Per quello
che ricordo lo sono stato dai cinque ai dodici anni, più
precisamente dal 1935 al 1942; poi gli eventi successivi mi hanno
fatto crescere molto rapidamente per vari motivi. Penso che al giorno
d’oggi i dodicenni sanno molto ma molto più di quando io avevo la
loro età. Dal ’42 al ’48 sono diventato un’altra cosa. La
guerra, i bombardamenti, la fame, l’occupazione nazi-fascista,
quella successiva degli “alleati”, la disoccupazione e chi più
ne ha più ne metta hanno inciso sul mio comportamento. Non solo il
mio, penso.
All’età
di cinque anni presi la laurea in medicina e due schiaffoni, più un
ulteriore supplemento.
A
quell’epoca abitavo al terzo piano di un fabbricato piuttosto
vetusto e casa mia, all’interno 11, confinava a sinistra con
l’interno 12 e a destra con l’interno 10 che a sua volta
confinava con l’interno 9. Lì al 9 avevamo due camere e mezzo, un
lungo corridoio ed un cesso – né bidet, né vasca e neppure doccia
- talmente piccolo che si trovava all’esterno dell’appartamento
nell’angolo di una piccola loggetta che dava sul cortile del
fabbricato medesimo. Dall'interno 9 ci trasferimmo all’interno 11,
leggermente più grande ma con il cesso in casa, sempre però solo
water e lavandino. L’interno 9 fu affittato ad una famiglia
composta da cinque persone: padre, madre e tre figlie femmine che
avevano all’incirca l’età di noi quattro fratelli.. Una di loro,
la più piccola, aveva la mia stessa età, 5 anni, e quindi eravamo
diventati amici per la pelle e giocavamo tutti i giorni sul
pianerottolo davanti le nostre rispettive dimore. Questo perché,
essendo ancora troppo piccoli, non potevamo andare a giocare nel
cortile e neppure in strada. Accadde che un giorno, mentre io e la
mia coetanea eravamo seduti sui gradini della scala comune che
conduceva a tutte le abitazioni, rigorosamente davanti i nostri
appartamenti, le proposi di fare un gioco che andava molto di moda:
il dottore e l’ammalata. Lei mi disse che le faceva male qua, là,
sopra, sotto e io allora la visitai scrupolosamente, forse anche
troppo, tanto che, entrambi presi dal gioco, non ci accorgemmo
dell’arrivo della sua mamma che ritornava dal mercato. Si scatenò
il finimondo. I primi due schiaffoni li ricevetti io a titolo
probabilmente del pagamento del mio onorario, gli altri però non
raggiunsero la destinazione voluta in quanto l’ammalata si era
andata a nascondere chissà dove. Mentre io mi disperavo le due
mamme, la mia e l’altra, erano lì che discutevano per sapere a
chi andava attribuita la colpa di quanto era accaduto. Alla fine
decisero entrambe che c’era un solo colpevole: il dottore. Cioè
io! Dopo di che ricevetti un supplemento d’onorario per la
visita medica effettuata. Non vidi l’ammalata per parecchio
tempo, evidentemente era guarita.
Trascorsero
i giorni, i mesi e gli anni. Noi tutti crescevamo, ma frequentavamo
comitive diverse. Circa tredici anni dopo quel giorno fatidico la
famiglia dell’interno 9 traslocò altrove.
Negli ani
successivi, dopo sposato, io mia moglie e nostro figlio si andava
tutte le domeniche al vicino mare di Roma, Lido di Ostia, sempre
nello stesso stabilimento balneare dove rimanevamo fino al pomeriggio
inoltrato, pranzando nel ristorante del medesimo stabilimento. Fu
così che una domenica dell’estate del 1967, non ricordo giorno e
mese ma l’anno sì, ero appena uscito dalla cabina dove ero andato
ad indossare il costume da bagno, quando vidi uscire dalla cabina
accanto alla nostra una bagnante, alta poco più di me e, credo,
della mia stessa età. Abbronzata fino all’inverosimile indossava
un bikini microscopico. La seguivano un paio di bambine e un uomo,
forse il marito. Mi passò accanto, non mi degnò di uno sguardo e
neppure mi riconobbe: io invece sì! Era l’ammalata, la mia
paziente di troppi anni prima. Dottore e ammalata capitolo chiuso,
purtroppo.
