giovedì 22 novembre 2012

LIVIA CHE ASCOLTA LA TRAVIATA

Trascorsi tanti anni non sono mai riuscito a comprenderne il perché.
Dopo la nascita del nostro secondo figlio, maschio anche lui, mia moglie si trasformò totalmente, come se fosse diventata un'altra. Ci eravamo sposati da circa dodici anni, dopo cinque di fidanzamento, e avevamo vissuto quei periodi molto felicemente. Dopo tre anni dal giorno del matrimonio nacque il primo figlio, seguì il secondo dopo cinque anni, accolti entrambi con incontenibile gioia. Avevo conosciuto Livia, mia moglie, appena ventenne quando io ne avevo cinque più di lei, perché amica di una mia collega di lavoro. Posso dire con certezza che ci innamorammo a prima vista. Lei appena dopo i primi giorni di reciproca conoscenza volle mettermi al corrente del suo breve passato. Era orfana e quando nacque venne abbandonata dalla madre nella ruota di un convento a Trastevere, un Rione di Roma. Non aveva quindi fratelli o sorelle e naturalmente neppure un padre nè parenti. Era stata allevata in quel convento, poi trasferita in un orfanotrofio dal quale uscì all'età di sedici anni. Riuscì a diplomarsi a diciotto anni dopo aver frequentato una scuola serale perché durante il giorno doveva lavorare come cassiera in un bar. Tramite una inserzione su di un giornale entrò a lavorare presso uno studio di commercialisti dal quale si dimise dopo la nascita del nostro primo figlio. Il mio lavoto di gemetra-assistente edile presso un'impresa di costruzioni mi costringeva a stare lontano da casa dal mattino alle sette fino alla sera verso le diciotto, diciotto e trenta. Livia si occupava sia dei figli che della casa fin troppo bene ed anche per me aveva mille attenzioni. Insomma sembrava proprio che niente potesse venire a turbare la nostra vita. Ma non andò così perchè un giorno, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno accadde un fatto insolito. In realtà un paio di giorni prima quando rientravo a casa la trovavo semisdraiata su di un divano con lo stereo acceso e un mio vecchio disco in vinile contenente alcune delle più famose romanze dell'opera La Traviata di Giuseppe Verdi. Lei da una breve distanza guardava i nostri due figli, il più grande intento a fare i compiti e il più piccolo con i suoi giocattoli. Si alzava appena entravo e mi chiedeva cosa mi sarebbe piaciuto per cena. Il terzo o quarto giorno però la trovai alzata dal divano, con lo stereo acceso e il disco con le musiche della Traviata in funzione a volume troppo alto. Lo abbassai e, vedendola vestita con tanto di soprabito, le chiesi se doveva uscire per qualche acquisto e le dissi che sarei potuto andarci io ma lei rifiutò, mi carezzò e mi disse che ci avrebbe pensato lei. Mi disse anche che la cena era pronta e che lei avrebbe cenato al rientro. Rimasi un po' stupito da questo insolito comportamento ma non le chiesi altro. Verso le venti feci cenare i bambini, li misi a dormire e mi misi in attesa. Rientrò che erano circa le ventidue senza nulla in mano che denotasse un qualsiasi acquisto. Mi disse che era andata a fare una passeggiata. Le chiesi se era stata da qualche amica ma mi rispose che qualche volta, di pomeriggio, ci aveva provato ma quelle poche amiche che conosceva parlavano di mariti,di amiche che avevano amanti, insomma di pettegolezzi il che la disturbava molto e finì per non andarci più.
Dopo cinque giorni che aveva ripetuto questo comportamento presi una decisione. Non avendo genitori né fratelli perchè figlio unico, soltanto parenti che abitavano lontano, parlai con una vicina di casa non più giovane ma molto gentile, la misi al corrente di quella situazione e le chiesi se la sera seguente poco prima delle 18.30, qualche attimo dopo la solita uscita di casa di mia moglie, lei, la vicina, poteva farmi il favore di badare ai miei figli in modo da poter seguire Livia e rendermi conto di ciò che andava combinando fuori casa. La signora si prestò molto gentilmente ed io, la sera dopo, feci appena in tempo a scorgere Livia da lontano ed a seguirla cercando di non farmi vedere. Lei camminava a passo sicuro, non si fermò mai né a sostare davanti qualche vetrina, né entrò in un cinema od in qualsiasi altro posto e neppure si fermò a parlare con altre persone. Girò a vuoto per ore ed ore. Ripetei questa operazione per altre tre sere poi, non potendo approfittare oltre della gentilezza della mia vicina rinunciai a seguire Livia. Passarono un paio di giorni durante i quali Livia, mia moglie, non fece rientro a casa. La sera del terzo giorno presi una sua foto piuttosto recente, andai al vicino commissariato di zona e sporsi la denuncia della sua scomparsa I giorni passavano ma non ricevevo notizie finché un giovedì pomeriggio mi chiamò il commissario di P.S. dicendomi che dovevo passare in commissariato. Mi misero al corrente di quanto accaduto, mi accompagnarono alla camera mortuaria per il riconoscimento di un corpo di donna che era stato ritrovato nel Tevere, il fiume di Roma e, più precisamente, ad uno dei lati dell'Isola Tiberina. Non ci volle molto per riconoscere la mia Livia distesa su di un lettino. Chiesi spiegazioni e mi misero al corrente sia dei risultati delle indagini effettuate sia di quelli dell'autopsia. Non avevano trovato tracce di alcool o di droga, si era suicidata gettandosi nel fiume.
Un colpo tremendo per me che non sono riuscito più ad assorbire. Feci passare un bel po' di tempo prima di dire ai nostri figli che la loro mamma non sarebbe più tornata ad ascoltare La Traviata.

