domenica 31 ottobre 2010

SCUSI LEI BALLA?

Ho capito che non sarei mai stato capace di ballare sin da quando, sedicenne o poco più, facevo parte di una comitiva di ragazze e ragazzi della mia età che, quasi ogni domenica pomeriggio, si riuniva in casa di qualcuno di noi per fare quattro salti - non in padella anche se per me lo era. Infatti cadevo nella "brace" quando tentavo di muovere i piedi al suono di qualsiasi ritmo musicale sia lento sia veloce. Ero di legno. Credo di aver pestato più piedi io che chissà chi. Nessuno riusciva a battermi in questo primato.
Un bel giorno, anzi una bella domenica, visto che non riuscivo a fare un passo di danza neppure sotto tortura, la comitiva decise all'unamità, io astenuto, che il mio compito in quei pomeriggi danzanti fosse quello di mettere e togliere sul grammofono i dischi a 78 giri de "La Voce del Padrone". Se non ricordo male forse un giradischi di quelli che funzionava con la manovella.
All'età di circa diciannove anni la mia ragazza, che sapeva ballare, decise di insegnarmi pena le "dimissioni". Un pomeriggio, complici anche le sue datrici di lavoro, venni invitato a casa loro attigua al laboratorio di sartoria dove appunto lei lavorava , ci chiudemmo in una stanza e lì venni iniziato al ballo.
Il fatto è che sì riuscii ad imparare qualche passo di danza ma soltanto al suono di quella famosa canzone che credo si chiamasse "Beguine to beguine". Non ho mai capito se era un tango, una rumba o qualsiasi altro ritmo. Provarono persino a farmi ballare al suono di un valzer magari lento ma non ci fu verso che io riuscissi a muovermi. Ero negato totalmente.
Dopo un paio d'ore di "Beguine", stremati, decidemmo per quel giorno di smettere.
Col trascorrere degli anni ci furono altri tentativi, la maggior parte andati a vuoto, ma ormai s'era capito che era inutile cercare di farmi imparare a ballare.
Avevo compiuto cinquantacinque anni, ancora lo ricordo, e un mio amico che festeggiava il suo di compleanno, m'invitò a casa sua. Era un sabato pomeriggio d'autunno e il suo appartamento, veramente grande e piuttosto di lusso, pullulava di persone d'ambo i sessi sia nostri coetanei sia qualcuno anche più anziano. La maggior parte erano donne.
Ad un certo punto ci fu chi mise in funzione uno stereo ad alto volume e parecchi degli invitati si gettarono nel vortice delle danze. Io, prudentemente, mi sedetti su di una poltrona e cominciai ad ammirarli. Qualche minuto dopo si avvicinò una signora, di almeno cinque o sei anni più grande di me, la quale mi disse
= Scusi lei balla?
= Ehm... veramente io...le confesso che non so ballare
= Ma questo che sta ascoltando è un tango ed è facile da ballare
= La ringrazio ma non farei altro che pestarle i piedi
= Non si preoccupi, venga, la porto io
= Dove?
= Qui, a ballare, venga su, si faccia coraggio
= Non c'è una Beguine, mi sentirei più sicuro?
= Poi la cercheremo, adesso prenda il mio braccio e mi segua.
Dopo quel giorno la seguii anche altre volte.

mercoledì 27 ottobre 2010

CASO A COSE

Prima di parlare di cose cui sto facendo caso da un po’ di tempo, capitano molto spesso davanti la vista cose alle quali, magari involontariamente ci si fa più caso.
Credo di aver incasinato l’inizio .
A questo proposito mi torna in mente una breve e innocente barzelletta che l’indimenticabile Aldo Fabrizi amava raccontare. Prima in teatro, quando faceva avanspettacolo, poi al cinema e quindi in TV. A me sembra di ricordarla così: “Ahò…ci avete fatto caso che quanno annate ar cesso pe’ lavavve le mano, pjate ‘na saponetta, ve insaponate ma ve casca guasi sempre ner lavannino?…Quanno la riccojete ce trovate sempre un capello appiccicato…però si ve casca un capello cor cavolo che ce trovate appiccicata ‘na saponetta.”
Io ad esempio, quando tutte le mattine o quasi, prima passeggio per circa un’ora, poi vado al mercato a comprare qualcosa, o viceversa a seconda della temperatura, nel rientrare a casa mi accorgo che cammino con la stessa andatura e faccio le stesse mosse di un mio caro amico, più anziano di me, reduce dalla seconda guerra mondiale che non ha alcun impedimento fisico nella deambulazione.
Quindi niente a che vedere con il proverbio “chi pratica lo zoppo impara a zoppicare”.
Per di più non facciamo lo stesso percorso né si conciliano i nostri orari, lui esce da casa all’alba io invece un poco più tardi e, pur abitando a poca distanza l’uno dall’altro, c’incontriamo raramente, almeno in strada.
Come si spiega?
Da dove nasce questa sorta di emulazione?
Ho cercato di darmi una spiegazione e sono arrivato ad una semplice conclusione: è l’età, cari noi due, 88 anni lui e 80 io.
E’ perfettamente naturale che noi si viaggi a scartamento ridotto e un po’ penzolanti.
Altre cose a cui faccio caso - ricomincio? - sono gli abbigliamenti delle persone che incrocio per le strade del rione.
Per esempio quelli di noi maschietti-vecchiottii - incluso anch’io - che alla nostra veneranda età andiamo in giro con: scarpe da basket, blue-jeans da cowboy, camiciola ampia - adatta a nascondere la pancia abbondante, come la mia tanto per non fare nomi - cappello da baseball.
Così d’estate. Quando fa più fresco cambia poco, salvo l’aggiunta di un giubbotto dal colore indecifrabile imbottito da non so cosa che ti fa sembrare l’uomo michelin.
Io ricordo che, a qualunque età, direi a cominciare dalla nascita, non si usciva da casa se non con tanto di giacca, cravatta, pantaloni, scarpe normali, tutto o quasi della stessa tonalità e poi con i capelli luminescenti - brillantina oppure olio di cucina.
Incontro spesso un signore, anziano, che in una qualsiasi delle quattro stagioni - credo siano rimaste lo stesso numero soltanto quelle musicate da Antonio Vivaldi - indossa questo completo: scarpe lucidissime, pantaloni, camicia, cravatta, giacca con tanto di fazzoletto nel taschino, il tutto dai colori intonatissimi, senza mai il cappello. E sì che non ha capelli.
Ovviamente esamino anche fanciulle, ragazze e signore anche di una certa età.
Di loro faccio caso ad ogni cosa - non è ora di smetterla?- specialmente quando, indossando blue-jeans o micro-gonne a vita molto bassa espongono all’aria aperta anche indumenti particolarmente sfiziosi oltre alle loro parti inferiori del corpo comprese tra il torace e il bacino. Molte indossano pantaloncini microscopici.
Ognuno è libero di abbigliarsi come meglio crede.
Soltanto un suggerimento a chi fa parte dell’altra metà del cielo: per le più giovani se debordano maniglie dell’amore e quant’altro è meglio che non seguano la moda; per le attempate ci andrei un pochino più cauto.
Perché a questo punto mi viene in mente la favola della volpe che non potendo arrivare all'uva troppo in alto diceva che era acerba?

