domenica 18 dicembre 2011

SARO' BREVE

Esattamente tre anni fa, grazie all'amica blogger Luz figlia di un mio carissimo amico, venne aperto questo blog dato che io non sapevo neppure cosa fosse. Lei con molta pazienza lo installò, mi scrisse su un mezzo foglio protocollo che ancora conservo le prime istruzioni per l'uso e mi aiutò a scegliere link, nickname, casella di posta, URL , youtube ed altro ancora.
Sia Luz che Gap sono stati coloro i quali mi hanno "introdotto" nella blogosfera scrivendo persino un post di "presentazione".
È anche merito di molti altri che hanno sparso la voce facendo conoscere il mio blog, sono tanti e mi dispiace non poterli citare, l'elenco sarebbe un po' lungo.
Ho conosciuto virtualmente – qualcuno anche personalmente – numerosi blogger amici e a tutti va il mio più affettuoso e sincero ringraziamento per i loro gentili e generosi commenti.
Piano piano, con l'aiuto dei blogger amici, credo di aver migliorato ciò che andavo scrivendo e, forse con un po' di presunzione, anche di aver attirato la benevola attenzione di chi è passato nel blog a leggere le mie scribacchiature fatte di ricordi, accadimenti veri o verosimili, vicende alle quali ho assistito o ne ho preso parte, fantasia e sogni. Insomma ho cercato di fare del mio meglio e secondo le mie scarse possibilità sempre in lotta con i congiuntivi, la grammattica, l'ortografia e la punteggiatura.
Ho scocciato i blogger molto spesso per incidenti di percorso nel manovrare il mio pc-Pasquale ricevendo sempre la loro affettuosa assistenza e guida.
Per usare una frase fatta è giunto il momento di tirare i remi in barca.
Continuerò a visitare i blog e leggerò molto avidamente i post in essi contenuti, come ho sempre fatto anche se, per colpa della mia "capoccia", ci sono state volte in cui non mi è riuscito lasciare commenti perchè da me ritenuti poco adeguati e non attinenti gli argomenti che venivano trattati.
Per concludere una precisazione. Non c'è alcun motivo particolare perché io abbia preso questa decisione. Un giorno o l'altro lo stop doveva pur arrivare.
Dimenticavo: AUGURO A TUTTI BUONE FESTE.

domenica 11 dicembre 2011

CONVERSAZIONE FERROVIARIA

Mi sono complimentato con il tassista perché da casa mia fino qui alla Stazione Centrale ha impiegato pochissimo tempo nonostante il gran traffico. Pertanto sono arrivato con una buona mezz'ora d'anticipo rispetto l'orario di partenza del treno per Torino. Ecco questo è il vagone che mi riguarda e adesso vediamo un po' qual'è il posto che ho prenotato...35-36, 37-38, 39 ed ecco il mio: il 40. Chi sa chi è l'occupante del 39. Si sta abbastanza comodi e poi ci sono tutti i comfort adatti per tutta la durata del viaggio, poco più di cinque ore. Intanto meglio che prepari il necessario per il lavoro che devo preparare. Vediamo un po'...
= Permette?
= prego signora si accomodi pure...
= grazie...
= lei va a Torino o scende prima?
= no, no scendo proprio a Torino, ci lavoro...
= anch'io vado a Torino per lavoro...
= bene. Se non sono indiscreta in che campo lavora?
= in quello bancario...
= ma che combinazione, anch'io lavoro in quel campo, sono direttrice di un'agenzia della Banca...
= è veramente una gran bella combinazione. Permette? Mi chiamo Marco e...
= io Luisella, molto piacere...
= anche per me...
= e quale mestiere fa?
= beh...veramente più che un mestiere esercito una professione...
= scommetto allora che lei opera nel servizio legale...
= servizio legale? Non direi ma...
= ma?
= il mio lavoro ha attinenza con la legge ma consiste nel progettare e organizzare rapine in banca...
= come? Oh mamma mia...ma...ma....come... dice sul serio?
= certo, ho persino tre dipendenti giovani ma capaci. Vede la faccenda funziona così: io mi occupo della ricerca dell'agenzia di banca da rapinare, mai nelle sedi centrali. Cerco soprattutto agenzie situate nei pressi di supermercati o grandi esercizi pubblici che hanno necessità di depositare denaro in contanti...
= mamma mia aiutami tu...
= decido luogo, giorno e ora dell'operazione alla quale io non partecipo direttamente, nel senso cioè che il lavoro "manuale" con armi finte lo fanno i più giovani. Mi fido di loro anche perchè salvo qualche biglietto spicciolo che possono mettersi in tasca il "malloppo" vero e proprio lo mettono dentro delle borse di stoffa ampie e morbide che, appena escono dall'agenzia, infilano nel bagagliaio della loro macchina mentre io, prudentemente e con la massima attenzione, li seguo con la mia...
= ma allora adesso che sa del mio lavoro in un'agenzia di banca mi seguirà costringendomi a fare tutto quello che a lei occorre per fare la sua...la sua...rapina...
= no,no. Tranquilla signora mia. Non posso farlo perché lei mi ha visto in faccia, sa chi sono e al telefono o al primo poliziotto che incontra lei racconta tutto. Le assicuro che mi terrò ben lontano dalla sua agenzia, anzi sa che le dico, alla prima fermata io scendo da questo treno e ne prendo un altro che va,,,diciamo a Venezia...sì, sì, li circola molto denaro anche in dollari e sterline e quindi le prospettive sono più che buone. Adesso cara Luisella io la ossequio, sono stato felicissimo di aver fatto la sua conoscenza ma la prego vivamente di non raccontare a nessuno di questa nostra bella conversazione, sa i miei dipendenti sono giovani impulsivi e potrebbero non gradire e allora si potrebbero verificare conseguenze spiacevoli...
= la più probabile è quella che mi prendano per pazza. A non riverdela signor Marco...
E Marco, per salutarla, le fa un inchino e le bacia la mano sinistra delicatamente e con molto garbo.

