce", sia in casa con i membri della propria famiglia, sia fuori di essa.
Uno della nostra combriccola, tutti o quasi coetanei, mi ha senz'altro superato nel combinare cose diciamo particolari. E sì che io ne ho fatte di cotte e di crude, però mai come le sue.
LA PRIMA
Aveva non più di undici anni quando andò in macchina a Largo Tritone con il padre il quale appena arrivato accostò al marciapiede e si fermò perché doveva andare in un edificio poco distante per questioni di lavoro. Raccomandò al figlio di starsene buono e tranquillo tanto si sarebbe trattato di pochi minuti e poi si avviò. Dopo una ventina di minuti visto che il padre non tornava pensò bene di mettere in moto la macchina e prendere la via del ritorno. Durante il tragitto si divertì facendo salire in macchina un certo numero di suoi coetanei scorazzando per le vie intorno al Colosseo. Poi se ne tornò a casa e, suonando il clacson sotto le finestre di casa sua, fece affacciare la madre alla finestra salutandola tutto allegro e soddisfatto. Le conseguenze furono quelle facilmente immaginabili.
LA SECONDA
Un giorno questo mio amico che aveva un fratellino biondo di circa due anni, fu sorpreso dalla madre mentre, di fronte allo specchio di un armadio, si stava tagliando i capelli. Lei, molto spaventata chiese al figlio che cosa stesse facendo togliendogli nello stesso tempo le forbici dalle mani. Lui molto candidamente rispose che si stava tagliando i propri capelli castani, perché gli piaceva che ricrescessero biondi come quelli del fratellino.
LA TERZA
Questa volta si trattò di qualcosa di diverso perché coinvolse anche qualcuno di noi suoi amici tra i quali c'ero anch'io. Il padre di quel mio amico era caposquadra di un gruppo di operai della Società telefonica che si occupava della installazione di fili telefonici all'esterno degli edifici. Quando lui, il "capoccia", saliva sulla scala scorrevole per raggiungere un punto in alto e aveva bisogno di un qualsiasi attrezzo o di altro filo, si rivolgeva allo o agli operai rimasti in basso non chiamadoli a voce ma fischiando in un modo che loro solo conoscevano. In realtà lo conosceva benissimo pure il mio amico ed infatti più d'una volta, sapendo dove lavorava il padre, ci diceva di seguirlo, ci si appostava ben nascosti e quando vedeva che i lavori stavano procedendo lui fischiava quel motivetto e si assisteva ad una scena buffa dove l'operaio chiedeva al suo capo "che te serve capo' ?" e l'altro "gnente, chi t'ha chiamato", "ma come, hai fischiato proprio mò", " ahò ma che te sei 'mbriacato de prima matina". "te giuro capo'", "vabbe', lassamo perde". Anche noi c'imparammo quel fischio particolare e quando a nostra volta capitavamo nei pressi di una squadra di operai intenti a fare quel tipo di lavoro ripetevamo la stessa scenetta divertendoci un mondo. Noi. Loro no.
Il ricordo di un caro indimenticabile amico.

mercoledì 22 settembre 2010

SIGNORE E SIGNORI, ECCO A VOI...