domenica 24 ottobre 2010

IL TAVOLO DEI LAVORI

Ieri 23 ottobre 2010 si sono finalmente riunite, quasi al completo, le parti interessate all'accordo
sul programma.
L'intesa è stata raggiunta all'unanimità dopo vari contatti sia telefonici sia tramite posta elettronica.
Anche l'oculata scelta della sede dell'incontro ha avuto il plauso degli intervenuti i quali, al termine della riunione di lavoro, iniziata alle 13:30 e terminata alle 16:30, hanno lasciato la sede medesima visibilmente soddisfatti.
Quattordici le personalità presenti.
Uno, io, in qualità di:
padre
suocero
nonno
fratello, quale rappresentante degli altri tre assenti
cognato
zio
il più vecchiotto
il più acciaccato.
mio figlio
sua moglie
due loro figlie
due cognate
sette nipoti, maschi e femmine, dei quali due venuti da Vienna.
Questo lo svolgimento dei lavori sul tavolo rettangolare:
primo, a scelta, spaghetti alla pescatora o spaghetti alla gricia;
secondo, sempre a scelta, spigola gamberoni e mazzancolle il tutto alla griglia o abbacchio pollo e maialino arrosto;
contorni, ancora a scelta, patate al forno o finocchi e carote crude a cazzimpero;
frutta, dolce, caffé e ammazzacaffé.
Naturalmente c'è stato chi ha voluto approfondire più degli altri gli argomenti all'ordine del giorno da lui maggiormente graditi ma, terminata la riunione, tutti si sono scambiate reciproche congratulazioni per il conseguimento dello scopo prefissato.

giovedì 21 ottobre 2010

LA VERA STORIA DER VARECCHINARO

Avevo dimenticato Flavio però mi tornò in mente quando un comune amico mi informò della sua scomparsa. Lui era appunto un "varecchinaro" il quale, tanti anni fa, vendeva la varechina - oggi candeggina - che a quei tempi era contenuta in fiaschi e fornita a casa di chi voleva servirsene.

Questo mio amico recentemente scomparso, più giovane di me di qualche anno, abitava con i genitori ed un fratello più grande, al piano mezzanino del fabbricato dove abitavo anch'io, in Via della Polveriera. Aveva una passione per il calcio, tifosissimo di una delle due squadre della Capitale, ma anche una gran voglia di studiare.

La sua famiglia non poteva permettergli gli studi ed allora per pagarseli lui faceva appunto "er varecchinaro". Caricava cioè una certa quantità di fiaschi di varechina in una sorta di riksciò al contrario nel senso cioè che la ruota per pedalare il " triciclo" era quella posteriore e poi andava in giro per il nostro Rione Monti e quelli confinanti. Una grande faticaccia tutti i pomeriggi di tutti i giorni feriali. Al mattino invece frequentava la scuola.

Si diplomò al liceo classico con ottimi voti, poi all'Università dove si laureò in giurisprudenza con 110 e lode sempre senza far pesare sulla propria famiglia l'onere delle spese necessarie per gli scopi da lui raggiunti.

All'inizio degli anni sessanta diventò avvocato civilista occupandosi inoltre di compravendite immobiliari.

Non c'incontravamo spesso perché entrambi impegnati ma quando succedeva allora stavamo volentieri insieme a raccontarci qualcosa delle nostre rispettive attività e famiglie.

Lui non aveva nessuna voglia di sposarsi e di mettere su famiglia, aveva altro per la testa.

Sul finire degli anni sessanta un importante e facoltoso cliente dello studio professionale dove ero impiegato doveva procedere all'acquisto di una villa situata in una località marina distante da Roma una cinquantina di chilometri. Prima di dare un acconto e firmare una scrittura privata il cliente dello studio chiese al mio capo di fare un accertamento all'ufficio competente per quella zona al fine di accertare se sull'immobile gravasse o meno qualche impedimento che ne impedise la libera disponibilità e la sua libertà da oneri, pesi o vincoli di qualsiasi tipo. Una richiesta logica.

Il proprietario dell'immobile oggetto della compravendita era rappresentato con regolare mandato proprio dal mio caro amico "er varecchinaro".

Per quest'operazione di compravendita d'immobile venni incaricato dal mio capo di andare ad eseguire l'accertamento di cui sopra presso un Ufficio pubblico poco distante da Roma. Il mio amico non più varecchinaro ma avvocato mi disse che mi avrebbe accompagnato lui, venendomi a prelevare a casa l'indomani mattina del giorno fissato per l'accertamento. Ed infatti puntualmente alle sette del mattino mi citofonò a casa e tutti allegri partimmo alla volta di quell'Ufficio. Lì giunti mi feci consegnare dall'impiegato addetto i registri che m'interessavano e purtroppo notai che sulla villa gravava un provvedimento di una certa importanza che ne impediva la vendita. Il mio amico avvocato ex varecchinaro che era accanto a me disse

= vabbe' Aldi' nun te preoccupa' ce penso io a sistema' la quistione

= a Flavie' qui nun ce sta solo da sistema' abbisogna cancella' quela rogna prima de firma' quarsiasi scrittura privata

= e perché?

= come perché, sei pure avvocato e ce lo sai er perché

= ma si tte dico che poi ce penso io

= poi quanno, l'anno der mai?

= no, io prenno la capara confirmatoria in conto prezzo, porto li sordi a chi ha messo 'sta rogna der cacchio e quello pjia e cancella

= no Flavie', nun funziona così, io ar capo io da di' le cose come stanno. Vedi: er cliente se fida der capo, er capo se fida de me e...

= e te fidete de me...

= te saluto Flavie'. Però dimme ' na cosa, ce fai o ce sei?

= che?

= ne parlamo la prossima vorta, pe' oggi è mejio ritornassene a Roma.

In macchina al ritorno lui continuava a ripetermi che non era necessario dire tutto al capo e al cliente ma io, pure se dispiaciuto, riferii puntualmente come stavano le cose. A quel punto l'"affare" non andò in porto, il mio amico se la prese con me malgrado l'evidenza dei fatti e da allora non ci vedemmo più.

Alcuni anni dopo lessi su un quotidiano di Roma che era stato arrestato per una truffa e si trovava detenuto in carcere a Regina Coeli.