lunedì 5 dicembre 2011

MIA CARA SORELLA

Tramite Don Ruggero, il cappellano del carcere di Rebibbia a Roma, spedisco questa mia lettera all’Ambasciata d’Italia, lì in Canberra-Australia, dove spero che i funzionari riescano a trovare te e la tua famiglia perché qui, dall’Italia, non siamo riusciti a scoprire un tuo preciso indirizzo Credo ti chiederai come mai, dopo tanto tempo, cerco di mettermi in contatto con te. Ho trascurato di farlo prima, quando ne avevo l’opportunità, perché ho sempre pensato che tu provassi vergogna per me. Ma, credimi, la lettera che ti sto scrivendo non è fatta per chiederti aiuto o qualcosa del genere. Desidero soltanto sapere qualcosa di te,se stai bene, com’è la tua famiglia,non desidero altro. Di me, se t’interessa saperlo, posso solo dirti che, purtroppo, sono ancora vivo. Oggi finalmente esco. Dopo 33 lunghissimi anni di “galera” che ho volutamente scontati, esco. Dove andrò? Cosa farò? Qualcuno mi riconoscerà adesso che ho superato i 67 anni d’età? Non lo so e neppure m’ importa saperlo. Sarei potuto uscire molte volte in permesso per buona condotta, ma non l’ho mai chiesto. Avrei potuto usufruire degli arresti domiciliari ma non ne ho mai fatto richiesta. Qualcuno mi aveva consigliato di chiedere la grazia, di fare domanda per l’indulto e ho rifiutato. Il processo al quale fui giustamente sottoposto per il mio reato si chiuse con la comminazione a mio carico della pena dell’ergastolo. All’epoca non avevo e non volli chiedere l’assistenza di un avvocato, ero colpevole e meritavo la pena. La legge però, prevedeva un difensore d’ufficio , così me ne affidarono uno che ce la mise tutta, ma io non avevo voglia di collaborare ed ero refrattario a voler fornire qualsiasi ragione, per cercare di giustificare ciò che avevo commesso. Ti racconto tutto questo perchè all’epoca del fatto tu eri poco più che adolescente e, non essendoci più né i nostri genitori, né altri parenti, in seguito al mio arresto tu rimanesti sola. Facesti bene ad accettare, benché così giovane, di sposarti e di emigrare in Australia. So che hai cercato più volte di volermi incontrare ma io non ho mai voluto vederti perché non volevo che tu fossi coinvolta nella mia dolorosa vicenda e, lo ammetto, ho cercato di dimenticarti e di farmi dimenticare da te. Come vedi, non ci sono riuscito e sono qui a scriverti con la speranza che tu mi possa un giorno leggere. Il nostro è un legame di sangue che non deve, per nessuna ragione, turbare la tua tranquillità e quella della tua famiglia, perciò spero di non essere troppo invasivo nel tentare di contattari. E’ vero pure che non hai mai potuto sapere tutti i particolari dei fatti di allora, ma oggi, visto che hanno deciso di mettermi in libertà dopo aver scontato una notevole parte della pena inflittami, sono qui a cercare di spiegarti perché è successo quello che è successo. Il momento in cui avvenne probabilmente lo ricorderai ma ti prego di dimenticarlo. Quando entrambi i nostri genitori morirono malauguratamente in quel pauroso incidente io, già sposato con Nora, decisi di venire ad abitare nella nostra vecchia casa, in paese altrimenti tu, tanto giovane, saresti rimasta sola. Qualche mese dopo, costrettovi dall’insofferenza di Nora che non ne voleva più sapere di abitare lì perchè il suo unico desiderio era quello di vivere a Roma io, per quieto vivere ma anche per la debolezza del mio carattere, decisi di accontentarla. Insieme con te decidemmo di vendere un grosso pezzo del terreno che ci avevano lasciato i nostri genitori ma non la casa per la quale nutrivo un grande attaccamento come credo anche tu. La stessa ditta che acquistò il terreno, una piccola fabbrica di mobili, mi prese alle proprie dipendenze come falegname, l’unico mestiere che sapevo fare. Io accettai di buon grado il lavoro giacchè potevo così continuare ad occuparmi anche della nostra casa. Così pian piano riuscii a ristrutturarla discretamente. Trasferiti a Roma tu, anziché venire ad abitare con noi due,dopo compreso il perché, pensasti bene di andare a stare dalla nostra unica nonna rimasta in vita:la mamma di nostro padre. Avevo sistemato le cose in modo che noi potessimo trascorrere insieme tutti i fine settimana nella nostra casa di campagna. Ma non andò come pensavo come tu ben sai, anche se non conosci tutti i particolari che cercherò adesso di riferirti. Per tutto il periodo in cui sono stato sposato ho dovuto ingoiare rospi su rospi, ma ho sempre cercato di salvare il salvabile perché ero realmente e sinceramente innamorato di Nora. Ancora oggi non riesco a comprendere il radicale cambiamento del suo atteggiamento nei miei confronti ed in quello dei miei parenti o dei miei amici. Quando ci conoscemmo non era così come poi lo è diventata e per di più in brevissimo tempo. Io riconosco di essere rimasto sempre un provincialotto, un bonaccione, se vogliamo anche un ingenuo nonchè un amante del quieto vivere tanto da essere giudicato da lei un essere senza spina dorsale. Così ogni giorno, la mattina di buon’ora, prendevo il treno e da Roma andavo in fabbrica a lavorare. Facevo una cinquantina di minuti all’andata ed altrettanti al ritorno, dal lunedì al venerdì. Il sabato e la domenica volevo trascorrerli in paese, con Nora naturalmente, ma questo fu possibile soltanto per qualche mese perché lei, in quei fine settimana, voleva andare a Roma, a casa della propria sorella. Per quattro o cinque volte andai con lei ma capivo che non c’era dialogo sia tra di noi che con la famiglia della sorella e la noia aleggiava sovrana. Cercai in ogni maniera di convincere Nora a stare insieme con me in quei due giorni liberi ma ogni volta che glielo chiedevo sorgevano discussioni. Non avere avuto figli nostri è stata una delle cause dei continui diverbi. Lei usava questo pretesto per andarsene tutte le settimane dalla sorella che aveva due bambini. Che potevo obiettare io? Nulla o forse avrei potuto e dovuto. Quel maledetto venerdì tornai a casa dal lavoro molto prima del solito, a metà pomeriggio. In fabbrica si era verificato un guasto all’impianto elettrico e così si fermarono i macchinari, gli operai, insomma tutto, perciò rientrammo anticipatamente a casa, tanto fino al lunedì successivo non si poteva riparare niente. Appena rientrato, cercando di essere il più allegro possibile, notai Nora già vestita che stava accingendosi a dare gli ultimi ritocchi al suo aspetto e che al mio apparire mi guardava con un misto di sorpresa e di timore. Le chiesi se le faceva piacere venire al cinema e poi anche a cena in un ristorante a sua scelta ma rifiutò subito. Le confessai anche che, già da qualche tempo, in seguito ad altre discussioni, specialmente quando lei finiva per uscire ugualmente nonostante le mie preghiere io, in uno di quegli infiniti giorni di solitudine, avevo pensato al suicidio. A quel punto le mostrai una pistola che avevo acquistato tempo prima. Ebbene, alla vista di quell’arma lei, per nulla intimorita, cominciò a coprirmi d’insulti e a deridermi. Poi, prendendo le chiavi della macchina e avviandosi per uscire da casa, mi salutò dicendomi che sarebbe rientrata il lunedì successivo. Rimasto solo ebbi una crisi di sconforto. Mentre pensavo e mi chiedevo che cosa avrei potuto fare per cercare di migliorare la situazione sentii suonare alla porta. Quando l’aprii vidi che era mio suocero, il padre di Nora, un tipo piuttosto particolare, un vedovo che pensava solo a divertirsi, malgrado la sua non più verde età. L’unica sua occupazione era quella di trascorrere più tempo possibile con amicizie femminili di dubbia moralità. Naturalmente giustificava la propria figlia. Mi disse che in fondo lei non aveva tutti i torti a voler vivere la propria vita godendosela nel miglior modo possibile. M’invitò a seguirlo perché aveva in animo di trascorrere la serata in compagnia di due “signore” di sua conoscenza e perché aveva capito che, secondo lui, in quei momenti io dovevo reagire, divertirmi, evadere. Rifiutai non per voler fare il moralista ma perché ritenevo di non avere lo spirito giusto per certe avventure. Dovevo evadere ma da cosa? Da me stesso? Dal dolore? Dalle speranze? Oppure dagli altri? Dopo queste amare riflessioni decisi di uscire da casa. Senza neppure accorgermene constatai di aver percorso un notevole tratto di strada quindi, vedendo poco lontano un parco, ne approfittai per sedermi in una panchina. Data l’ora tarda non c’era quasi nessuno ma all’ombra di uno dei lampioni che davano anche sulla strada mi accorsi che accanto ad un fuoco acceso c’era una donna, bionda, vistosamente truccata. A gesti ben comprensibili ma con un atteggiamento non volgare né improntato all’equivoco, era intenta a respingere con dinieghi di testa e di mano le evidenti proposte che le rivolgevano alcuni individui al volante delle proprie auto. M’incuriosiva l’atteggiamento di quella persona. Ad un certo punto mi accorsi che anche lei mi guardava tanto che i nostri sguardi s’incrociarono. Lei, dopo un attimo d’esitazione mi chiamò con un gesto della mano, un gesto gentile, dolce, un qualcosa tra il saluto e il richiamo. Io, un po’ timido e un po’ impacciato, dopo essermi sincerato che quel gesto era rivolto proprio a me, mi avvicinai. Ci guardammo, notai che era molto più giovane di quello che credevo. Scambiammo qualche parola, mi disse come si chiamava e io feci altrettanto, poi lei mi prese la mano e mi chiese se poteva venire a casa mia. Ancora oggi continuo a chiedermi perché dissi di sì. Entrati in casa ce ne restammo seduti in poltrona per diverso tempo raccontandoci le rispettive storie. Venni così a conoscere che la sua vicenda era più tragica della mia e nello stesso tempo ugualmente triste.
L’amore per un suo coetaneo ma soprattutto le conseguenze di ciò che era avvenuto in seguito, l’avevano portata a voler intraprendere, lontana dalla sua città natale, tutta un’altra vita. Inoltre, per ironia della sorte, proprio quella sera aveva deciso di voler dare inizio a quella “carriera” e scegliere me come suo primo “cliente”. Mi disse che sia lei che il suo fidanzato appartenevano a due note famiglie benestanti, molto attente al denaro, alla posizione sociale, alla dimostrazione verso chiunque di possedere una moralità superiore agli altri, al rispetto delle convenienze sociali dominanti. Continuò il suo racconto dicendomi che lei, Viviana e lui, Piero, erano follemente innamorati. Un giorno, l’occasione capitò ideale, l’atmosfera giusta e accadde che i loro sensi ebbero il sopravvento. Le sembrò che stare con lui fosse stata la cosa più meravigliosa del mondo. Poi, un giorno, il dramma. Quando le famiglie seppero che aspettava un bambino scoppiò il pandemonio =cosa diranno i parenti,che penseranno gli amici, i conoscenti= e così via. Ma, quello che più addolorò Viviana fu che il suo adorato Piero sparì come d’incanto, più cercava di incontrarlo, di parlargli e più lui si faceva negare, Era come svanito nel nulla. Non le lasciarono scampo: tutti pensavano che l’idea migliore fosse quella di disfarsi di suo figlio. Il risultato del suo amore tradito era da buttare via come immondizia, un niente. Nessun scrupolo per quello che le fecero fare, anzi era il trionfo dell’onestà. Fu per questo che aveva deciso di andarsene via dalla sua città lasciandosi dietro la vecchia vita, la parte più bella di se’: la giovinezza, le speranze, l’entusiasmo, tutto. Dopo avermi raccontato la sua storia e confermato di aver preso la decisione di diventare così com’era stata “bollata” dai suoi io cercai di dissuaderla, la pregai, le dissi che era ancora in tempo a restare quella che era, una brava ragazza e che io ero disposto ad aiutarla a trovare un lavoro, a farle conoscere un bravo giovane. Insomma feci del mio meglio per farle cambiare idea, ma non ci fu niente da fare: ormai aveva deciso. Volevo insistere ancora ma lei mi pregò di non farlo e mi chiese di poter fare una doccia. Le indicai dov’era il bagno e le dissi che se desiderava mettersi addosso qualcosa di pulito, poteva recarsi nella stanza lì vicino e indossare tutto ciò che voleva. Mentre preparavo qualcosa da bere per entrambi sentii suonare alla porta e mi chiesi chi fosse, dato che non aspettavo nessuno. Appena aperto si fece largo per entrare mio suocero, tutto trafelato, il quale di gran fretta m’invitò nuovamente ad uscire con lui perché, così affermò, “attualmente” si trovava sprovvisto di denaro. Ritornò anche sull’argomento delle due “signore” che ci stavano aspettando. Gli confermai che non ne avevo alcuna voglia ma che comunque se avesse avuto bisogno di un prestito, glielo avrei fatto volentieri. Quando stava per andarsene, Viviana uscì dal bagno, senza la parrucca bionda e senza trucco, capelli cortissimi, a piedi scalzi, con un mio pigiama addosso: completamente diversa dalla Viviana di prima. Ora sembrava un ragazzo, tanto che a mio suocero non parve vero lanciarmi addosso una serie d’insulti, d’insinuazioni d’ogni specie, di accuse di tradimento nei confronti della propria figlia,ecc. Insomma ci fu il più disgustoso dei litigi nel corso del quale i miei tentativi di spiegazioni si rivelarono piuttosto inutili. Al culmine della discussione squillò il telefono ma non feci neppure in tempo a dire =pronto= che sentii la voce di Enrico, un mio ex compagno di lavoro ed amico, il quale =avvisava che per quella sera era tutto fermo; che avrebbe richiamato il lunedì successivo e che si sarebbe trattenuto ancora cinque minuti al bar sotto casa mia, poi avrebbe portato Moby Dick a lavorare= Lì per lì, stentavo a capire quello che stava dicendo, ma approfittai subito della sua telefonata per trovare una soluzione al mio problema Mi stava venendo in mente un’idea. Gli dissi di salire subito perché dovevo chiedergli un favore. Lui, un po’ imbarazzato acconsentì. Chiamai Viviana in disparte e le dissi che non volevo liberarmi di lei ma che era meglio per il momento andare a casa del mio amico Enrico che stava per venire a prenderla. Le assicurai che più tardi sarei andato a trovarla per poi decidere insieme sul da farsi. Dieci minuti dopo entrarono Enrico e Moby Dich, una “ragazza” che doveva il suo soprannome al suo aspetto piuttosto giunonico. Come se non bastasse era talmente sguaiata e volgare che mostrava in maniera evidente quale professione esercitasse. In quel frangente non mi rendevo conto come stavano realmente le cose, pensavo soltanto che dovevo salvare la faccia davanti a mio suocero e nello stesso tempo cercavo di aiutare Viviana a salvarsi da quella pazzesca decisione che aveva preso. Raccontai ad Enrico qualcosa che m’inventai al momento e lo pregai di occuparsi di Viviana soltanto per qualche ora in modo da sistemare le cose con mio suocero. Entro poco tempo sarei andato a casa sua e avrei pensato io al da farsi. Lui, meravigliandomi non poco, accettò entusiasta e mi disse di stare tranquillo. Non appena spiegai la mia intenzione a Viviana, lei si rifiutò categoricamente di andare con Enrico: mi disse che aveva paura. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava nell’atteggiamento sia di Enrico che di mio suocero. Intanto io mi chiedevo come fosse possibile che non mi accorgessi di quello che stava accadendo o che era accaduto. Improvvisamente ripensai a certe coincidenze e a certi fatti. Come mai dopo così tanto tempo Enrico si rifaceva vivo telefonando a casa mia, facendo un numero che lui non poteva conoscere dato che eravamo lì soltanto da un paio di mesi? Volevo una risposta così lo misi alle strette, lo minacciai e venni a sapere cose ignobili, orribili, che non avrei mai immaginato potessero accadere. Moby Dick, proprio lei mi aprì gli occhi. Mi disse chi era in realtà Enrico:un protettore, uno sfruttatore di prostitute tra le quali c’era anche lei, che era “scesa di grado” rispetto a Nora, pensa proprio Nora, mia moglie. Venni così a scoprire che la mia mogliettina era diventata la favorita e faceva il “mestiere” in un appartamento vicino casa della sorella, la quale era stata coinvolta nella lurida faccenda, naturalmente dietro lauto compenso, per coprire le assenze di Nora da casa mia nei fine settimana. Il tutto con la partecipazione anche di mio suocero che era a perfetta conoscenza dei fatti. L’unico a non aver mai capito e saputo nulla ero io:un ingenuo ed anche un imbecille. Man mano che venivo a conoscenza di tutte quelle brutture mi resi conto che dovevo sentire anche la versione di Nora e la chiamai al telefono dalla sorella: ormai sapevo come era stata organizzata tutta la faccenda. Si presentò dopo una mezz’ora e, senza fare una piega, dopo che io le dissi che ormai ero a conoscenza della sua doppia vita, non si perse d’animo anzi, con una sfrontatezza senza pari mi disse chiaro e tondo cosa ne pensava di me. Mi distrusse letteralmente ed io persi la testa. Infuriato e senza più remore coprii d’insulti sia Nora che Enrico e mio suocero. Ero imbestialito e non riuscivo più a trattenermi. Viviana, che fino a quel momento aveva assunto un atteggiamento prudente restando al di fuori di quell’ignobile situazione, cercava di calmarmi ma non ci riusciva. Tra l’altro veniva persino insidiata da quel farabutto di Enrico che intendeva convincerla a far parte della sua “corte” ottenendo un netto rifiuto. Ad un certo punto, io non ne potei più. Con fare minaccioso scacciai tutti di casa e poi mi accasciai su di una poltrona privo di forze e di volontà. Mi sentii battere sulla spalla, era Viviana che era rimasta per cercare di aiutarmi ad affrontare quella brutta faccenda. La ringraziai e le chiesi, anzi la pregai, di restare con me. Lei però, era ormai decisa a voler intraprendere la strada che aveva scelto e mi disse dolcemente che non sentiva di essere la persona adatta a risolvere i miei problemi. Aggiunse che non intendeva darmi delle delusioni, che ormai aveva deciso e che non voleva tornare indietro. Si riteneva una donna che non poteva più dare amore nel vero senso della parola ma soltanto offrire se stessa per soldi e aggiunse persino che avrebbe accettato che io divenissi il suo protettore. Le affibbiai uno schiaffo pentendomene subito dopo. Lei non battè ciglio. Con le lacrime agli occhi, dopo un po’, mi disse che sarebbe andata in camera da letto: mi avrebbe aspettato ma…voleva essere pagata. Aggiunse poi che potevo stare tranquillo perché in seguito allo spiacevole “incidente” con il proprio fidanzato, i medici, dietro richiesta della sua famiglia, avevano fatto in modo che lei non potesse mai più avere figli. Tutte queste cose mi fecero perdere definitivamente la testa. Sentivo che stavo scoppiando e non capivo più cosa stesse succedendo, sentivo solo che mi stava crollando il mondo addosso. Follemente lucido andai in fondo alla stanza, presi la rivoltella, mi misi di fronte a Viviana che non ebbe il tempo di capire e reagire e cominciai a sparare. Un colpo, due, poi altri, con estrema lentezza, finchè quasi con ferocia le scaricai addosso tutti i colpi. Dopo che Viviana cadde a terra, andai al telefono, alzai il microfono e formai il numero 113. Quando mi risposero, diedi loro il mio nome, il mio indirizzo e li informai che avevo ucciso una persona. Mi chiesero chi avevo ucciso ma io, in preda forse ad un delirio, non seppi dire chi avevo ucciso e riattaccai. Poi presi in braccio Viviana, la adagiai sul divano e la accarezzai mormorando lentamente...Nora…Viviana…e poi ancora…Viviana…Nora …Non riuscivo a rendermi conto chi avrei voluto uccidere e chi in realtà avevo ucciso. Venne la polizia e tu sai come andò a finire. Di tutto questo desideravo che tu fossi informata, ecco perché ti scrivo..
Ti saluto con molto affetto e, soltanto se tu lo desideri, ogni tanto ricordami.
Tuo fratello.