lunedì 19 novembre 2012

IO CE L'HO CON GIOVE PLUVIO

Vorrei spiegare il perché se ci riesco.
Ho letto da qualche parte, non ricordo dove, che lui è il dio dell’acqua, del fiume, del mare e della pioggia dalla quale derivano appunto il suo nome Giove e il suo cognome Pluvio.
Il mio disaccordo con lui nasce dal fatto che non rispetta mai le previsioni meteo dei mass-media che sono fatte sia sulla carta stampata, sia in TV ed anche sul pc. Questo significa mancare di rispetto a chi si prodiga per fornire notizie certe o quasi ai cittadini. E che diamine, un po’ di serietà perbacco. Quando è previsto bel tempo così ha da essere. Anche per il contrario, naturalmente.
Io abito a Roma, vicino le coste tirreniche – circa 25-30 km – e quando desidero conoscere cosa prevede il tempo per l’odierna giornata o per l’indomani m’informo leggendo o vedendo TV e pc.
Più di una volta mi è capitato di sapere che per il giorno successivo, nell’Italia centrale, quindi comprese le famose coste tirreniche, il tempo previsto variava dal parzialmente al molto nuvoloso, da leggera pioggia a temporale, dal maremoto allo tsunami per arrivare al diluvio universale. Unica assente giustificata la nebbia in Val Padana. Lo ribadisco, la colpa non è dei meteorologi. Affermo convinto che Giove Pluvio l’ha con me, giacché qui non si tratta della nuvoletta fantozziana, c’è ben altro. Per quello che ricordo fin dalla più mia tenera età lui è stato molto dispettoso. A riprova di ciò basta citare soltanto alcuni esempi.
Quando piove a dirotto, io non esco da casa. Ovviamente lo posso fare dato che lo “stipendio” mi arriva dall’INPS il quale mi restituisce i contributi da me versati durante la mia vita lavorativa.
Con la pioggerellina provo ad uscire, lo faccio portandomi regolarmente l’ombrello, ma fatti pochi passi Giove Pluvio decide di allontanarsi portandosi appresso la nuvolaglia. Continuo a camminare con l’inutile ombrello che mi penzola dalle braccia mentre nel cielo lindo splende un sole africano.
Non sto qui a contare le numerosissime volte che questo è accaduto. A Roma e non solo circola una specie di motto: “cielo a pecorelle, acqua a catinelle”. Allora guardo il cielo, lo vedo a pecorelle e mi aspetto il seguito, ma sembra che nel Rione dove io circolo le pecorelle si siano allontanate per andare a cercare qualcosa in altri rioni o quartieri di questa città. Succede infatti che mentre dalle mie parti non piove, a qualche chilometro di distanza le catinelle decidono di liberarsi dell’acqua in esse contenuta e la scaricano giù in terra. Qualche mese fa, sono dovuto uscire da casa per un impegno improrogabile. Le previsioni della sera prima avvisavano pioggia in arrivo e bassa temperatura. Verso la 11.00 a.m. di pioggia neppure l’ombra e assenza della stessa giacché mi trovavo all’aperto in una zona senza alcun riparo di qualsiasi genere e con un bel sole primaverile. Naturalmente più trascorreva il tempo e più mi toglievo indumenti di dosso.
Ma quello che mi è capitato l'altro giorno ha dell’incredibile. Dalla sera prima un furioso temporale aveva allagato tutti i rioni e i quartieri dell’intera città incluso il circondario agricolo. Vento, trombe d’aria, lampi, saette, tuoni come cannonate, caduta d’alberi, insomma Giove Pluvio stava proprio incavolato nero. Fatti suoi, ma purtroppo anche nostri. Tutto ciò fino alle 9.00 a.m del giorno dopo. Pian pianino l’infuriare si stava placando ed era rimasta soltanto una pioggerella tipo quelle d’aprile mentre invece siamo a novembre. Aspetto ancora un po’, mentre guardo dalla finestra mi viene in mente una canzoncina del secolo scorso “le gocce cadono ma che fa se ci bagniamo un po’” per quanto le medesime sono piccole e quindi decido di uscire con tanto d’ombrello per sicurezza. Scendo appena due rampe di scale, sorpasso l’androne, apro l’ombrello ed esco dal portone e neanche una microscopica goccia d’acqua cade più. Avanti e indietro camminano passanti, ombrelli debitamente chiusi io, invece, con l’ombrello che non intende richiudersi – si tratta di uno di quelli corti a scatto e sfido chiunque a riuscirci – m’incammino verso non ricordo più dove giacché ad ogni passo alzo gli occhi e impreco contro Giove Pluvio e la sua combriccola.