Doveva aver combinato quacosa di grosso perché la notizia apparisse sui giornali.

Mi venne la tentazione di andarlo a trovare ma lasciai perdere.

Si poteva riaprire una ferita della quale ancora portavamo i segni.



lunedì 18 ottobre 2010

A CASA DAI MIEI

.......in Via della Polveriera ci sono rimasto dalla nascita fino a ventisei anni – 1956 – e la ricordo fin qusi in tutti i minimi particolari. Il piccolo ingresso, l'inizio del lungo corridoio che, dopo aver costeggiato una piccola cameretta – da noi chiamato camerino -, una camera da pranzo e attraversato un altro piccolo corridoio che consentiva l'accesso alla camera da letto e al gabinetto, arrivava fino in cucina. Praticamente quest'ultima era il centro dell'universo per tutti noi. Appena si entrava sulla destra c'era, fissato nel muro, il lavello di pietra, credo in travertino - noi lo chiamavamo lavandino - di colore avana a pallini bianchi, senza sotto lavello. Subito dopo un mobile da cucina – da noi chiamato credenza – con tre sportelli inferiori, tre cassetti e tre sportelli superiori. A sinistra un lungo tavolo da sei posti con sopra una lastra di marmo bianco che nostra madre usava per preparare la pasta fatta in casa, i dolci, etc. Poi una finestra a due sportelli senza persiane e accanto il fornello a carbone che, quando entrava in funzione , noi a turno dovevamo attizzarne il fuoco con una grossa ventola munita di belle e grandi piume non so di che animale. Se non ricordo male l'erogazione del gas iniziò alla fine della seconda guerra mondiale. Sotto il tavolo era posteggiata una grossa tinozza di zinco che fungeva da vasca da bagno in quanto il gabinetto era fornito soltanto di water e lavello. Noi quattro fratelli adoperammo quella specie di vasca fino ad almeno i quindici anni dopo di che andavamo a farci una doccia da quelli che all'epoca si chiamavano alberghi diurni: da Cobianchi all'inizio di Via del Corso – allora Corso Umberto – oppure alla Casa del Passeggero vicino la Stazione Termini. Naturalmente a pagamento. In casa non c'era riscaldamento di nessun tipo fino a che un giorno nostra madre, incuriosita, domandò al proprietario – siamo stati sempre in affitto – che cosa fosse quella forma muraria dall'apparente aspetto di un caminetto collocata sulla parete a metà del lungo corridoio. Il proprietario disse di non saperne nulla, ma acconsentì, dietro richiesta di nostra madre, che se voleva poteva abbattere quella piccola parte di muro per vedere di cosa si trattava. In poche parole era un vero e proprio caminetto che funzionava benissimo e da allora anche noi avemmo la nostra casa un po' meno fredda.
Nel 1976, sei anni dopo la scomparsa di mio padre, anche nostra madre a sessantasei anni ci lasciò sia noi sia la casa. Lei già da qualche anno viveva lì da sola in quanto noi quattro fratelli avevamo tutti la nostra famiglia, ma ci vedevamo spesso.
Nostro fratello più grande tentò di andarci ad abitare, ma per tanti motivi non riuscì a vedere esaudito il suo desiderio pertanto decidemmo insieme di lasciare libera la casa da persone e cose.
Il proprietario trovò prestissimo un nuovo inquilino il quale prima di occuparlo iniziò a fare grossi lavori di restauro.
Ricordo che appena qualche giorno dopo andai a vedere se nel frattempo fosse arrivata posta per nostra madre, salii le scale, giunsi al pianerottolo, vidi la porta aperta di quella che era stata la nostra casa per oltre quarantasei anni, entrai e, vedendo un paio d'operai che stavano picconando un po' dovunque, mi vennero i brividi perchè sentii risuonarmi nelle orecchie le parole di una nota canzone romana. ...fa piano a murato' co' quer piccone, ma nun lo vedi che mamma mia sta lì...
E piansi.

giovedì 14 ottobre 2010

PARDON, DIMENTICAVO

Una breve premessa per rinnovare ancora i miei più sinceri ringraziamenti a tutti i blognauti amici per i loro graditissimi commenti.
*******
Nello scritto precedente, quello dove raccontavo della mia recente vicenda ospedaliera, per semplice dimenticanza, non avevo raccontato alcunché del nuovo coinquilino che era entrato a far parte, prima recalcitrante poi convinto, del gruppo dei quattro occupanti la stanza dell'Unità sub-intensiva.
La disposizione dei letti era la seguente: entrando, in fondo alla parete erano disposti tre letti. A destra l'ottantunenne recalcitrante, al centro una giovane ragazza molto carina, a sinistra io che fronteggiavo nella parete opposta una signora sui settant'anni, biondissima, capigliatura folta, di bell'aspetto.
Col procedere delle ore di quel pomeriggio di venerdi 8 ottobre le nostre lingue cominciarono a sciogliersi. Io dialogavo con l'anziana bionda di fronte a me, il recalcitrante – che chiamerò Mister B, con la giovane carina la quale, per vari motivi, era accudita 24 ore su 24 dalla propria madre.
Mi pare opportuno precisare che la privacy di noi quattro era difesa da alcuni tendaggi di plastica molto pesanti e scorrevoli in modo tale da tenere separati e ben protetti i quattro letti oppure, al contrario, far sì che la stanza fosse interamente ben visibile.
Verso le 21:00 di quello stesso venerdi entrarono nella nostra stanza due infermieri i quali, senza un motivo apparente, cambiarono di posto al letto della giovane ed a quello mio talché, dopo gli spostamenti, io passai al centro accanto a Mister B e la giovane passò a sinistra di fronte la signora bionda.
Il giorno dopo, sabato 8 ottobre, eravamo in attesa del pasto quando, a gesti e mimando alcune espressioni, sia la mamma della giovane ragazza sia la signora bionda mi fecero capire che Mister B aveva la fissa per la "jolanda", per me di antica memoria, ed era un tantino petulante. Da qui la richiesta della mamma di un cambio di postazioni.
Hai capito l'arzillo nonnetto?
Col trascorrere del tempo mi accorsi di altre pecularietà del "giovane" Mister B.
Riceveva numerose telefonate al proprio cellulare il cui squillo di chiamata risuonava nella stanzacon le prime frasi della canzone di Gianna Nannini "Meravigliosa creatura". E fin qui niente male.
Di ogni telefonata noi potevamo udire lo scambio di paroline dolci tra Mister B e la sua interlocutrice all'altro capo del...di che?...una volta c'era il filo...boh.
A volume alto teneva funzionante il viva voce per cui era come ascoltare dalla radio le battute di una commedia amorosa e sentimentale.
Conosceva il nome di tutte le giovani infermiere dell'Unità graziose o no – evidentemente doveva essere stato lì ricoverato più volte – e, non appena qualcuna di loro entrava nella nostra stanza per somministrazione di medicinali od altro, Mister B le reclamava accanto a sé per averle vicino chiedendo loro di essere considerato (?). A volte le vedeva passare attraverso il corridoio antistante la nostra stanza e allora le chiamava ad alta voce.
Le infermiere, conoscendo evidentemente il soggetto, si tenevano alla larga il più possibile.
Quando il tardo pomeriggio di lunedi 11 ottobre venni dimesso, salutai ovviamente anche Mister B e vidi la sua figura piccolina, smagrita con gli occhi luminosi e vispi.
Mi parve uno spiritello dei boschi. Simpatico però.