giovedì 1 dicembre 2011

LA DISFIDA DEI SPAGHETTI

Due volte la settimana a casa mia sono giornate in cui si mangia pastasciutta almeno a pranzo.
E fin qui tutto bene.
Il problema arriva quando si deve decidere quale tipo di pasta perchè a me piace solo quella corta mentre alla signora che assiste mia moglie e che impera in cucina, piace solo quella lunga,
In parole povere lei adora gli spaghetti io invece i "cannolicchi" cioè i ditalini rigati. E nessuno di noi due intende cambiare. Su questo fronte è guerra aperta anche perché a me non sembra giusto che lei debba cucinare i due tipi di pasta in due pentole diverse benchè sia lei a lanciare la proposta.
Abbiamo pensato di risolvere la vexata questio (o quaestio) facendo la "conta" cioè "l'anghingò tre galline e tre cappo'...e toccherebbe precisamente a te – o a me..." (così la ricordo da ragazzino) ma non ha funzionato. Allora siamo passati al lancio della monetina in aria cioè "testa o croce?" però neppure questo è andato bene. Infine siamo passati allla morra cinese: niente da fare. In tutti questi casi ci siamo accusati vicendevolmente affermando che l'altro ha imbrogliato o nella conta o nel lancio della moneta oppure nella morra.
È spuntata quindi la terza proposta: una settimana solo spaghetti per lei e io niente, mentre quella successiva cannolicchi per me e lei ugualmente niente. Dopo un paio di settimane è fallita anche questa soluzione. Rammentare l'alternanza sembra facile ma non lo è.
La questione è stata risolta con un compromesso e abbiamo sottoscritto verbalmente il trattato di pace.
Lei cucina sempre spaghetti ma quelli nel mio piatto vengono tagliati e ridotti tipo mezze penne rigate.
Non si direbbe ma siamo due soggetti un po' testardi.

lunedì 28 novembre 2011

giovedì 24 novembre 2011

E' PROPRIO VERO NON C'E' DUE SENZA TRE

Ieri mattina alle 11.00 mi azzardo a mettere il naso fuori la finestra per accertarmi che la temperatura esterna sia adatta al mio essere freddoloso.Lo è. Insomma, diciamo sopportabile. Allora mi faccio coraggio, m'imbacucco bene bene e avviso in casa dicendo "io esco". Una voce mi risponde "fai bene, non fa freddo". Lo dice lei abituata ai sottozero rumeni e che con i riscaldamenti accesi in casa quel minimo indispensabile sbuffa e dice "che caldo, sto sudando". Esco da casa astenendomi dal ribattere.Fatti pochi passi arrivo alla solita fermata per prendere il mio solito autobus quando davanti a me chi ti vedo? La "ragazza con i capelli rosso fiamma"! Sì, proprio lei, quella che incontrai a novembre dello scorso anno e che rividi a gennaio di quest'anno. Lei, la parrucchiera, che sa il mio nome ma non mi ha detto il suo, che ha una compagna, che abitano nella stessa casa dalle mie stesse parti ma che non mi ha mai detto quali.Considerato il suo abbigliamento dev'essere anche lei un po' freddolosa e, come le altre volte, sta sempre con il telefonino incollato all'orecchio destro.Dopo un paio di minuti smette di parlare al telefono, si guarda in giro, si volta, mi vede e mi fa un sorriso salutandomi

= ciao Aldo come stai?

= ma...ti ricordi il mio nome?

= certo me lo hai detto qualche tempo fa...

= ma tu non mi hai detto il tuo però

= hai ragione...Fulvia

= bene, così se c'incontriamo ancora potrò...

= già, meglio così

= sei stata in vacanza quest'estate?

= sì, ma una sola settimana in Olanda con la mia compagna...

= come sta?

= benissimo, in perfetta forma, ci siamo molto divertite ad Amsterdam...

Arriva l'autobus semivuoto, saliamo, ci sediamo vicini e Fulvia mi racconta quello che lei e la sua compagna hanno combinato in terra olandese. Hanno incontrato altri italiani e hanno fatto amicizia con due di loro della stessa età, simpatici ma troppo intraprendenti i quali hanno creduto che Fulvia e la sua compagna fossero facilmente abbordabili, Sono riuscite a tenere loro testa con varie scuse pur trascorrendo con loro molto del proprio tempo libero peraltro divertendosi ma senza offrire nulla in cambio. Inventandosi un motivo urgente per fare ritorno in Italia li hanno salutati promettendo ai baldi giovani che si sarebbero rivisti. Una promessa che non avevano nessunissima intenzione di mantenere.

Fulvia si prepara per scendere e mi dice

= io sono quasi arrivata a destinazione, ciao...

= ciao e...grazie della compagnia

= grazie a te, Io non ho conosciuto nonni né materni né paterni e allora ho raccontato tutto a te come se tu fossi mio nonno...Ciao...

E si avvia ma, fatti pochi passi, torna indietro e mi sussurra nell'orecchio

= io e la mia compagna domattina saremo a quella fermata alle 10, non più tardi, ciao...

Io la guardo scendere dall'autobus a bocca e occhi spalancati per lo stupore e le faccio ciao con la mano molto lentamente, come inebetito.

Fino a sera inoltrata sono stato a pensare a quella frase che mi ha sussurrato prima di scendere dal bus. Ed è anche tornata indietro per farlo.

A malincuore ho preso una decisione credo saggia.

Domani non esco ma se lo faccio cambio orario, fermata e linea di autobus.


lunedì 21 novembre 2011

DELIZIE CONDOMINIALI

1) L'UNIONE FA LA FORZA

(scritto già pubblicato l'1/10/2011 nel blog IL CONDOMINIO – "rosy-soloprova.blogspot.com")

Nel tardo pomeriggio di ieri nel condominio dove abito come inquilino da oltre 43 anni, è accaduto un episodio che vale la pena raccontare.L'assistente di mia moglie invalida, una signora rumena, mi dice che da qualche ora sente dei colpi al di là del muro del soggiorno che confina con l'appartamento di proprietà di un condomino di circa novant'anni che conosco da quando venni qui ad abitare. Cerco di tranquillizzarla dicendole che probabilmente stanno eseguendo alcuni lavori per cui quei rumori si sentono anche da noi. Non più tardi di un'ora dopo mi dice che quei colpi si ripetono troppo spesso e che risuonano come una specie di alfabeto morse, sembra che vogliano dire qualcosa. Mi metto anch'io ad ascoltare ed in effetti la signora non ha tutti i torti. Non conosco il numero telefonico di questo condomino il quale tra parentesi vive da solo aiutato quasi tutti i giorni da una delle sue figlie che si alternano e da una signora vicina di casa, anche lei condomina. Informo l'amministratore-condomino, gli spiego quello che sta succedendo, lui cerca di informarsi telefonicamente ma nessuno gli risponde. Chiama allora un altro condomino che abita vicino e gli chiede di accertarsi cosa sta succedendo. In breve i due condomini vicini del novantenne entrano in casa sua e lo trovano nella vasca da bagno dove era scivolato nel primo pomeriggio con il bastone da passeggio accanto con il quale aveva cercato di chiedere aiuto per alcune ore. Lo mettono a letto, telefonano alle figlie le quali si precipitano e constatano che fortunatamente il loro papà, anche se un po' acciaccato e impaurito, si sta riprendendo. La catena condominiale creatasi tra più persone è servita a qualcosa.