giovedì 15 novembre 2012

DAVANTI AD UNA PAGINA BIANCA

Anche se non è di carta ma è quella dello schermo del mio pc-Pasquale la situazione non cambia.
Il fatto è che m'ero svegliato questa mattina alle 6 in punto con qualche ideuccia nella testa, poi col trascorrere dei secondi, dei minuti e delle ore tutto svanito nel nulla.
Ed è inutile che mi sprema le meningi, che faccia riti propiziatori o che mi metta a pregare Iddio, Allah, Budda o altri loro pari, il risultato è zero.
Che faccio dunque?
Eccola la soluzione del problema, il lampo di genio degno di un perfetto rimbecillito.
Mi scrivo una lettera!

Ciao Aldo, vorrei farti presente con queste poche righe che quello che c'è stato tra noi, molto poco in verità, sarebbe meglio metterlo nel dimenticatoio anche perché sono trascorsi più di quarant'anni da quel pomeriggio che passammo insieme passeggiando e baciandoci in cima alla ruota di quel Luna Park il cui proprietario, visto che eravamo solo noi due , fermò lassù in alto per una buona mezz'ora.
Lo so che lo facemmo con trasporto e ce ne accorgemmo entrambi che in quei pochi minuti eravamo estasiati da quella situazione ma, purtroppo, da esseri umani ragionevoli, ci siamo resi conto col passare dei giorni, che non potevamo andare oltre quei baci così appassionati.
Inoltre eravamo entrambi convinti che non potevamo mai avere una relazione per tanti, troppi motivi.
Ti chiederai allora perché mai mi faccio viva dopo tutto questo tempo. C'è una ragione. Da nonna quale sono diventata, come credo lo sia anche tu, questo episodio della mia vita improvvisamente si è rifatto vivo e per di più piacevolmente.
Però ti prego, anche se tu sarai di parere contrario, non prendere sul serio questa mia lettera,anzi
leggila e distruggila.
Non cercarmi, anche se abito sempre dove tu sai, sarebbe una mossa sbagliata.
Contentiamoci entrambi del pensiero se e quando dovesse riaffacciarsi.
I miei figli e mio marito che hai conosciuto stanno bene come credo e spero anche tuo figlio e tua moglie.
Non ti saluto come tanti anni fa e non mi firmo tanto tu lo sai chi sono.