lunedì 11 ottobre 2010

OSPITE PER SETTE NOTTI E SETTE GIORNI

PRIMA DI OGNI COSA I MIEI PIU' CALOROSI RINGRAZIAMENTI A TUTTI I BLOGNAUTI AMICI PER I LORO "COMMENTI" AFFETTUOSI, ALLEGRI, GENEROSI, DI SOLIDARIETA', SARDONICI, SCHERZOSI, SINCERI.
Tutto iniziò lunedì 4 ottobre c.c. alle ore 23:50 mentre ero seduto davanti al mio pc-Pasquale. Sentii un dolore al petto piuttosto diffuso, non troppo intenso ma che avevo già conosciuto in altre
precedenti occasioni. Con molta cautela, bussai alla camera dell'assistente familiare di mia moglie, telefonai a mio figlio il quale s'incaricò di chiamare l'ambulanza del 118. Mezz'ora dopo entravano in camera mia sei persone: un medico con tanto di apparecchio per l'ECG portatile, un assistente, due barellieri, mia nuora e mio figlio. Dopo avermi fatto mettere sotto la lingua una pillola Carvasin
diede l'ordine di portarmi all'ospedale. Giunti al Pronto Soccorso, subito altro ECG, due prelievi con tanto di installazione sulle braccia di due ram-valvola-farfalla utili per futuri prelievi ed altri usi nonché una dozzina di elettrodi sparsi per il torace debitamente pre-depilato. Martedì 5 ottobre alle ore 3:00 a.m. mentre cercavo inutilmente di dormire sistemato com'ero in quella stretta barella, mio figlio e mia nuora mi salutarono abbracciandomi e informandomi che poco dopo gli infermieri mi avrebbero portato al Pronto Soccorso Cardiologico il che avvenne invece alle 6:30 a.m. previo mio trasferimento dalla barella del 118 che i barellieri erano venuti a reclamare, ad una barella del P.S.C.
poco più ampia ma durissima. Nella saletta di questo P.S.C. oltre a cinque pazienti nelle loro rispettive barelle erano presenti quattro infermieri: tre donne ed un uomo, oltre ad una cardiologa – brunetta, giovane, capelli neri, occhiali, di una efficienza strabiliante. Dirigeva il caotico traffico di pazienti, personale, tre telefoni e non so più che altro. Lei cercava disperatamente di sapere in quali reparti ci fossero posti disponibili. Alle 15:00 eravamo rimasti in due, io e un uomo di bell'aspetto, distinto, abbronzatisimo, poco sopra i quarant'anni. Lui ingannava il tempo telefonando con il suo cellulare malgrado l'invito a non farlo da parte della dottoressa. In più, quando notava che non c'era nessuno che l'osservava si accendeva tranquillamente qualche sigaretta. Io ne contai tre. Mezz'ora dopo l'infermiere mi disse di spogliarmi e di rimanere nudo poiché il posto per me era stato trovato presso il reparto di Cardiologia Unità Intensiva e lì si doveva stare senza vestiti ma sotto le coperte.
Mi collocarono in una stanza singola con tanto di monitor al quale mi avevavo collegato per il controllo, 24 ore su 24, di frequenza cardiaca e pressione arteriosa. Un paio di prelievi e poi un medico con un apparecchio per eseguire su di me un Ecocardiogramma che durò a lungo e fu molto accurato.Al termine la sentenza fu che avevo avuto un"infartino" e che l'indomani avrei dovuto sottopormi ad un piccolo – per lui - intervento di coronografia. Mi raccomandò di non cenare quella sera e di non fare colazione l'indomani mattina poichè sarei dovuto entrare in sala operatoria alle 8:30 a.m. Informai il medico che non avevo fatto colazione quel giorno e neppure pranzato. Meglio così, affermo lui. Mah! Mercoledi mattina 6 ottobre, alle ore 8:30 precise ero prontissimo ma trascorrevano le ore e nesuna chiamata arrivava dalla sala operatoria. Alle 15:30 debitamente sollecitati i chirurghi finalmente chiamarono e venni portato in barella da loro. All'ingresso della sala operatoria era schierato un discreto numero di infermieri, assistenti e chirughi i quali mi stavano effettuando le prime operazioni quando una di loro disse ad alta voce che si doveva sospendere il mio intervento in quanto stava per arrivare "un infarto urgente e in pericolo". Si fece ritorno all'unità intensiva in quanto il mio intervento si sarebbe sicuramente effettuato l'indomani 7 ottobre, giovedì, di primissimo mattino. Quella sera potevo cenare ma l'indomani niente colazione.
Alle 8:30 a.m.di quel 7 ottobre mi anestetizzarono localmente poichè la coronografia si esegue partendo con cateteri dall'inguine alla ricerca del by-pass che non funzionava. Osservando attraverso i monitor mi dicono che avevo avuto un "infartello". Dopo oltre un'ora, ben stretto in una specie di cintura di castità, quasi incollatami attorno il bassissimo ventre ed anche più giù, mi riportarono nella mia stanza. Alcune utili ed obbligatorie raccomandazioni mi vennero fatte: dovevo giacere con la gamba destra sempre distesa e ferma, la cintura di castità potevo farmela togliere solo l'indomani mattina e per quel giorno non potevo pranzare. Se ne sarebbe parlato la sera a cena. Verso le 22:00 per decisione di non so chi venni trasferito in una stanza dell'unità sub-intensiva, praticamente come se fossi stato premiato per il miglioramente delle mie condizioni. Appena misi piede – pardon - le ruote della barella nella mia nuova destinazione malgrado l'oscurità riuscii ad accorgermi che nella stanza di quattro letti, tolto il mio che era libero, gli altri tre erano occupati da donne. Sperai che nessun suggerimento fosse giunto dall'esterno. Dalla notte del 4 ottobre non m'era ancora riuscito di fare una dormitina e neppure di chiudere un occhio. Proprio per questo fatto mi accorsi che passata la mezzanotte una delle pazienti decise di recarsi altrove tra il pianto dei suoi due figli. Alle prime ore del mattino di venerdì 8 ottobre mi viene tolta la cintura di castità ed inizio una regolare vita ospedaliera tra prelievi, flebo, medicinali vari e conversazione con le amabili altre pazienti. Nel pomeriggio si aggiunge alla nostra comitiva un mio quasi coetaneo ottantunenne il quale fa i capricci perché non vuole stare in una stanza mista, poi si lascia convincere ed entra a far parte del nostro gruppo di chiacchieroni.
Oggi lunedì 11 ottobre il medico consulta la mia cartella clinica, mi che dice che posso uscire e che ho avuto un "infarto". Da infartino, a infartello e quindi a infarto. Mah! Dopo un'ora mi viene consegnata la relazione di dimissione, con molti suggerimenti terapeutici e una lunga lista di nuovi e vecchi medicinali.
Viene a prendermi mio figlio, saluto con abbracci e baci "le colleghe e il collega" e me ne torno a casa dal mio pc-Pasquale.