*******

2) Inediti aggiornamenti post 1/10:

Da qualche giorno il novantenne uscito dall'ospedale, è assistito 24 ore su 24 da una giovane signora indiana che parla benissimo l'italiano e che già conoscevo perchè aveva assistito in precedenza un altro anziano, poi deceduto, che confinava guarda caso con il novantenne.Il cortile del condominio dove abito è amplissimo circondato da 92 unità immobiliari suddivise in quattro scale. Ha una forma quadrata soltanto per tre lati poiché il quarto lato è molto più ridotto. Le finestre che si affacciano sul cortile medesimo offrono a volte uno spettacolo curioso. Intanto occorre precisare che non è di proprietà condominiale ma di una società commerciale il cui dirigente-proprietario è "da prendere con le molle" in quanto tra lui e il condominio "non corre buon sangue". Siamo e non da poco, perennemente in causa per vari motivi uno dei quali è che ha vietato a tutti di stendere il bucato dalle finestre che affacciano appunto su questo strano cortile interno. Qualche anno fa ha fatto causa a due o tre condomini che avevano stesso la biancheria, vincendo. Uno dei perdenti è proprio il novantenne di cui sopra il quale ha dovuto sborsare a quell'epoca, dieci milioni di lire. Da allora quasi tutti adottano una tattica: stendono di notte o nei giorni festivi quando la società chiude i battenti. Oppure, come si fa da me, stendono dentro casa. Raro che qualcuno vada a stendere nella terrazza condominiale, sopra il settimo piano. Lui afferma che il divieto è necessario per il "decoro" della sua proprietà!?!?!?

3) Alcune domande:

a) Perché una coppia di giovani occupanti un appartamento al mio stesso piano, il primo, poco lontano dalle mie finestre sul cortile, quest'estate, in costume ADAMitico ed EVitico si sedevano sul davanzale di una delle loro finestre aperte sul cortile? Forse soffrivano troppo il caldo o che?

b) Perché sempre tre finestre sul cortile al mio stesso piano ma di un'altra scala, in tutte le stagioni sono sbarrate da cancellate in ferro battuto a balconcino, dietro le quali si trovano tende marrone chiaro che oscurano tutto l'interno ma che durante quasi tutta la giornata, notte inclusa, lasciano filtrare un poco di illuminazione elettrica? È una bisca clandestina o che altro?

c)Perché al settimo e penultimo piano soltanto la piccola finestra del bagno di un appartamento di un'altra scala è sbarrata da un'inferriata mentre le altre finestre dello stesso appartamento sono senza alcuna inferriata? Paura di un furto a quel piano e con l'accesso impedito solo dal bagno?

PERCHÈ NON MI FACCIO I FATTI MIEI???


mercoledì 16 novembre 2011

COSI' PER CASO

Ci stava riflettendo da un bel po' di tempo ma era avvenuto tutto in maniera così strana che ancora stentava a crederci. Con il trascorrere dei giorni però si convinceva sempre di più che in lei stesse avvenendo un vero e proprio cambiamento della propria vita. Era rimasta vedova a trent'anni con due bambine una di cinque e l'altra di tre anni e con l'onere gravoso della gestione di un'azienda di proprietà del suo defunto marito. Con l'aiuto dei propri genitori e dei consuoceri, tutti avanti con l'età, si era dedicata completamente alle due bambine e al lavoro finché attualmente, sulla soglia dei sessant'anni, poteva ritenersi molto soddisfatta di come stavano andando le cose. Viveva da sola nella propria casa ma le domeniche e i giorni festivi li trascorreva sempre con le sue due figlie, i loro mariti e i loro bambini. Dalle 13 alle 14 di tutti i giorni lavorativi pranzava in un ristorante vicino la propria azienda malgrado i pressanti inviti delle due figlie che lì dentro collaboravano con lei e che avrebbero voluto la madre a pranzo a casa loro. I proprietari del ristorante, due coniugi, la moglie cuoca e il marito cameriere, ormai le avevano riservato permanentemente un piccolo tavolo dato che quelli più grandi erano sempre occupati da un gran numero di clienti. Da circa quattro mesi il proprietario le aveva chiesto se poteva far sedere a quel piccolo tavolo un cliente e, ottenuto il suo assenso, glielo aveva prima debitamente presentato. Un uomo alto, robusto, capelli bianchi, un settantenne pensionato così come lui stesso le aveva detto. Molto educato, riservato, non parlava quasi mai, mangiava con parsimonia e non beveva né vino e neppure birra, solo acqua normale. Terminava di mangiare sempre prima lui, salutava, saldava il conto e usciva. Un giorno lei prese l'iniziativa e, in attesa che le servissero il pranzo, chiese al taciturno commensale se voleva scambiare qualche parola. Lui aderì gentilmente ma si trattò soltanto di una sorta di monologo poiché lo stesso raramente aprì bocca. Lei si sorprese a pensare così senza una ragione precisa, che il modo di agire di quest'uomo la incuriosiva molto e quindi ogni giorno che passava lo incitava sempre a colloquiare con lei. Spontaneamente gli raccontò le vicende della propria vita e allora anche lui si vide come costretto a raccontarle le proprie. Era vissuto sin dalla nascita in un orfanotrofio, non aveva mai conosciuto i propri genitori e non aveva neppure fratelli o parenti alla lontana. A 14 anni, uscito dall'Istituto, iniziò a lavorare come aiuto manovale e poi, col passare del tempo, essendo molto capace, aveva fatto "carriera" nel ramo fino al punto che l'impresa nella quale lavorava da sempre, gli aveva pagato gli studi e diventò geometra. Era stato sposato ma aveva divorziato perché sia sua moglie sia lui volevano dei figli ma, dopo accurate visite mediche, gli dissero che non poteva averne in quanto sterile. Non si era risposato, viveva da solo in un residence e, andato in pensione, frequentava soltanto un gruppo di amici operai suoi ex colleghi. Le cose procedettero così per un lungo periodo di tempo. Continuarono a vedersi anche fuori dal ristorante, una volta a casa dell'uno e la successiva a casa dell'altro, ma sempre così da semplici amici magari fraterni. Un giorno vennero a conoscenza che il sabato successivo ci sarebbe stata una bellissima mostra a Firenze e, di comune accordo, decisero di andarci sia pure per quel solo sabato, arrivato il quale dalla stazione lei telefonò alle figlie dicendo che per quel giorno non si sarebbero viste e disse loro che sarebbe partita in treno per Firenze ma che sarebbe tornata la sera stessa sul tardi. Malgrado le rimostranze delle figlie che volevano sapere più particolari, lei partì e, con il suo amico, arrivati a Firenze, andarono a visitare la mostra. Non fecero in tempo a visitarla tutta ed allora lei propose di rimanere ancora in quella splendida città. Lui accettò. Trovarono per puro caso una sola camera libera a due letti in un discreto albergo. Si procurarono presso un supermercato il necessario per la notte e, dopo una lauta cena in un ristorante poco distante, fecero ritorno in albergo, dove rimasero a parlare per quasi l'intera notte. La mattina dopo tornarono a visitare la mostra ed era quasi sera quando decisero di pernottare sempre nello stesso albergo. Ma non andò come la prima notte perché ad un certo punto sentirono il desiderio di abbracciarsi. Quasi di slancio lo fecero e poi...dopo...finirono entrambi col..."commuoversi". Dopo anni di astinenza non avevano perduto la loro naturale vitalità. Era ormai lunedì, tornarono a Roma con il primo treno e quando lei s'incontrò con le figlie e i rispettivi mariti confidò loro e per intero il suo "segreto" con il logico sbalordimento di tutti. Ma lei, alle loro naturali rimostranze, annunciò che tre mesi dopo si sarebbe sposata con questo suo amico certa che la "commozione reciproca" non li avrebbe abbandonati.
E così fu.
*******
Tempo fa lessi da qualche parte che quando si è vecchi la vita dei sensi e dei sentimenti è morta e sepolta, consumata fino in fondo, MA PUO’ NON ESSERE COSI’.

lunedì 14 novembre 2011

UNA ROM

Quasi ogni mattina, tempo e temperatura permettendo, passo vicino ad un semaforo di una strada piuttosto ampia vicino casa dove abito e, proprio accanto al semaforo, c'è da sempre una giovane ragazza, bruna di capelli, carina e sorridente con una specie di spazzolone già pronto all'uso che chiede ai conducenti delle auto che sostano in attesa dello scatto del colore verde, se le permettono di dare una pulitina ai vetri ed al parabrezza.

È fornita degli attrezzi opportuni per interventi più adeguati nonché di un secchio di plastica colmo d'acqua che, alla bisogna, può riempire alla fontanella – a Roma diciamo nasone - che si trova nel marciapiede opposto.

A volte, molto discretamente, mi fermo ad osservarla e noto che si è fatta ormai una certa clientela.

Una paio di giorni fa ho visto che due vigili addetti ad una più rapida circolazione del traffico in quell'incrocio, coversavano amabilmente con la giovane in questione facendosi anzi qualche risata. Ormai, "lavorando" accanto a quel semaforo almeno da due o tre anni, deve essere diventata una specie di istituzione.

La giovane donna tempo fa mentre ero fermo al semaforo in attesa che scattasse per me il colore che mi consentisse l'attraversamento mi disse, in un italiano quasi perfetto, che lei era una rom – non ci avevo mai fatto caso – benchè ìl suo abbigliamento quotidiano, pantaloni e maglietta, dimostrasse tutt'altro, aggiungendo inoltre che faceva parte di una famiglia piuttosto numerosa e che lei era la più grande di sette figli. Diceva di avere circa ventidue anni ma ne dimostrava molti di meno e quando le dissi che le rom di solito eramo vestite con abiti molto diversi e adornate da parecchi monili d'oro lei mi rispose che aveva altro da pensare come ad esempio portare soldi a casa la sera per migliorare le condizioni di vita sue e della sua famiglia. Eravamo diventati quasi amici e a lei piaceva scherzare e chiacchierare nelle pause del suo lavoro.

Io non ho la macchina almeno da vent'anni e pertanto non mi è mai capitato né mai mi capiterà di

incrociarla al semaforo come automobilista, ma come pedone si.

Aveva preso l'abitudine, quando cominciava ad individuarmi tra i passanti che si avvicinavano al semaforo, di nascondersi dietro le macchine parcheggiate e di spuntarne fuori all'improvviso facendomi "bau!", sorridendo. Forse era il suo modo di dirmi "buongiorno" ed invece mi faceva "bau!"

Ma non il solito "bau bau" che certe mamme minacciano ai loro bambini se non smettono di fare i capricci, ma uno quasi affettuoso.

Proprio ieri mattina me l'ha ripetuto. Forse perché sono vecchio, freddoloso e vesto come un esquimese e posso sembrare per lei il suo "bau bau".

Si diverte a farlo anche con altri? Non lo so ma penso di sì.

Io non gli ho mai chiesto il suo nome e lei non mi ha mai chiesto il mio, ci salutiamo e basta.

Il tutto può apparire inverosimile ma le cose stanno così.

lunedì 7 novembre 2011

TANTO GENTILE E TANTO ONESTA PARE...

"...la donna mia quand'ella altrui saluta, ch'ogni lingua deven, tremando, muta e gli occhi non l'ardiscon di guardare..."

Non voglio fare sfoggio di un sapere che non ho ma mi è venuta voglia di dare una ripassatina ad un sonetto di messer Dante Alighieri per parlare della mia Beatrice.