Nel periodo che va da metà degli anni cinquanta a quella degli anni settanta io e un gruppo di amici e amiche facevamo parte di una compagnia teatrale amatoriale-dilettantistica alla quale era stato affibbiato il nome "Compagnia SDR – SDRONCICONI". Che voleva dire non l'ho mai capito ma eravamo contenti come se fosse chissà quale autorevole nome.
Ci dilettavamo nelle ore libere dal lavoro a mettere in scena commedie, spettacoli di varietà, d'arte varia etc. Facevamo tutto da noi nel senso che quando c'era da fare scenari, costumi, spezzati da palcoscenico, luci, microfoni e quant'altro necessario avevamo la fortuna di avere con noi i genitori di qualcuno della compagnia che se ne incaricava, Con noi c'erano anche un giovane che suonava benissimo la fisarmonica e una bella giovane cantante la quale, in seguito, fece pure carriera nello spettacolo in quanto diventò una soubrettina della compagnia di riviste di Erminio Macario. Una volta mi capitò di vederla co-protagonista in una trasmissione di varietà in TV.
Una quarantina d'anni fa - era un venerdì d'estate - verso le ventidue mi telefonò a casa Mario, il comico bravissimo della compagnia, padre della cara amica blogger Luz – Blog "COME IL PANE A COLAZIONE " - il quale mi disse che la domenica successiva, cioè due giorni dopo, doveva prendere parte ad uno spettacolo serale all'aperto in una località poco fuori da Roma dove erano in corso dei festeggiamenti non ricordo in onore di quale patrono.
Aggiunse che l'amico-attore che gli faceva sempre da spalla negli sketch l'aveva informato qualche minuto prima che a causa di un improvviso impedimento quella domenica lui non poteva essere presente. D'altra parte era stato preso un impegno con gli organizzatori della festa e quindi lo spettacolo "s'aveva da fare". Mi chiese allora se me la sentivo di prendere il posto del nostro comune amico e che, se potevo, il pomeriggio dell'indomani, dovevo andare a casa sua, abbastanza vicino la mia, per dare una ripassata alla scaletta del copione da portare in scena in quanto era un repertorio che anch'io conoscevo da anni. Non ebbi difficoltà a rispondere che avrei volentieri sostituito l'assente e quindi lo rassicurai dicendogli che avrei partecipato anch'io..
Il sabato pomeriggio andai da Mario il comico, il quale mi mise al corrente quali erano gli sketch che dovevamo portare in scena,.Aggiunse che avrebbero partecipato la sorella più grande di Luz, il fisarmonicista e la giovane cantante nonchè due giovani ballerine. Chissà dove le aveva incontrate in quanto non facevano parte della nostra Sdronciconi. Io, oltre che la sua "spalla" dovevo fare il presentatore. Nel soggiorno di casa di Mario si erano radunati tutti o quasi i componenti della sua famiglia per assistere alla "ripassata". Tutto andò bene poiché era un repertorio di battute che sapevamo a memoria.
Il giorno dopo, domenica, verso le diciannove ci ritrovammo tutti nel posto dove avevano montato il palcoscenico e cioé a margine di un campo di calcio senza erba, pieno di polvere. Naturalmente senza sipario, né fondale, né scenari e neppure quinte, alto dal terreno non più di un metro. Per le donne che si dovevano cambiare era stato allestito una specie di camerino di legno. La gente aveva già iniziato ad entrare nell"arena" dove c'erano solo posti in piedi. Alcune signore, previdenti, si erano portate le sedie da casa. Le due prime file della "platea" erano state occupate da un numeroso gruppo di giovanottelli i quali già da un'ora prima dell'inizio dello spettacolo avevano cominciato a rumoreggiare.
Alle 21 in punto, dopo un breve stacco musicale del fisarmonicista, entro in scena, saluto il pubblico e presento la giovanwe cantante la quale interpreta tre canzoni piuttosto conosciute a quei tempi. Quando inizia a cantare la terza coinvolge il pubblico e molti la seguono. Applausi e bis.
Poi tocca a me e a Mario per un breve siparietto tra spalla e comico.
Il terzo numero in programma prevede l'entrata in scena del fisarmonicista e delle due giovani ballerine. Appena mettono i piedi sul palco le accoglie un applauso fragoroso E se ne comprende benissimo il perché: giovani, attraenti, truccatissime, con un costumino da far strabuzzare gli occhi – meno male che era estate – non poteva che andare così. Fanno il loro numero ma il pubblico, quello maschile soprattutto, urla "bis" a più non posso tanto che le due "pupille di Tersicore" sono costrette nuovamente a danzare. Malgrado le richieste del pubblico le ragazze riescono a lasciare il palco emozionatissime e sprizzando gioia da tutti i pori.
Tocca nuovamente a me entrare in scena per presentare il numero che segue, ma a questo punto scoppia il finimondo:
= Vattene a casa; rifacce vede le ballerine; nun te volemo a te; nun ce ne frega niente dell'artri
E comincia a volare qualcosa, naturalmente dalla platea verso il palco. Io rimango fermo davanti al microfono, riesco ad evitare un paio di cose, e poi, con molta calma, chiedo per favore un po' di silenzio che riesco ad ottenere da una grossa parte del pubblico. Il problema sono le due prime file composte dai baldi giovanottelli i quali, con le braccia poggiate sul palco a pochi centimetri da me, ascoltano malvolentieri quello che dico loro e poi uno di loro, forse il più grandicello mi fa
= Ahò, a broccole', mo t'avemo fatto di' 'ste du' frescacce, s'azzittamo pure quando fate la scenetta, ma poi se nun ce rimannate le du' bambole qui succede er finimonno, se semo capiti?
Firmato l'armistizio, finite per il momento le ostilità, proseguiamo col programma: siparietto, cantante, scenetta e infine, dulcis in fundo, le ballerine tanto amate vestite – quasi – con un altro costumino piuttosto osé.
Delirio in platea, richiesta di bis a non finire finché ad un certo punto gli organizzatori decidono di far intervenire i due carabinieri presenti per l'ordine pubblico i quali, dopo molte insistenze, riescono a calmare i bollenti spiriti dei più agitati.
Ad ogni modo è stato comunque un successo. Per qualcuno almeno.