mercoledì 6 ottobre 2010

Aldo il Monticiano

Ringrazia tutti i blog-nauti amici e informa di trovarsi attualmente ospite in un ospedale il tagliando-controllo del proprio "tic- tac tic-tac".
Un salutone e a rileggersi presto.

lunedì 4 ottobre 2010

003 E' LA VOLTA BUONA ?

Mercoledì 5 marzo 2008 – ore 10,15 a.m. Per la terza volta in un anno (aprile 2007- ottobre 2007 - marzo 2008) faccio il mio ingresso all’ospedale con la richiesta di ricovero urgente prescrittami dal cardiologo. Dopo le formalità di rito per la registrazione d’entrata mi fanno accomodare in sala d’attesa mentre informano del mio arrivo il reparto dove dovrei essere ricoverato, se c’è posto . Nella sala d’attesa si trovano quattro lettighe e alcune poltroncine parzialmente occupate da alcuni pazienti che attendono. L’andirivieni è continuo, il tempo passa - e come passa - finché alle 15:00 vado da due operatori sanitari presenti in una stanza attigua e gli espongo i fatti. Loro mi assicurano che hanno già fatto quello che c’era da fare e che stanno aspettando risposte dal reparto per sapere quando si renderà disponibile un posto per me. Intanto mi fanno i primi accertamenti di rito. Non credo alle mie orecchie né alla mia vista quando in sala d’attesa fa il suo ingresso un operatore sanitario che pronuncia il mio nome e mi fa sedere in una sedia a rotelle. Sono le 16:20 p.m. Qualche minuto dopo, percorso un breve tragitto, sedia sempre sospinta dal giovane operatore, faccio il mio ingresso nello stesso reparto delle due volte precedenti. Mi si fa incontro un’operatrice sanitaria che appena mi vede, con un gran sorriso, esclama: "bentornato, bentornato". Mi assale la voglia di risponderle in malo modo ma riesco a trattenermi e, riconoscendola, le dico: "grazie, bentrovata, sempre qui?". Dopo alcuni convenevoli anche con altri operatori del reparto che si ricordano di me ed io altrettanto, entro nella camera assegnatami - la 156 - e prendo possesso del posto-letto assegnatomi - lettera B - al centro tra i due posti-letto contigui A e C. Sistemo le mie cose, mi metto il pigiama - a quadri bianco-blu, sembra una tovaglia d'osteria di campagna - ed inizia la mia “indagine” sul contenuto della stanza. Quando sono entrato nessuno dei due occupanti ha sussurrato alcunché dato che giacciono entrambi profondamente addormentati con la bocca aperta come aquilotti appena nati nell’attesa del cibo da mamma Aquila. Mi sdraio anch’io sul letto ed inizio a leggere L’eleganza del riccio di Muriel Barbery. Molto gradevole. Il mio apprezzamento è avvenuto di pari passo con la lettura. Ogni tanto scruto i miei vicini: quello alla mia destra, quasi mio coetaneo - saputo dopo dallo stesso interessato - porta in testa un buffo copricapo di lana che mi ricorda tanto il cappello dei sette nani di Biancaneve. La conferma arriva quando lui si alza e mostra il suo aspetto fisico: più basso di me - che è tutto dire - cicciottello, ventre calante e prominente. Per me lui si chiama Pisolo. Di quello alla mia sinistra riesco a scorgere soltanto il viso e allora mi torna in mente Buster Keaton - dev'essere il suo clone, famoso comico americano che non parlava né rideva mai. Da oggi in poi loro saranno per me Pisolo e Buster. Entra la dottoressa di guardia - dev'essere nuova dell’ambiente perché non l’avevo mai vista nei miei due soggiorni precedenti - e mi pone le domande rituali per la compilazione dell’anamnési. Per abbreviare la formalità le porgo la copia della mia cartella clinica relativa al mio precedente ricovero e la terapia farmacologica che sto seguendo in questo periodo. La quasi giovane dottoressa sorridendo compiaciuta si complimenta con me e mi confida che =magari fossero tutti così precisi= e pignoli aggiungo io, poi mi chiede se sono allergico a qualcosa ed io, d’impulso, =sì, ai medici=. Mi pare di scorgere il suo sorriso spegnersi lentamente. Poi mi visita, annota qualcosa sulla cartella, mi saluta e se ne va. Credo di aver detto qualcosa che non ha gradito. Appena uscita la dottoressa che in seguito vedrò molto raramente, Pisolo si alza dal letto, si siede sulla sua dura poltroncina di plastica ammorbidita da una sorta di cuscino di soffice tessuto bianco-neve a grossi pois neri. Mi viene in mente il film "La carica dei 101". Per prima cosa m’informa sull’inquilino del letto accanto al mio, il 156/C, cioè Buster. Il quadro che ne fa non è molto piacevole ma io spero, fiducioso, che la situazione sia meno fosca. Passa a parlarmi di sé, dei suoi acciacchi, della sua età e di quella del vicino - io attualmente sono il meno vecchio. Quindi mi dice che l’indomani se ne torna a casa. Beato lui. Mi sono preoccupato subito di domandargli:
=a zanzare come stiamo?=
=come mosche=
=cioè?=
=un esercito=.
Vabbe' lui è stato un militare di carriera, sempre seduto al Ministero Difesa e si può anche capire.
Alle zanzare penseremo stasera. Per fortuna ho portato da casa una batteria "antiaerea" di prodotti adatti allo scopo. Con il trascorrere delle ore e dei giorni ho avuto modo di verificare quanto spifferatomi da Pisolo su Buster. Purtroppo lui non si può alzare dal letto per seri impedimenti fisici ed è quindi costretto ad usare il campanello per chiedere aiuto a qualcuno del personale in maniera però troppo arrogante che indispettisce. Il fatto è che lo fa in continuazione anche per cose inutili e se qualcuno tarda a venire snocciola a voce alta una sfilza di bestemmie talmente forti da spaventare tutti. Poi ci aggiunge anche delle imprecazioni così pesanti da far inorridire anche il più violento dei scaricatori di porto. Buster poi adotta sempre una tattica. Dice -al vento perché nessuno gli da retta - peste e corna di tutto il personale, poi quando un’infermiera o un’operatrice sanitaria si presenta allora piagnucola, si lamenta, fa la vittima e, ringraziando a modo suo la persona che è intervenuta per aiutarlo, chiede scusa in maniera sfacciatamente ipocrita. Ogni tanto si vede sua figlia o suo genero che fanno l’indispensabile.