Purtroppo lei è l'esatto contrario della Beatrice di Dante.

È gentile sì ma onesta no, lo ammetto dispiacendomene. Mi si potrebbe dire "perché non la molli?" ma non posso farlo, l'amo troppo e vivo della sua bellezza che sembra si rifletta su di me che sono appena appena passabile.

Dante poi dice "benignamente d'umiltà vestuta" ma la mia Beatrice non è affatto umile, al contrario.

Quando usciamo per passeggiare o per fare acquisti lei cammina altezzosa beandosi degli sguardi

che tutti gli uomini indistintamente le rivolgono.

Le sue forme procaci le sfoggia come un voler provocare nel prossimo – maschile ma anche femminile – reazioni di ogni tipo. E poi i suoi lunghi capelli neri, i suoi occhi verdi e le sue autentiche lunghe ciglia che socchiude sensualmente e maliziosamente fanno il resto.

M'innamorai di lei pazzamente quando avevamo entrambi circa trent'anni. Ora ne abbiamo circa quaranta, siamo regolarmente sposati ma lei accettò di farlo soltanto se avessi rispettato le sue condizioni che per qualsiasi altro uomo sarebbero state da considerare piuttosto umilianti. Ma non da me perché avevo gettato via la lucidità dalla mia mente. Supinamente dissi sì.

Ed ancora oggi malgrado le sollecitazioni di persone a me care non riesco a decidermi di troncare un matrimonio che non ha più alcuna ragion d'essere.

Persino i dipendenti della mia azienda, piuttosto florida grazie alle mie e alle loro fatiche, i quali mi vogliono molto bene in virtù anche della mia generosità, con molta delicatezza mi consigliano di divorziare ma non gli posso dare retta.

È più forte di me l'attaccamento a questa magnifica donna che mi vive accanto.

So di dire una gran fesseria ma lei mi ha come stregato tanto da farmi perdere ogni mia dignità. Subisco umiliazioni a getto continuo ma non m'importa.

Però a volte mi faccio scioccamente questa domanda: anche se io ho accettato in toto le condizioni che mi ha dettato per dire sì al matrimonio, lei perchè mai mi ha sposato?

Una risposta non riesco a trovarla.

Non so se e quanto potrà durare questo stato di cose ma penso che finirò con l'impazzire poiché credo di stare perdendo il lume della ragione.

*******

Rassegna stampa - Cronaca:


"Con un ferro da stiro uccide il marito ricco imprenditore perché lui le aveva chiesto il divorzio"


*******

FATTI E PERSONAGGI DI QUESTO SCRITO SONO PURAMENTE IMMAGINARI
















giovedì 3 novembre 2011

IO E VERONICA

In realtà l'ho sempre chiamata Verni; ormai tutti i nomi li abbrevio anche per fare prima.

Adesso si trova in camera mia e quando la sera, meglio la notte, vado a letto, lei mi sta vicina, a portata di mano cioé.

Fino all'inizio degli anni novanta, allorquando ancora lavoravo, mi è stata sempre accanto ma in camera da letto.

Da circa nove anni invece sono da solo in camera mia e lei è sempre con me.

Ormai ha una certa età ed è forse per questo che comincia ad avere qualche problema. Il fatto è che li procura anche a me i problemi.

Questa mattina ad esempio, non s'era fatto ancora giorno, quando mi sveglio convinto di aver dormito almeno cinque o sei ore. Al buio cerco conferma da Verni ma non riesco a trovarla. Per la miseria e come mai? Allora mi alzo, faccio un po' di luce ma di lei nessuna traccia. Dov'è andata a finire? Eppure a mezzanotte passata quando mi sono infilato nel letto c'era. Mi sono armato di tanta pazienza e finalmente l'ho trovata: era scivolata tra una pila di libri e documenti vari che tengo a portata di mano accanto al mio divano-letto.

Verni è piccola, ha una forma quadrata di circa 6 cm. per ogni lato......ehi un momento perbacco ho dimenticato di dire che Veronica-Verni è una sveglietta alla quale sono molto affezionato. Le ho anche dedidato due canzoncine: la prima che cantava il Trio Lescano nel 1936 "Quando suona Veronica...", la seconda che cantava Modugno nel 1956 in dialetto "Io tegno na, sveglietta ca, quannu cammina fa tic ta tic ta tic ta..."

Precisato quanto detto torno a scrivere di quello che è successo questa mattina al mio risveglio.

Ritrovata Verni la guardo per sapere che ore sono e resto sbalordito: le due e un quarto! Ma come è possibile? Mi sento riposato a differenza della notte prima a causa del fatto che non avevo quasi chiuso occhio ed invece...Mi alzo, inforco gli occhiali, vado accanto la scrivania – un tempo appannaggio di mio figlio studente – accendo la lampada alla quale ho attaccato il mio orologio da polso che non porto mai – tanto a che mi serve sapere l'ora quando esco - e noto che sono le sei meno un quarto. Verni s'è bloccata! Come mai? Sarà la batteria? No è carica, e allora? A forza di studiarla riesco a capire cosa è accaduto. Di solito al mattino sono leggermente più fresco di mente.

Solitamente le sveglie, compresa Guendalina-Guen che ho confinata in cucina, hanno quattro lancette: una di colore giallo che scandisce i secondi, due nere una piccola e l'altra più grande che segnalano le ore ed infine una rossa che si utilizza quando occorre fissare un'ora per essere svegliati con una sorta di suoneria.

Fino a quando lavoravo mettevo in funzione la suoneria, andato in pensione niente più suono.

In pratica la lancetta rossa s'era distaccata dal centro dove era fissata insieme alle altre e ha bloccato le due lancette nere. Si sarà offesa perchè non l'ho messa più in movimento? Forse. Non sapendo come aprire il vetrino le do una scrollatina e la rossa si degna di mettersi da parte facendo ripartire il funzionamento di Veronica.

Nel frattempo le luci del giorno si sono fatte vive.

lunedì 31 ottobre 2011

LORO NON CHIEDONO PERCHE'

Ed è più che comprensibile.
I nostri amici a quattro zampe, soprattutto cani e gatti, purtroppo non parlano. È vero, loro possono soltanto abbaiare o miagolare.
Perché noi umani riusciamo a capire quando vorrebbero chiederci spiegazioni circa i nostri atteggiamenti, i nostri richiami e anche le nostre e le loro necessità? Semplice, perché sono loro che ci fanno capire benissimo quello che vorrebbero.
Secondo me, avendo avuto animali in casa, soprattutto gatti e per lunghi periodi, una risposta che potrebbe urtare qualche suscettibilità è quella che sono molto intelligenti, a volte anche più di qualche umano.
Mi è capitato di vedere cani e gatti – quest'ultimi in verità in misura inferiore – ammaestrati
che compiono gesti oppure abbaiano o miagolano a comando come fossero esseri umani.
È qualcosa che mi ha dato sempre molto fastidio perchè ho notato nei loro sguardi un certo non so che simile ad una richiesta di spiegazioni, come se stessero chiedendo appunto "perchè mi obblighi a fare cose che non fanno parte del mio essere?". Ma questo loro non possono e non potranno mai dirlo.
Hanno atteggiamenti diversi anche verso persone dello stesso ambiente familiare – parlo dei gatti in particolare perché stanno sempre in casa salvo rarissime scappatelle fuori dalle quattro mura. Ne ho avuto conferma dalla Micia che è stata con noi parecchio tempo fa e per circa quindici anni.
Sorrido al pensiero di vedere qualcuno che avesse tentato di ammaestrarla: sarebbe stato costretto a rinunciarvi in quattro e quattr'otto.
Ricordo un piccolo particolare che ho dimenticato di raccontare quando ho scritto della Micia(post del 27 giugno 2011).
Quando tutte le sere mi sdraiavo su un divano nel soggiorno per vedere la TV lei si avvicinava, non saliva subito, mi faceva capire che stava lì accanto toccandomi un braccio con una delle sue zampette anteriori e quando finalmente mi decidevo a dirle "dai, vieni su", saltava su di me, si sdraiava col musetto rivolto verso lo schermo e faceva un piccolo sospiro. Un grazie forse?
Immobile fino a quando io non decidevo di alzarmi e andarmene a dormire salvo quando mi addormentavo durante qualsiasi tipo di trasmissione.
Vero che i cani hanno un briciolo di atteggiamento quasi umano in più e che, lo sento dire in giro, gli manca soltanto la parola e fanno più compagnia dei gatti.
Secondo me la ragione c'è ed è che il gatto è molto indipendente ed è molto più furbo.
Però proprio ieri riguardo i cani, ho assistito ad una scenetta davvero significativa.
In una strada vicino casa un bastardino di non so quanti incroci sta seduto davanti ad un portone semi-aperto, senza battere ciglio, col musetto teso verso lo stesso portone da dove dopo qualche attimo esce una signora piuttosto in carne la quale si mette a guardare il cane. Lui la fissa per un po' come chiedendo "e allora che si fa?" e lei risponde con un sorriso e dicendo "adesso andiamo". Al che il cane si alza sulle zampe posteriori e tende il cuo corpo verso la signora la quale lo accarezza a lungo e con tenerezza. Mi è parso di scorgere un sorriso sul muso del bastardino o forse l'ho voluto semplicemente immaginare.
Per concludere cani e gatti per me pari sono tanto che se avessi avuto balcone o terrazza in casa con me ci sarebbero stati almeno un cane ed un gatto.