Ho letto e riletto e, a pensarci bene, non potevo scrivermi una lettera diversa e più piacevole al contrario di questa così amara? Chi me lo avrebbe impedito?
Invece ho preferito scrivermi la verità.
È inutile, sono sempre il solito e d'altra parte a questa età che vuoi cambiare.

lunedì 12 novembre 2012

TRE SALSICCE CHE NON RICORDO DI AVER DIGERITO

Ed ecco il perché.
Probabilmente avrò già scarabocchiato qualcosa riguardo questo ricordo ma da ieri mi è tornato prepotentemente nella capoccia per cui me ne devo liberare prima possibile e quindi lo faccio.
Era un sabato del mese di giugno del 1975. io non avevo compiuto ancora 45 anni e, di ritorno a casa con mia moglie – eravamo andati al cinema non rammento per quale film – mi accorgo che stavo per perdermi il telegiornale serale che all'epoca cercavo di vedere sempre. Adesso non me ne può fregare di meno.
Anziché sedere a tavola per cenare, riconosco di essere stato maleducato, chiesi a mia moglie se per favore poteva darmi un piatto con tre salsicce al sugo e un mezzo panino che mi divorai davanti al televisore. Mangiavo, vedevo il TG e ascoltavo quello che veniva detto dai vari giornalisti e dagli intervistati di turno.
Terminato di mangiare mi sdraiai sul divano di fronte al televisore per vedere un programma qualsiasi ma dopo neppure un'ora iniziai a percepire strani dolori al braccio sinistro e al torace. Chiamai mia moglie, la informai su quello che stavo provando e le chiesi di accompagnarmi in camera da letto perché il dolore stava aumentando di minuto in minuto. Telefonai al 118, cercai di spiegare quello che stava succedendo e la guardia medica che era di servizio mi disse di non muovermi assolutamente, di fare soltanto alcuni movimenti - non ricordo bene quali fossero - e mi disse che sarebbe arrivato subito per portarmi al vicino ospedale. Chiamai telefonicamente anche mio figlio, allora sedicenne, e lo informai dell'accaduto.
Lui, che quella sera stava studiando in casa di un amico, arrivò appensa in tempo per vedermi nel mentre mi infilavano nell'ambulanza steso su una barella portata da due infermieri. Il medico a bordo mi dette un'occhiata, mi chiese come stavano le cose e quindi disse all'autista di andare subito al Pronto Soccorso. Lì giunti un medico mi visitò all'istante.
Per pura combinazione quella sera era di turno un cardiologo che tra l'altro era a capo dell'equipe del reparto in cui venni in seguito ricoverato. In attesa del primo letto disponibile mi misero in uno provvisorio, se non sbaglio mi venne fatta un'iniezione e mi venne somministrata qualche pillola . Avevano fatto entrare mia moglie e mio figlio che io vidi appena poiché credo di aver perso conoscenza. Soltanto dopo tre giorni, verso mezzanotte, riuscii a svegliarmi, circondato da medici e da paramedici i quali mi scuotevano domandandomi come stavo. Certo bene non proprio ma comunque ero vivo. Dopo circa un'ora permisero a mio figlio di entrare – era stato sempre nel corridoio fuori al reparto. Lì ci rimasi trenta giorni esatti sempre senza potermi alzare dal letto – ordine dei medici – e ricevendo una terapia a base di flebo e delizie del genere.
In seguito mia moglie mi raccontò che il cardiologo che mi aveva visitato al pronto soccorso le
aveva chiesto di quale lavoro mi occupavo e quando lei rispose che facevo l'impiegato privato in uno studio notarile lui disse "adesso capisco perché gli è venuto un infarto al miocardio". Mah! Che avrà voluto dire non lo so. Comunque quello fu il primo dei quattro infarti che sono venuti a farmi visita fino all'ultimo che risale al 4 ottobre 2010.
Tornando al titolo di questo scritto mi sono chiesto e continuo a chiedermi se quella sera avevo fatto in tempo a digerire quelle tre salsicce al sugo.