Giovedì 6 marzo 2008 – ore 5:00 alll’alba. A digiuno mi fanno gli esami clinici di rito:ECG, prelievi, temperatura, etc. In mattinata faccio un’altra domanda a Pisolo:
=oggi è giovedì, sai dirmi se per caso a pranzo passano gnocchi?=
=NOOO, magari. Perché?=
=perché non mi sono mai piaciuti=
Arriva mezzodì, l’ausiliaria porta i vassoi con il pranzo: primo gnocchi, secondo pollo.AIUTOOO!
Chiedo gentilmente se posso cambiare quei due piatti e ottengo una risposta positiva con l’avvertenza però che nei “rigatoni al sugo di pomodoro” e nella “fettina alla pizzaiola” c’è un po’ di sale. Non importa, mi dico, affronterò coraggiosamente qualsiasi evento, anche luttuoso. Poco dopo Pisolo ci ha salutato e ha lasciato vuoto il letto 156/A augurando buona permanenza.
Dopo circa due ore è venuta accanto a me una gentile infermiera la quale mi ha depilato accuratamente tutta la parte sinistra del petto pronta per l’intervento chirurgico fissato per l’indomani nella mattinata. Lentamente cala la sera, arriva la notte e Buster ogni tanto si sveglia e, tanto per cambiare, suona il campanello.
Venerdì 7 marzo 2008 – ore 9,00 a.m. Niente colazione oggi, è “IL GIORNO DELL’INVASIONE” -pardon dell’intervento. Dopo un po’ viene la mia personale ombra celeste - mio figlio - il quale mi segue passo passo fino alla sala operatoria dove mi ci porta in lettiga Caronte, ovvero Gaetano, il primo ferrista della sala operatoria, ormai un giovane-vecchio amico sin dal primo intervento dell’aprile 2007. Poi inizia la “fiesta” nel corso della quale si divertono tutti: i due cardio-chirurghi, l’assistente, il primo ferrista i quali continuano a scambiarsi battute piene d’ironia per tutta la durata dell’intervento che termina alle 12:10 circa. L’unico a non divertirsi sono stato io, anestetizzato solo localmente e pertanto poco disposto a partecipare se non marginalmente. Dopo che Caronte, sempre seguito dalla mia ombra-celeste, mi ha riportato in lettiga al mio letto tiro un bel respiro di sollievo. Strano, il letto 156/A è ancora libero. Non c’è stata alcuna nuova entree. L’inquilino del 156/C – Buster invece è lì che se la dorme a bocca aperta. Faccio appena in tempo ad ultimare il pensiero che fa il suo ingresso, accompagnato da moglie ed un figlio, seduto sulla solita sedia a rotelle, il “COLOSSO DI RODI”.Secondo i dati appresi col trascorrere delle ore tra me e lui spiccano le seguenti differenze: 84 anni d’età: 6 più di me, 190 cm.circa di altezza: 25 più di me, 106 Kg di peso: 40 più di me. Entriamo in confidenza abbastanza presto anche se certe volte faccio fatica a capirlo perché deve portare quasi sempre il boccaglio dell’ossigeno. Romano, lui con tutta la sua famiglia, nato nel quartiere Trionfale. Io e il Colosso abbiamo simpatizzato per tutta la durata del mio “soggiorno”. Anche se, specialmente di notte, quando gli viene voglia di cambiare posizione - capita spesso - il letto ed anche il resto trema tutto - scosse pari ad un terremoto d’intensità magnitudo 7. Lui ha sempre e soltanto due grossi desideri: dormire - anche lui a bocca aperta - e mangiare. Le giornate, lente a passare, procedono tra flebo, compresse, prelievi e cose del genere, sia per me che per Colosso del 156/A e Buster del 156/C.
Sabato 8 marzo 2008 – ore 21,00 p.m. Me ne sto seduto a leggere in attesa del sopraggiungere del sonno quando mi pare di sentire un continuo mormorìo. Mi guardo intorno per capire da dove proviene, protendo l’orecchio destro perché da quello sinistro non sento un “tubo" e resto a bocca aperta. Il mormorìo proviene dal letto 156/C occupato da Buster il quale sta recitando pater noster, avemaria e gloria patri nientepopodimenoche in LATINO. E come se non bastasse anche il rosario. Ma come, dico io, tiri giù bestemmie e moccoli giorno e notte e poi che fai ti metti a pregare?. Credi così di fare penitenza? Mah. Tanto vale non stupirci più di nulla.
Domenica 9 marzo 2008 – dall’alba al tramonto (ed anche oltre)
Lunedì 10 marzo 2008 – “ “ “
Nulla da segnalare su tutto il “fronte” se non le solite “lagne” di Buster-156/C e le “scosse telluriche” di Colosso-156/A.
Martedì 11 marzo 2008 – ore 12,30 a.m. Il 156/C-Buster viene dimesso. Nessun parente si è fatto vedere. E’ venuto a prenderlo l’autista del pulmino che trasporta i dializzati a casa propria. Accenna un saluto forzato ed esce dalla stanza sulla sedia a rotelle. Dal giorno in cui io sono entrato a quello odierno in cui Buster esce non l’ho mai visto né ridere o perloméno sorridere e neppure fare conversazione con chicchessia. Penso che si maceri dentro per le sue condizioni di salute. Appena il tempo di cambiare il letto e fare un po’ di pulizia che piomba veloce in stanza un nuovo arrivato sulla solita sedia a rotelle. Con lui ci sono moglie e figlia. Seduto in una delle poltroncine comincia a chiedere alle due donne, che nel frattempo stanno sistemando nell’armadietto numerosi suoi effetti personali,”che sono venuto a fare qui?”, ”che ore sono?”, ”quando si mangia?”. Né moglie né figlia per ora gli rispondono e lui continua "perché mi avete portato qui", "che ore sono", "quando si mangia", "di chi sono queste pantofole". La figlia Laura, grassottella, 33 anni, sposata, un figlioletto Marco di sei anni -ne siamo venuti a conoscenza subito dopo - vedendo la perplessità sui volti mio e del Colosso, mi si avvicina e mi fa =vi prego di scusare mio padre, sta in dialisi, ha il diabete e dopo quattro ischemìe cerebrali non ci sta più con la testa. E purtroppo ha perso anche la vista= E’ un comportamento educato e molto intelligente che noi abbiamo apprezzato.Mi si avvicina anche la moglie - ma perché a me?