giovedì 27 ottobre 2011

PE' FATTE BREVE ER DISCORSO - scritto nel luglio del 2009

Tempo fa morì un mio caro amico. Benché non coetanei c’eravamo conosciuti più di venti anni prima e avevamo legato quasi subito. Aveva circa novanta anni, era vedovo, padre di tre figli e nonno di un’infinità di nipoti. Le doti che mi avevano colpito in lui erano la sua sincerità e generosità non disgiunte da una modestia ed umiltà senza pari. Mi aveva confidato, senza provare alcuna vergogna – e perché mai avrebbe dovuto? - di aver frequentato le scuole fino alla quinta elementare e di aver smesso di studiare per andare a lavorare col padre e i fratelli. Del fatto di avere solo la licenza elementare sembrava per lui come se si trattasse di una bandiera da sventolare, ne era persino orgoglioso. Fosse stato un tipo da biglietto da visita lo avrebbe scritto pure su quello, come un titolo accademico o nobiliare. Questo perché – così affermava convinto – l’interruzione degli studi gli aveva consentito di imparare molti mestieri. Aveva veramente quello che si dice “le mani d’oro”. Ne ho avuto varie volte la prova perché sapeva fare di tutto o quasi: falegname, idraulico, meccanico – non d’auto però – muratore, pittore. Gli mancava l’elettricista, non sapeva fare nulla in quel settore né voleva saperne. Se gli capitava di dover unire due fili elettrici chiedeva aiuto a qualcuno. Io ho approfittato delle sue capacità nel senso che capitava spesso a casa qualche cosa che non funzionava o aveva smesso di funzionare. Gli telefonavo, gli spiegavo di che si trattava e lui, appena qualche minuto dopo, veniva a casa munito d’ogni genere d’attrezzi - qualcuno ne avevo anch’io ma lui preferiva usare i suoi - e sistemava con perizia ogni tipo di cosa da riparare. Se gli dicevo di dirmi che somma dovevo pagare lui si offendeva. Quando se ne tornava a casa, mentre ci salutavamo sulla porta, sprizzava gioia da tutte le parti. Molte volte mi chiedeva “ma nun c’hai qualche lavoretto da famme fa’?” E io per farlo contento giravo per casa e qualche cosa gli trovavo sempre da fare.
Romano da quattro o cinque generazioni era un antifascista vecchio stampo così come lo erano stati suo padre e i suoi fratelli. Gli piaceva parlare di politica, di cinema e di teatro. Sin dai primi tempi in cui avvenne la nostra conoscenza ci mettemmo d’accordo per vederci ogni settimana, almeno un’oretta “pe’scambiacce du’ chiacchiere” così diceva lui. Una volta a casa mia ed un’altra alla sua giacché abitavamo piuttosto vicini. Così di anno in anno, acciacco dopo acciacco, ci si sedeva uno di fronte l’altro a parlare e a ricordare. Quando parlava di politica, alla luce di quello cui assisteva riguardo malcostume, malgoverno e malavita s’infervorava a tal punto che cercavo in tutti in modi di calmarlo, con scarsi risultati però. Gli spuntavano persino le lacrime agli occhi dal dispiacere che provava e mi diceva “scusame ma quanno vedo e sento certe cose me vie’ da piagne a pensà a le lotte che avemo dovuto da fa’ pe’ vive in un paese co la democrazia e la libertà”. Mi raccontava spesso del periodo buio trascorso sotto il fascismo e di quando, nella seconda guerra mondiale, fu richiamato, inviato in alta Italia e pronto per andare sul fronte russo, ma l’8 settembre del ’43 fu per lui una fortuna perché fuggì e se ne ritornò a casa. Mi disse “io nun c’ho mai creduto a sta guera, me sai di’ che so’ morti a fa’ tutti quelli che so stati mannati al fronte? E i civili morti sotto le macerie pe’ corpa de li bombardamenti?” Altro argomento da lui preferito era lo spettacolo: cinema e teatro. Sin da giovanetto faceva parte di un gruppo che in cambio di qualche lira e del biglietto gratis per assistere ad uno spettacolo di riviste, all’avanspettacolo, a commedie ed anche ad operette, si dava da fare come claque applaudendo a comando. Aveva una memoria di ferro. Si rammentava attori, cantanti, soubrette del mondo dello spettacolo sin da quelli degli anni trenta, quaranta ecc. E qualche volta capitò persino che lui intonasse una canzoncina di quell’epoca. Quando attaccava questi argomenti lui non si frenava mai ed era perfettamente inutile cercare di “scambiare” con lui le “du chiacchiere” cui aveva fatto cenno.. Il suo scopo era quello di dimostrare l’amore e l’attaccamento a quei ricordi e mi sciorinava episodi e fatti d’ogni tipo. Il problema era quando partiva con un suo discorso. Io ogni tanto cercavo d’inserimi con qualche mio commento o ricordo e, malgrado anch’io parlassi delle stesse cose, lui seguitava a raccontare come se stesse vivendo in un’altra dimensione. Molto spesso capitava di ripetersi raccontando ciò che aveva già raccontato qualche tempo prima, ma bisognava comprenderlo. Ogni tanto si fermava come se volesse riepilogare quello che stava raccontando e, con l’intenzione di smettere per un po’, mi diceva “Pe' fatte breve er discorso”. Intendeva dire che non voleva dilungarsi ma in realtà continuava in tutta tranquillità. Io parlavo di un argomento e lui, imperterrito, girava lo sguardo verso un‘altra direzione come concentrato nella ricerca dei ricordi che voleva raccontarmi e seguitava con il suo di argomento aggiungendo anche “nun vojio esse' ripetitivo”. Invece lo era.
Parlavamo ognuno per conto proprio.
Praticamente in quelle occasioni io c’ero e non c’ero.
Ciao amico mio e grazie di tutto anche se non mi hai fatto mai “ BREVE ER DISCORSO”.

lunedì 24 ottobre 2011

SOGNO O SON DESTO?

Da un bel po' di tempo, credo almeno da quando sto seguendo una terapia piuttosto sostanziosa, mi succede una cosa particolare.
Dipenderà probabilmente dal numero di compresse – 12 (dodici) - che ingoio durante la giornata e tutti i giorni, per non parlare di uno sciroppo e dell'aerosol quando qualche volta mi viene un po' di tosse.
A parte la notte – mi prendo un sonnifero altrimenti hai voglia a contare pecore o a cantarmi la ninna nanna - alcune altre volte e ad ore diverse, mi viene a trovare Morfeo o meglio "Morpheus
tramite e traghettatore fra il mondo reale e quello dei sogni" (fonte wikipedia).
Infatti mi accade spesso o davanti al pc-Pasquale quando mi vedo qualche film anche se di mio gusto oppure dopo pranzato sdraiato sul divano-letto o all'ora del tè o se sto assistendo alla visione di TG e talk show politici o ancora dopo aver letto appena quattro-cinque pagine di un libro.
Non molti giorni fa, erano le undici di mattina, stavo appunto vedendo un film thriller tramite pc-Pasquale quando a metà del primo tempo si presenta d'improvviso Morfeo e, dopo qualche minuto, sbatto la capoccia penzoloni sulla mia tastiera-Flo.
Mi capita molto più spesso quando mi sdraio sul divano-letto perché allora mi addormento abbastanza profondamente sognando qualcosa che stavo facendo prima o il giorno precedente oppure chissà quando. Ad un certo punto mi sveglio e mi chiedo cosa avevo combinato o se ancora dovevo "combinare".
Addirittura mi è accaduto qualche volta, sempre appisolato, di sognare che sto mangiando o cercando di mangiare qualcosa che ho nel fantomatico piatto messo davanti a me. Spalanco persino la bocca e con la mano porto il cibo o chissà cosa davanti al mio muso ma mi sveglio subito per accorgermi che sto sognando e mi ritrovo con il braccio alzato e con tre dita della mano destra come se avessi un bocconcino da mettere in bocca.
Lo strano è che non faccio sogni, come dire "piccanti", ma soltanto cose di una noia terribile.
Dovrò presentare un reclamo ma a chi?
Mi sa che è meglio che mi faccio ricoverare.

giovedì 20 ottobre 2011

IL FURBASTRO

Tra la fine del 1949 e l'inizio del 1950 un commerciante romano in vista del Giubileo di quell'anno
pensò bene di ampliare il proprio negozio di abbigliamento aggiungendo, oltre al reparto femminile anche uno più piccolo per quello maschile. Aveva previsto, giustamente, che l'enorme afflusso di pellegrini e turisti a Roma, gli avrebbe consentito di fare ottimi guadagni e, per l'occasione, oltre alle due commesse che già lavoravano nel suo negozio, ne aveva assunto altre due, più giovani. Assunse anche un uomo pratico del ramo per il reparto maschile ed anche per agire come una sorta di direttore.
Il "direttore" assunto aveva trentadue anni, di statura media e di aspetto comune, non poteva effettivamente definirsi un bel ragazzo ma neppure brutto. Scapolo, sempre elegante, attirava soprattutto la clientela femminile poiché ciò che lo faceva apparire abbastanza piacevole era il suo carattere, il suo modo di agire e quello di essere oltre che un discreto parlatore anche un attento ascoltatore.
A volte si compiaceva del suo savoir faire quando soprattutto riusciva a raggiungere quanto si era prefisso.
Con il trascorrere dei giorni il proprietario si sentiva abbastanza soddisfatto di come procedevano le cose nel suo negozio sia dal punto di vista commerciale sia da quello della perfetta armonia che regnava tra il personale.
Il "direttore" se la cavava egregiamente nei rapporti con le colleghe sulle quali, quelle più giovani, una biondo-cenere e l'altra bruna, aveva già messo gli occhi.
Il problema era quello di quale scegliere per le "manovre di accerchiamento" poiché entrambe non avevano nessun pari età con il quale mantenere alcun tipo di rapporto, erano molto carine se non di più e apparentemente disponibili almeno per un primo approccio.
Studiò un piano, apparentemente molto semplice. Doveva accompagnarle alla loro casa, una alla volta naturalmente e quindi, prima qualche parolina per conoscere meglio i loro caratteri e le loro personalità poi man mano comprendere chi avrebbe gradito le sue avances. Lo scopo era quello di sapere chi delle due si sarebbe lasciata convincere ad avere con lui una relazione breve o di più lunga durata. Per questo, almeno per il momento, non si era posto il problema.
Come prima volta, una sera, dopo che erano usciti tutti dal lavoro si avvicinò alla bionda e, con molta circospezione, si autoinvitò per accompagnarla e si accorse che lei gradiva questo suo interessamento. Ripeterono la passeggiata insieme ancora altre volte e tutto procedeva abbastanza bene ma non come lui avrebbe desiderato. Sempre pregandola di mantenere il "segreto" seguitarono a vedersi frequentandosi però ancora platonicamente.
Lui allora decise di procedere con la bruna adottando lo stesso metodo. Volendo seguitare a vedere anche la bionda calendarizzò le serate in questa maniera: il lunedì assegnò il turno alla bionda mentre alla bruna assegnò quello del sabato.
Una sera, era un lunedi, aveva dato appuntamento alla bionda davanti ad un bar che frequentava tutte le volte in cui si incontrava con le sue due giovani colleghe, abbastanza lontano dal negozio in cui lavoravano, ma erano le 21 passate e la bionda non si vedeva. Dopo circa dieci minuti lei arrivò ma non era sola, insieme a lei c'era anche la bruna. Entrambe avevavo stampato sulla bocca un sorriso beffardo e, andandogli incontro, la bionda lo apostrofò così
= direttore dei miei stivali ti vogliamo dire in coro che sei uno sciocco presuntuoso e che hai commesso dei grossi errori uno dei quali è quello, piuttosto infantile, di usare le stesse identiche parole e le identiche frasi ad entrambe. È bastato raccontarci quello che ci hai detto allorquando ci vedevamo con te, sia pure a giornate alterne, per capire che credevi di fare il furbo con noi ma sei soltanto un maldestro furbastro. Buona nottata" e se ne andarono lasciandolo a bocca aperta.
La mattina del lunedi successivo lui telefonò al proprietario del negozio nel quale lavorava e gli disse che doveva partire quel giorno stesso per raggiungere il proprio fratello in Australia.

lunedì 17 ottobre 2011

COME LA BANDIERA DELLA PACE ARCOBALENO

Fino a una trentina d'anni fa il mio abbigliamento era costituito da vestiario ed anche calzature tutto della stessa tonalità di colore.

Ad esempio giacca e pantaloni marrone così come la cravatta, i calzini e le scarpe. Di colore bianco la camicia e gli indumenti intimi.

Così pure quando ero vestito di blu. Solo le scarpe erano nere.

Ero anche pignolo nell'osservare questa regola che poi si trattava soltanto della mia, credo.

Poi invece quella regola di una monotonia che non so bene come definire, ah ecco, forse mania, si è mutata in una regola esattamente opposta.

Per cui se qualcuno che mi conosce m'incontra per strada può pure far finta di non avermi mai visto e passare oltre, io non mi offendo.

Passo alla descrizione del mio abbigliamento quello che attualmente adotto in questo periodo autunno-inverno.