Torno
indietro negli anni bambineschi nel corso dei quali mia madre
m’insignì di un titolo, non nobiliare. In pratica un nomignolo:
“lisceo”, dato che ogni volta che suonava qualcuno e veniva a
trovarci gente io correvo in gabinetto e cercavo disperatamente di
lisciare sulla nuca un ciuffo ribelle. Non ci sono mai riuscito. Un
altro nomignolo me l’affibbiò una mia zia, sorella di mia madre,
la quale, ancora signorina, venne a stare da noi. Eravamo già in
sei, con lei sette, per poi diventare otto, quando si sposò e nove
quando le nacque il primo figlio. Tutti felicemente abitanti in quel
piccolo appartamento! Alla zìetta, così la chiamavano noi, prima
di sposarsi, le piaceva portarmi con sé a passeggiare e mi chiamava
“ciciornia” perché a ma piaceva fare il cicio, diceva lei.
Coccolavo e mi facevo coccolare volentieri.
Entrambi i
due nomignoli, lisceo e ciciornia, mi rimasero incollati addosso
perlomeno fino ai 15-16 anni se non di più.
In qualche
occasione particolare, quando era possibile, mia madre cucinava
l’abbacchio, vale a dire l’agnello, ma quando questo accadeva,
prima di sedersi a tavola io andavo da mia madre intenta a
predisporre le porzioni per tutti e le dicevo, piagnucolando, che non
volevo mangiarlo perché l’agnello era troppo piccolo.
Sempre nel
corso di quel periodo 1935-1942 divenni protagonista di altre
vicende. Ne ricordo perfettamente almeno due.
1^)
Durante le feste natalizie mia madre, siciliana di non so quante
generazioni, prima di sposarsi non ancora diciottenne, aveva lavorato
in un laboratorio di pasticceria assai rinomato in buona parte della
Sicilia. La sua specialità erano i famosi cannoli siciliani. Lei se
ne stava ore e ore in cucina dove per prima cosa preparava la crema a
base di ricotta, zucchero, scaglie di cioccolato, pezzettini di
canditi e non so più che altra leccornia, la metteva in una zuppiera
di ceramica e la riponeva nella parte inferiore di una grossa
credenza in cucina. Poi si accingeva a preparare il cannolo vero e
proprio, operazione molto delicata e difficile, ma non per lei. Io,
non appena sentivo venire dalla cucina quell’odorino molto
speciale, mi appostavo nei pressi con fare indifferente e,
approfittando di un momento d’assenza o di distrazione di mia
madre, mi avvicinavo alla credenza, aprivo uno degli sportelli
inferiori, infilavo una mano e mi appropriavo di una bella manciata
di crema senza curarmi delle tracce che lasciavo. Le reazioni di mia
madre quando si accorgeva del furto erano tremende.
2^) La
guerra e i primi tempi del dopoguerra erano difficili per quanto
riguarda la reperibilità di molti alimenti e tra questi lo zucchero.
Avevamo in cucina due piccoli vasi rettangolari di fine porcellana
di Baviera, bianchissimi con tanto di disegnino azzurro dipinto sul
davanti e le scritte Caffé in uno e Zucchero nell’altro. Ma erano
entrambi spesso semivuoti. Un giorno ero seduto al tavolo di cucina
per fare colazione e, mentre mia madre si era allontanata per fare
qualcosa, io presi il vaso dello zucchero, letteralmente vuoto, e con
un cucchiaio raschiai con una certa forza il fondo del vaso stesso
tanto che lo bucai. Apriti cielo. Ricordo le corse dentro casa con
mia madre che cercava di prendermi, ma non ci riuscì. Forse voleva
abbracciarmi? Chissà?
Ad ogni
modo il cimelio è tuttora conservato in casa di mio fratello più
grande. Entrerà a far parte di una mostra in un museo. Almeno credo.
Sì, sono
stato anch’io bambino ma forse anche un po’ pestifero.