- e mi dice =a volte non si ricorda manco di noi e ripete sempre le stesse cose. Ha 74 anni ma fino a pochi anni fa stava bene. Lui è un buon napoletano, era un sarto prima di ammalarsi, ci vedeva bene una volta, adesso sembra che ci riconosce solo dalla voce. Si chiama Federico. Gli dia un’occhiata ogni tanto. Ah, ecco, è un fan di Mario Merola, delle sue canzoni, dei suoi film e delle sue sceneggiate a teatro e in TV. Conosce tutto di lui ma adesso non si ricorda più niente. Solo di nostro nipote Marco si ricorda.= Lancio uno sguardo al Colosso e allargo le braccia. Federico, cioé Merola, chiede l’orologio e le scarpe perché tra poco, lui dice, che deve andare a prendere Marco a scuola. Merola ha un fisico asciutto, piccolo di statura, capelli e sopraccigli folti candidi come neve, occhi nerissimi e attentissimi non so a che cosa perché volge lo sguardo a destra ed a manca. Prima della cena la moglie, Antonietta, settant'anni, mi ha raccontato una buona parte della loro vita. Fino a sera domande e risposte si sono ripetute varie volte: lui a chiedere i perché e le due donne a cercare di convincerlo e tranquillizzarlo. Terminato l’orario delle visite io, Colosso e Merola siamo rimasti soli ad aspettare il sonno.
Mercoledì 12 marzo 2008 – ore 1,30 (prima dell’alba) Le voci alterate di Merola e di un’infermiera del turno di notte mi svegliano di soprassalto. E’ in corso una discussione tra loro due perché lui chiede con insistenza vestiti e scarpe in quanto dice che deve andare a casa. Da parte sua lei cerca di farlo ragionare ma non c’è verso di fargli cambiare idea anzi più vanno avanti nella discussione più i loro atteggiamenti e le loro voci si alterano. Io e il Colosso stiamo a guardare ma non credo che possiamo fare nulla. Ad un certo punto l’infermiera esausta prende vestiti e scarpe di Merola e glieli mette con forza sul letto. Poi va a chiedere delucidazioni al medico di guardia. Trascorsi alcuni minuti torna con una siringa in mano e dice a Merola che gli deve fare un’iniezione. Peggio che andar di notte. Prima che tutto degeneri lui si convince in cambio della promessa che poi si potrà vestire. Quando l’infermiera se ne torna in medicheria mi alzo dal mio letto, mi avvicino e con la voce più calma e suadènte di questo mondo riesco, non so come, a calmarlo, a farlo ritornare nel suo letto, a dirgli che l’indomani sarebbe tornato da suo nipote Marco e rimetto i suoi vestiti e le sue scarpe nel suo armadietto. Manca poco che io gli sussurri una ninna nanna. Sembra però che, grazie all’iniezione, la cosa funzioni. Dopo un po’ l’infermiera, giustamente ancora incavolata, si affaccia nel piccolo ingresso della nostra stanza. Io le faccio cenno di non farsi vedere e le faccio capire di stare tranquilla. Lei si ritrae e mi guarda con un sorriso che non riesco a decifrare e che somiglia molto a quello affascinante ed enigmatico della Gioconda-Monna Lisa di Leonardo da Vinci. Avrò sbagliato? Non ho notizie al riguardo. All'ora d’inizio per l’ingresso dei parenti attendo in corridoio la moglie e la figlia di Merola e le metto al corrente della situazione invitandole a prendere provvedimenti in proposito dato che Merola dovrebbe avere vicino qualcuno 24 ore su 24, almeno secondo me. Entrambe si dichiarano completamente d’accordo e si recano a parlare con la caposala. Ottengono il permesso e la moglie decide di rimanere anche per la notte facendosi prestare una sdraia da una delle operatrici sanitarie. Quando la figlia di Merola se ne va mi abbraccia ringraziandomi! Perché? Apprendo con piacere dai cardiochirurghi in visita che l’indomani posso tornarmene a casa e seguitare per quindici giorni una potentissima cura antibiotica. Evviva! La giornata prosegue fino a tarda serata quando ad uno ad uno ci addormentiamo. Il primo è stato naturalmente Colosso seguito da Merola tranquillizzato dalla presenza della moglie, poi lei ed infine io, per ultimo, giacchè mi metto un po’a leggere. Alle 23:00 mi accorgo, aprendo gli occhi, che Merola, senza che la moglie profondamente addormentata se ne sia accorta, si è alzato dal letto e sta recandosi verso la porta per uscire. Sottovoce gli chiedo dove va e lui, volgendo lo sguardo verso un orologio che non ha, mi dice che vuole fare colazione poiché deve andare a prendere suo nipote Marco a scuola. Sveglio la moglie la quale appena si rende conto della situazione si precipita a prendersi cura del marito, lo calma, riesce a farlo ritornare a letto dopo un bel po’ di discussione.
Giovedì 13 marzo 2008 – ore 9,00 a.m. Dopo la bella nottata gli inquilini di questa stanza 156 si addormentano placidi tutti quanti. Veniamo svegliati dalle solite incombenze quotidiane. Fatte le medicazioni mi viene rilasciato il foglio di dimissioni dall’ospedale ed attendo l’arrivo della mia ombra celeste per ritornarmene a casa. La capo-sala – sempre la stessa dal 2007 - mi aveva chiesto se prima di andarmene potevo passare da lei per salutarla cosa che vado a fare ma, nel salutarmi, vedendo in lontananza uno dei cardiochirurghi gli chiede ad alta voce perché “dimette uno dei pazienti migliori sotto ogni aspetto?”. Io arrossisco e mi auguro che lo stia dicendo scherzando. Non ne sono molto lieto.Verso le 16:00 dopo aver fatto un po’ di conversazione tra me, il Colosso e la moglie di Merola mi accingo a riprendere a leggere quando mi accorgo che sul retro del segnalibro è stampata una ricetta culinaria per una zuppa di cipolle che mi fa un po’ sorridere. Chiedo ai due se gli va di conoscere tale brevissima ricetta e gliela leggo. Arrivato a metà alzo gli occhi e vedo che entrambi se la dormono placidi e tranquilli. Be' devo avere proprio una voce soporifera. Arriva mio figlio, mi aiuta a vestirmi e a riporre le mie cose nel borsone. In tutta fretta saluto quella parte del personale che riesco ad incontrare; abbraccio Colosso, Merola e la moglie. Non sono molto allegro.