Inizio dalle scarpe che sono abbastanza strane anche se la marca geox è tra le migliori. Ci tengo moltissimo perché me le ha regalate uno dei miei fratelli.

Sono estive o invernali? Non lo so, io le porto sempre ai piedi (perché dove si dovrebbero portare

altrimenti? Ho detto una cavolata) e non mi fanno sentire né il caldo né il freddo. Il loro colore è "panza di cane che fugge" un incrocio tra l'avana e il marroncino chiaro e hanno una particolarità: la sinistra si comporta bene, la destra invece no (alludo? Forse). Quando le metto al mattino per uscire, con la sinistra vado benissimo mentre con la destra soffro (rialludo? Probabilmente).

I calzini sono o grigio-chiaro oppure blu scuro, a volte marroni, altre volte rossi, mai bianchi.

Uso soltanto jeans di colore celestino un po' indeciso anche se ne esistono di altri colori, come ad esempio le camicie che indosso sono variopinte mai bianche: a quadretti bioancocelesti, marrone chiaro, biancoverdi o di jeans completamente celesti.

Cravatte e papillon eliminate da un pezzo.

Pullover di cotone, fibra o lana sono sempre di colore, qualsiasi, a seconda dell'umore, mai bianchi o neri.

Indumenti intimi sempre bianchi.

Per finire, col sole uso cappellino con visiera buono per il baseball, blu, di cotone mentre se cala la temperatura allora coppola blu o grigia a quadretti.

L'abbinamento degli stessi colori non lo faccio più da tempo.

Qualche giorno fa mi son divertito a contare i colori del mio abbigliamento: qualche volta sono sette, quasi sempre sei come quelli della bandiera pace arcobaleno.

Un bel primato.


giovedì 13 ottobre 2011

HO CHIESTO PERMESSO

Malgrado abbia trovato tutto aperto ho chiesto ugualmente il permesso di poter entrare.

Poi appena mi sono avvicinato lui mi ha chiesto

= E te che vuoi?

= veramente sono venuto per una breve visita

= credi che non lo sappia?

= sono certo che lo sai però...

= non è ancora il tuo turno

= guarda che io non ho nessuna fretta...

= e allora?

= volevo parlare con i miei fratelli Giorgio e Pino

= so anche questo quindi?

= quindi vorrei parlare con loro

= non si può

= come mai?

= sono qui da poco tempo

= e che significa?

= significa che devono ancora ambientarsi

= mi puoi dire se si sono già visti e se stanno entrambi nello stesso posto?

= certo che si sono visti, sono sempre insieme e parlano, parlano a lungo

= potrei sapere di cosa?

= soprattutto di ricordi

= hanno incontrato...

= alt! Non posso dirti altro

= allora che faccio torno domani?

= no domani no, sta' tranquillo, è una decisione che ancora non è stata presa

= ma che fate mi avvertite?

= questo non si può fare

= e allora come faccio a saperlo?

= lo saprai al momento opportuno

= allora me ne vado, buongiorno...

= (e lui sorridendo) arrivederci

Gli squilli prolungati del telefono mi hanno svegliato di colpo.

Ma che razza di sogno ho fatto?

lunedì 10 ottobre 2011

SI LO SO DOVREI FARMI I FATTI MIEI PERO'

Ero in fila alla cassa di un supermercato vicino casa e proprio davanti a me c'era un giovane alto più di due metri, bello robusto, con uno zaino in mano, il quale doveva essere, nel sentirlo parlare, sicuramente dell'alta Italia,

Aveva acquistato una bibita e un panino col prosciutto e doveva pagare euro 5,35 – così ho letto nello scontrino che aveva ricevuto e per fare ciò aveva consegnato un biglietto da 20 euro.

Stava andandosene e nel frattempo la cassiera mi stava consegnando lo scontrino di mia pertinenza ammontante ad euro 4,95 che ho saldato con un biglietto da 5 euro ricevendo il resto di cinque centesimi.

Intanto il "due metri" aveva bloccato l'uscita dalla cassa rivolgendosi alla cassiera e affermando di aver pagato con 20 euro ma aveva ricevuto soltanto 4 euro e 65 centesimi, mancavano 10 euro.

La cassiera affermava il contrario.

Nacque così una discussione piuttosto animata ma ad un certo punto, chiedendo scusa se mi permettevo l'intrusione, affermai educatamente e con molto garbo che avevo notato la veridicità di quanto andava affermando il "due metri" e allora la cassiera, convinta anche da quello che le dicevo gli diede il resto giusto.

Notai che nel consegnargli un biglietto da 10 euro era diventata rossa in faccia come un pomodoro sanmarzano.

Mentre stavo uscendo dissi buongiorno ad entrambi ma non mi risposero. Era calato un silenzio piuttosto imbarazzante e nessuno dei due profferì parola.

Ciliegina sulla torta mi aveva assalito un dubbio: non ricordavo più se pagando avevo dato 5 o 10 euro.

Lasciai perdere, non sarei tornato dalla cassiera per assicurarmene neanche dietro minaccia.

martedì 4 ottobre 2011

UNA DOMENICA NON SOLTANTO AL MARE

Era la tarda estate del 1957.

Da circa un anno mi ero sposato ed ero dipendente di uno studio professionale al centro di Roma, vicino al Teatro dell'Opera.

Lo studio aveva parecchi clienti uno dei quali, forse il piùgrosso – non nel senso del fisico – era un industriale cinematografico e produttore di alcuni film, il quale era anche proprietario di numerosi cinema qui a Roma.

Avevo fatto una discreta amicizia con il suo amministratore-commercialista-segretario che nutriva per lo studio un'alta stima e considerazione. Credo anche per me.

A quel tempo avevo un amico, alto e robusto, poco più grande di me come età il quale era disoccupato e cercava disperatamente un lavoro.

Ne parlai con il segretario dell'industriale cinematografico il quale mi disse che ne avrebbe parlato con il suo principale.

Qualche giorno dopo mi telefonò e mi disse di mandare da lui quel mio amico.

In breve, vista l'ottima presenza, anche atletica, dell'amico disoccupato, egli venne assunto come direttore del cinema Induno situato nel Rione Tastevere più precisamente in Via di San Michele che. dopo Porta Portese fronteggiante l'Istituto San Michele ex riformatorio-carcere minorile e dopo anche il cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti e la Sala Troisi, arriva fino a Viale di Trastevere ex Viale del Re.

Proprio una domenica di quella estate del '57, io e mia moglie eravamo andati, in treno, al Lido di Ostia e al ritorno, scesi alla Stazione Ostiense, decidemmo di andare a quel cinema Induno per vedere un film famoso: "Il terzo uomo" con Orson Welles.

Naturalmente non pagammo il biglietto d'ingresso grazie a quel mio amico-direttore il quale ci accompagnò fino in sala.

Seduti in una delle ultime poltroncine cercammo di vedere il film. Dico "cercammo" perché dopo neppure un quarto d'ora, stanchi morti com'eravamo, ci addormentammo e fino all'inizio dell'ultimo spettacolo nessuno ci disturbò.

Ci svegliammo verso le ventuno circa completamente imbambolati.

Subito dopo uscimmo e incontrammo l'amico-direttore il quale ci chiese =vi è piaiuto il film?= e noi, in coro, avemmo la faccia tosta di rispondere =molto=.

Non ho più visto "Il terzo uomo".

(Questo ricordo si è riaffacciato nella mia mente e l'ho acchiappato di corsa prima del suo ritorno da dove era uscito).

venerdì 30 settembre 2011

VOLEVO FARE IL MIO ABITUALE SONNELLINO

Ogni giorno, festivo oppure no, verso le 14.00 mi sdraio comodamente in un ex divano-letto nella mia camera, accendo la TV mica per vederla ma perchè senza l'audio la uso come ninna nanna muta
per il mio solito riposino.
Senza bisogno di un sonnifero immancabilmente mi assale un sonno leggero che mi consente di sentirmi al risveglio abbastanza soddisfatto.
Il bello è che cio accade per qualsiasi cosa a quell'ora trasmetta la TV soprattutto se si tratta di film di ogni genere.
Oggi, sempre seguendo lo stesso rito, acceso l'apparecchio mi accorgo che stanno trasmettendo il secondo tempo di uno spaghetti-western, molto vecchio perché il protagonista-buono è un attore oggi famoso sia nel cinema che nelle fiction televisive ma che in quel film doveva avere non più di una ventina d'anni.
Quel genere di film a me non è che piace molto ma, pur non essendo assolutamente un esperto di cinematografia, le prime sequenze mi stanno incuriosendo molto.
Non so chi è il regista, certamente non il grande Sergio Leone e neppure uno di quei famosi registi d'oltre oceano ma dev'essere anche lui alle primissime armi.
Allora, sempre senza audio, assisto a delle scene incredibili: una dozzina di cowboys dalle facce truci guidati da un soggetto con i tratti del viso da criminale incallito evidentemente sono i protagonisti cattivi, i quali stanno cercando di far uscire da una piccola casa di legno e paglia un loro compare il quale si trova lì rintanato con una bambina di sette od otto anni. Sembra che malgrado i cattivi minaccino a lungo, il compare non ne voglia sapere. Decidono di dare fuoco alla casa tirando delle torce accese sul tetto di paglia. Immancabilmente sta andando tutto a fuoco e quindi il compare esce con le mani alzate ma i cattivi lo fanno secco. La bambina invece si salva. In lontananza, nella vasta prateria, s'intravede un cavaliere che sta galoppando verso la casa in fiamme; i cattivi appena lo vedono gli sparano addosso una tale bordata di revolverate da far fuori un intero esercito ma il cavaliere – è di certo il protagonista buono – malgrado le fiamme e le pistolettate entra in casa, esce con la bambina in braccio, si mette al riparo di un covone di fieno o grano non so bene e risponde al fuoco con un revolver a tamburo. Comincia a sparare in continuazione e, come se avesse una mitragliatrice, fa secchi i cattivi anche due alla volta – come faccia non si capisce – all'infuori dal loro capo che se la svigna. Nella scena successiva la "bella" del film è legata ad una sedia nelle mani di un altro cattivo – deve essere un socio di quello di prima. Improvvisamente irrompe il buono il quale dev'essere il "lui" della bella e, mollando un solo pugno, tra l'altro distante dal viso del cattivo-bis, costui crolla a terra. Riappare quello cattivo di prima che ha assoldato altri compari simili a lui; solita sparatoria con la bella liberata e ben riparata mentre il buono risponde al fuoco spedendo all'altro mondo tutti i gaglioffi eccetto il loro capo il quale essendo rimasto senza colpi in canna è costretto a scazzottarsi con il buono che ovviamente ha la meglio e consegna il cattivo allo sceriffo accorso quasi subito – molto quasi – accanto al vincitore. Campo lungo che fa vedere allontanarsi abbracciati il buono e la bella.
Benché la visione di questo "indimenticabile" pseudo film sia terminata da poche ore ho voluto
descriverne alcune scene per timore di dimenticarmene ove mi andasse di rivederlo ancora .
Con tanti saluti al mio abituale sonnellino quotidiano.

lunedì 26 settembre 2011

STAVA DIVENTANDO QUALCOS'ALTRO...