lunedì 5 novembre 2012

LISA DAGLI OCCHI BLU

Era ed è il titolo di una vecchia canzonetta degli anni 70 che a quell'epoca era molto in voga sia alla radio che in TV.
Il titolo di questa canzone fece tornare in mente a Piero un ricordo di molti anni prima.
Lui ne aveva circa 52 di anni e, durante un lontano mese di luglio, gli capitò un'occasione che non poteva lasciarsii sfuggire.
Il marito di una sua nipote aveva parcheggiato una roulotte di sua proprietà in un campeggio un poco prima di Grosseto, molto vicino ad una bella spiaggia del Mar Tirreno. Il nipote acquisito ci andava con sua moglie tutti gli anni per trascorrervi l'intera estate e, quando il tempo lo permetteva, i fine settimana dei periodi autunno-invernali. Quel lontano mese di luglio però avevano deciso di visitare la Francia e quindi chiesero a Piero se voleva andarci lui a trascorrervi un periodo di villeggiatura cosa che non faceva da anni. Accettò di buon grado dato che, per vari motivi, sarebbe rimasto solo a Roma per quasi tutta l'estate.
La roulotte, attrezzatisima all'interno, aveva sul davanti una sorta di veranda di tela-mare che si poteva aprire e chiudere comodamente con l'ausilio di una lunga chiusura lampo. Davanti una piccola aiuola e, ai bordi di questa, due basse siepi di mortella, a destra e a sinistra che la distanziavano dalle roulotte confinanti. Per l'accesso a tutte le roulotte si percorreva una stradina non asfaltata che serviva per la circolazione di soli pedoni e che collegava i vari servizi del campeggio,piscina, bar-tavola calda con rivendita di giornali, ampio locale bagni e docce comuni.
I vicini di roulotte di Piero erano a sinistra una coppia di turisti tedeschi piuttosto anziani e a destra una giovane donna di età tra i 35 e i 40 anni che si comportava in un modo abbastanza singolare. La sera verso le venti si dileguava, forse in giro per il campeggio, e si ritirava molto ma molto tardi. Piero invece quando c'era qualcosa di interessante, si metteva dentro la veranda chiusa, sdraiato comodamente per vedere qualcosa su una piccola televisione portatile in bianco e nero, oppure a letto a leggere un libro. La mattina si alzava presto, faceva colazione in roulotte, andava ad acquistare un quotidiano e poi si metteva comodo in una sedia a sdraio nell'aiuola antistante e si dava alla lettura. Non andava al mare ma qualche volta si recava alla piscina del campeggio per dare solo un'occhiata in giro poiché non aveva mai saputo nuotare.
Una mattina, mancavano una decina di giorni alla fine della sua permanenza nel campeggio, erano appena le sette quando, contrariamente al solito, vide la sua giovane vicina che, su una sedia a sdraio, guardava verso il cielo e fumava una sigaretta. Si salutarono così come avevano fatto nei giorni precedenti ma in un orario molto diverso e scambiarono quattro chiacchiere anche stando seduti. Incuriosito molto Piero educatamente le chiese se andava tutto bene e lei rispose che aveva trascorso la notte in bianco senza riuscire a dormire. Le chiese inoltre se aveva fatto colazione e
poiché gli rispose che non l'aveva ancora fatta, le disse se gradiva prendere un cappuccino che le avrebbe preparato e lei accettò dicendo che sarebbe venuta a prepararselo. E così fece. Durante la colazione gli raccontò alcune cose sue personali e che non era sposata ma conviveva con un suo collega di lavoro a Firenze, sua città natale e di residenza. Conversando così piacevolmente non si accorsero che si stava avvicinando quasi l'ora di pranzo e Piero si chiese come erano volate quelle ore senza che entrambi se ne fossero accorti. Decisero di andare insieme al bar-tavola calda, poi mangiarono qualcosa, non molto per la verità, e neppure bevvero alcoolici essendo entrambi astemi.
Nel rientrare alla roulotte lei gli disse che la sua di roulotte l'aveva lasciata completamente sottosopra e gli chiese se poteva riposarsi lì da lui. Piero le rispose che non c'erano problemi. Si presero un caffé che funzionò come una droga dato che scambiandosi soltanto uno sguardo il programma non andò come s'era detto e... non riposarono. Per il restante periodo del loro soggiorno in quel campeggio, altre quattro o cinque volte...non riposarono.
Ciò che Piero ricordava benissimo di lei erano le sue labbra piene, con il labbro superiore che era arcuato perfettamente. Altro non gli era rimasto impresso nella memoria almeno così gli sembrava.
Il nome della giovane donna era Lisa ma...non aveva gli occhi blu.