venerdì 1 ottobre 2010

IL RITORNO

OTTOBRE 2007 - E venne il giorno! Proprio così. E’ venuto il giorno del mio ritorno in quel luogo ameno dove ho soggiornato dal 10 al 19 aprile e dove NON ho avuto il piacere di conoscere lo SCONOSCIUTO. Tralascio volutamente i dettagli del perché del mio ritorno. Almeno uno dei risultati che dovevo raggiungere è stato in ogni caso raggiunto Per il secondo se ne parlerà alla prossima puntata. Questa volta cinquanta ore appena sono state necessarie tra entrare ed uscire ma sono bastate per conoscere ed osservare un paio di compagni-soggiornanti. Sono certo che anche loro mi avranno osservato. Dopo oltre tre ore d’attesa tra disbrigo pratiche per l’accettazione e il reperimento di un letto disponibile faccio il mio ingresso nella stanza dove mi hanno sistemato la quale non è, ovviamente, la stessa dell’aprile scorso ma l’arredamento è identico: sempre tre posti letto, dei quali due già occupati ed il terzo, vicino la vetrata che dà sulla veranda, preceduto da un numero e quindi con la lettera C è quello assegnato a me. Come la volta precedente.
Calma piatta su tutto il fronte. E’ l’ora della pennichella post pranzo.
Nel primo letto a destra, entrando - lettera A – dorme placidamente un uomo del quale non sono distinguibili le sembianze ma soltanto il luminoso pigiama di seta, azzurro, maniche corte.
In quello centrale, sostenuto da quattro cuscini e fornito di tubicini per aerosol, ossigeno e catetere, si trova seduto un uomo piuttosto su con gli anni, assistito da un paio d’infermieri filippini e circondato da due o tre congiunti uno dei quali sembra darmi il benvenuto dicendomi “arriva la gioventù”(?).
Dopo le rituali operazioni per la mia sistemazione comincio con calma ad osservare tutto ciò che mi circonda. La veranda o meglio la terrazza a livello della stanza è davvero enorme credo più di una sessantina di metri quadrati ed è accessibile da altre quattro stanze oltre la nostra. Col trascorrere del tempo ho potuto notare con quanto piacere essa è usata da pazienti e congiunti - maggioranza femminile - soprattutto come “fumoir”.
Trascorsa un’ora “pigiama azzurro” si sveglia e si avvicina al mio letto. E’ un settantenne non molto alto, robustello, barba mefistofelica e radi capelli, entrambi grigi. M’informa che è un colonnello dei carabinieri naturalmente in pensione, che casa sua è situata ad una ventina di chilometri dall’ospedale, località di mare, che si trova lì tra noi perché ha circa 200 di pressione, circa 200 di glicemia, che ha le braccia, mostrandomele, piene di buchi e lividi giacchè per i prelievi di sangue necessari per le analisi non gli trovano mai le vene. IO NON GLI HO FATTO NEPPURE UNA MICROSCOPICA DOMANDINA. Evidentemente non vedeva l’ora di parlare con qualcuno disposto ad ascoltarlo. Durante l’intera nostra permanenza in ospedale - usciti entrambi lo stesso giorno ed alla medesima ora -, sia chiamando che ricevendo tramite il suo cellulare, ha reso partecipi anche altri, amici, conoscenti e parenti, di quello che stava passando informando tutti minuziosamente sul suo stato. A VOCE ALTA… Mah! Non ho contato quante altre volte mi ha ripetuto queste sue vicende, sempre le stesse. Evidentemente credeva di non avermene mai parlato. Prima di uscire ha fatto una chiamata, a voce alta, dicendo di essere il “colonnello tal dei tali” e che desiderava parlare con l’alto funzionario “tal dei tali”. (Se è in pensione sempre “colonnello” si presenta?). Mi è sorto un dubbio ma me lo sono tenuto. Una brava persona in fin dei conti, sempre desideroso di conversare usando un linguaggio pittoresco, in dialetto autenticamente romanesco intercalato da parole notevolmente “colorite”. In pratica come tra “compagni di camerata” dello stesso distretto militare romano.
Il soggiornante lettera B del letto di centro si è limitato a proferire pochissime parole peraltro con una flebile voce udibile soltanto da chi gli accosta l’orecchio. Ma si fa capire benissimo con i gesti.
La sera del mio primo giorno di degenza,verso le 20, sono venute a salutarmi un paio delle mie affezionate “zanzare-iena nottambule”. Munito di uno spray adatto allo scopo ho spruzzato la vetrata con un po’ di liquido protettivo. Qualche minuto dopo, al sopraggiungere di due parenti di lettera B sono stato invitato a non usare più quello spray perché il loro congiunto ne avrebbe sofferto. VA BEENE!…L’indomani mattina, rientrato dalla sala operatoria, mi sento osservato da lettera B il quale non appena si accorge che gli rivolgo il mio sguardo congiunge le mani come se volesse pregare, mi fa un cenno per mimare lo spruzzatore, scuote la testa in senso negativo facendomi capire abbastanza facilmente di evitare l’uso dello spray. Io chino la testa affermativamente, lo tranquillizzo gestualmente e lui, sempre soltanto con la testa e abbozzando un sorriso, mi ringrazia. Sembra la sequenza di un film muto. Quando cala la sera una gentile infermiera ci chiede se può provare il telecomando che ha in mano verso il televisore, disattivato, che si trova nella nostra stanza. La invito a farlo anzi le chiedo se una volta acceso lo può lasciare in funzione su Rai tre poichè io e “pigiama azzurro” vorremmo vedere un certo programma. Lei acconsente e se ne va.
Due congiunti di lettera B naturalmente informati a gesti, ci chiedono se possiamo spegnere il televisore facendoci capire che il “dominus” non gradisce il suo funzionamento. Io e “pigiama azzurro” ci guardiamo e acconsentiamo evitando, a denti stretti, qualsiasi commento. VA BEEENE!
Trascorro la seconda nottata tranquillamente anche perché le “zanzare-iena” non si sono fatte né sentire né vedere. Anche loro devono aver capito l’antifona.
Il giorno dopo, appena pranzato, io e “pigiama azzurro” ci salutiamo perché siamo in uscita, salutiamo anche lettera B e i suoi congiunti i quali cortesemente, gentilmente e sinceramente ci ringraziano per la nostra pazienza. Va bene, ne valeva la pena.
Sono riuscito, prima di andarmene, a strappare qualche informazione circa il mio vecchio SCONOSCIUTO di qualche mese prima: dopo qualche giorno dalla mia dimissione è stato trasferito in una vicina clinica convenzionata, per persone che hanno quel tipo di problema. Il nome? VILLA ARMONIA.
Giusto, aveva bisogno di trovarne un po' con se stesso.