...mentre la prima volta era stato solo sesso.
Incontrai quella persona un giorno alla fermata della metro ed entrammo insieme ad altri pochi passeggeri. Di posti a sedere ce n'erano molti e quindi non ebbi alcuna difficoltà per accomodarmi e seguitare a leggere un romanzo che avevo acquistato un paio di giorni prima. Si sedette accanto a me e poco dopo mi chiese se quello che stavo leggendo era di mio gradimento. Mi pregò di scusarlo per essere stato forse inopportuno ma l'aveva incuriosito il fatto che stavo leggendo lo stesso romanzo che lui aveva terminato di leggere proprio la sera prima. Non mi espresse il suo parere e neppure mi accennò qualcosa sulla trama. Lo ringraziai per questo.
Due fermate prima della mia lui si alzò e prima di scendere mi disse guardandomi fisso
= Domani mattina starò alla stessa fermata della metro e alla medesima ora, arrivederla!
Io rimasi di stucco e per tutto il giorno non feci che pensare a quel tale che non aveva detto altro per l'intera durata del viaggio ma soltanto quella frase pronunciata in modo così perentorio.
Ma come si era permesso un giovanotto che poteva avere al massimo ventisei o ventisette anni ad usare quel tono nei confronti di una come me quasi quarantenne che quell'età la dimostrava tutta?
Ad ogni modo la mattina dopo appena scesi le scale della fermata lui era già lì.
Si avvicinò e mi disse
= buongiorno, oggi niente romanzo? Ha già terminato di leggerlo?
= mi ascolti, lei è abituato a importunare la gente o mi ha scambiato per qualche altra sua conoscenza?
= no. Le confesso che sono stato colpito da qualcosa che non so decifrare bene...
= allora l'aiuto io. Non la conosco e mi dà fastidio parlare con sconosciuti perché...
= ecco la metro. Entriamo?
Mi misi seduta e lui accanto a me. Dopo un po' mi fa
= la prego di scusarmi, rimedio subito presentandomi: mi chiamo Diego, ho venticinque anni, sono scapolo, vivo con i miei genitori, non ho fratelli o sorelle e lavoro presso una società di assicurazioni. Lei invece?
= ritiene che tutto quello che mi ha appena detto mi può convincere a dire qualcosa di me?
= forse no ed ha tutto il diritto di non farlo. Ad ogni modo lei domattina mi troverà alla sua – direi ormai nostra – fermata ed alla stessa ora di oggi. La ringrazio e la saluto perché devo scendere.
E così seguitarono questa specie di appuntamenti poco concreti.
Dialogammo però molto di più ed ognuno di noi, io soprattutto, man mano che il tempo passava gli raccontavo molto di me. Finchè un giorno decisi d'invitarlo a cena a casa mia. Vivevo da sola, single com'ero non dovevo chiedere il permesso a nessuno. Avevo ancora i miei genitori e due sorelle sposate che avevano la loro vita e ogni tanto si pranzava tutti insieme ad un ristorante gestito da amici fraterni di mio padre.
Ciò di cui mi preoccupava di più era il fatto che man mano che il tempo passava ci sentivamo sempre più attratti l'uno dall'altro malgrado la differenza d'età che a me dava molto fastidio ma lui invece non se ne curava affatto.
Finì come entrambi desideravamo e almeno due sere a settimana i nostri incontri si susseguirono regolarmente e felicemente.
Ma un giorno, senza alcun apparente motivo, mi sentii una persona senza scrupoli come se fosse colpa mia se uno troppo giovane si fosse innamorato di me. Pensai di essermi approfittata della sua ingenuità. Ed invece ingenuo non lo era affatto.
Mi si presentò un'occasione ed io la colsi al volo. In ufficio mi avevano proposto un posto più prestigioso se mi fossi trasferita a Milano. Accettai senza indugio ma quando ne informai Diego la sua reazione fu come se avesse ricevuto una mazzata. Non ci voleva credere e mi pregò di rifiutare quell'offerta anche se per me vantaggiosa sotto molti punti di vista.
Nonostante ciò mi trasferii a Milano perché mi rendevo conto che stava diventando qualcosa di molto diverso da una semplice relazione tra due persone consenzienti.
Ed era proprio quello che mi aveva spaventato e che volevo evitare per troppi comprensibili motivi.
Non ci sentimmo e non ci vedemmo più.

mercoledì 21 settembre 2011

QUELLA VACANZA DEL '71 - scritto nell'aprile del 2009

Un viaggio in Inghilterra o meglio a Londra in particolare è stato, sin dall’infanzia, il sogno del
mio rampollo. Fu così che nel giugno del ‘71, ultimate le scuole, tanto fece e tanto disse che, dopo una lunga e faticosa battaglia, vinse le mie reticenze e riuscì a convincermi a programmare il viaggio. Una curiosità: a quel tempo lui aveva 12 anni io 41… E questa non è stata, purtroppo, l’unica sua vittoria: altre se ne sarebbero presto aggiunte.
=Mese di luglio dell’anno di grazia 1971 d.c. La decisione fu presa. Per dire il vero a decidere furono, all’unanimità, il rampollo e la mammina. Questa è la democrazia, la maggioranza vince.
Dunque, ritorniamo allora a quel giorno. Si va a Londra. Ma ecco i primi quesiti: come ci si arriva? Esistono varie opzioni: a piedi, con i pattini, in bicicletta, in carrozza, a cavallo, in macchina, in treno, in deltaplano, col pallone aerostatico, in nave - una crociera? Il mio sogno. Oppure in aereo Su quest’ultimo mezzo ho posto il mio veto.. Una breve consultazione: chi ha la patente? Io soltanto. Rapidamente viene presa la decisione - da loro due - andiamo in macchina. Sebbene abbia compiuto tre anni appena pochi giorni fa, Celestina - trattasi di una Fiat 1100/R -,. ha espresso la volontà pure lei, di farsi visitare dai suoi specialisti del ramo: elettrauto, gommista, meccanico ed io l’accontento. La ricerca del percorso da fare è un po’ più problematica. Chiedo in giro e riesco a sapere dove si trova un’agenzia di viaggi che si occupa esclusivamente di organizzare vacanze in Inghilterra. Recatomi sul posto indicato mi presta la sua attenzione una distinta signora dall’aspetto giovanile che mi spiega, in italiano ma con un piacevole accento anglosassone, l’itinerario migliore per arrivare a Londra. Mi consegna addirittura un depliant con annessa cartina stradale turistica dove è tracciato minuziosamente l’intero percorso da Roma a Londra. La milady mi fornisce ulteriori dettagli circa la prenotazione da fare sia per il traghetto con il quale dovrò attraversare il Canale della Manica, sia per una camera in un decoroso albergo londinese. Mi suggerisce altresì alcuni preziosi consigli tra i quali anche quello di munirmi di moneta appropriata prima della partenza. Tramite un amico che lavora in banca, cambio una certa quantità di lire italiane in dollari.
=Primi di agosto dello stesso anno di grazia 1971 d.c. Finalmente, dice il rampollo, arriva il giorno fatidico: si parte. L’equipaggio del mezzo è composto dal primo pilota - pardon autista -che sono io, dall’assistente addetta anche alla sussistenza che è la mia metà e dal nostro unico figliolo. Questi, dopo essersi impossessato a viva forza del depliant e annessa cartina, si autonomina subito navigatore con precisi compiti ciceroniani, si installa sull’ampio sedile posteriore e mi affligge elencandomi indicazioni e istruzioni con una continuità impressionante. Percorriamo l’Autostrada del Sole - a quei tempi si chiamava così - a discreta velocità, fermandoci soltanto per questioni impellenti. C'è da tenere ora in considerazione le ripetute sollecitazioni del rampollo che chiede ogni dieci minuti: quando si arriva a…?, quante ore mancano per…? e via discorrendo. Letteralmente stremato, dopo oltre 620 chilometri, ci fermiamo ad Alessandria, in Piemonte, per mangiare un boccone e per cercare di riposare in una piccola pensione. Ma, sia io, per la stanchezza, sia il rampollo, per l’eccitazione, non riusciamo a prendere sonno. L’indomani, dopo una breve colazione, si riparte. Torino, Aosta e il Valico del Gran San Bernardo superato il quale mettiamo ruote e piedi in Svizzera, a Martigny dove il rampollo “deve”, così afferma lui, dare seguito a quello che io definisco “il patibolo del fotografato”: e cioè deve scattare alcune foto-ricordo. Continuiamo il viaggio e cammina, cammina, no, pedala, pedala, neppure, beh insomma proseguiamo e arriviamo in Francia dove ci fermiamo per una breve sosta, naturalmente con foto, a Besancon. Il rampollo-navigatore mi incalza, facendomi inca…re, dicendomi che siamo vicini a Reims quindi ormai non manca molto per Calais dove si trovano i traghetti per la traversata. Lui, con quel depliant e annessa cartina, è già arrivato. A parole. Da parte mia è perfettamente inutile smoccolare anche perché il rampollo si sente confortato dall’atteggiamento della mammina. Io conto unicamente perché devo guidare. Nei pressi di una strada, ritengo provinciale, troviamo una deviazione per lavori in corso che ci costringe a percorrere una sorta di viottolo di campagna, il tutto in mezzo a una piantagione di non so che tipo e che sembra non finire mai. Fortunatamente mi incollo alle ruote di un’altra auto con targa francese che mi precede e che appare, l’autista, non lei, sicuro di sé. E’ sera inoltrata quando all’orizzonte vedo Calais! Siamo qui con due giorni di anticipo ed il nostro traghetto partirà fra 48 ore. Allora, cerchiamo e troviamo un albergo dove soggiornare. Dopo le formalità di rito entriamo nella stanza che ci è stata assegnata e la mammina, dopo aver esaminato attentamente il letto dove dovremo dormire, afferma categoricamente che le federe dei guanciali non sono pulite sventolandomi sotto il naso alcuni capelli. Discutiamo un po’ e poi decidiamo di andarcene l’indomani. Questa notte dormiamo seduti. Dopo la colazione mattutina decido di fare un tentativo. Mi reco al punto d’imbarco dei traghetti per l’Inghilterra. M’imbatto in un giovane dipendente della società di navigazione e gli chiedo, in uno slang misto inglese-italo-americano, se esiste la possibilità di anticipare il traghettamento. Lui mi informa che si può fare soltanto se non ho camper o roulotte al seguito; gli dico che al mio seguito ho soltanto una moglie e un figlio ma questo non è un impedimento - secondo lui. In neppure mezz’ora ci troviamo a bordo. La fuga da Calais è riuscita. Dopo aver sistemato Celestina, saliamo sul ponte del traghetto e ci gustiamo l’attraversamento della Manica. Il rampollo non fa che scattare fotografie. Io continuo a dirgli di sospendere ogni tanto, ma è come parlare alle “bianche scogliere di Dover”- England- che ad un certo momento ci appaiono in lontananza. Esulta il rampollo come farebbe un marinaio di vedetta su una nave in difficoltà gridando a gran voce: “terra, terraaaaa”. Celestina ci accoglie nel suo grembo e noi cominciamo le operazioni di sbarco quando veniamo subito stoppati da un’enorme “bobby” che, pur sorridendo, mi fa capire che sto andando per il verso sbagliato. E’ vero! Mi torna in mente uno dei consigli di milady: qui la guida è a sinistra. Il rampollo e mammina sghignazzano ma io fingo di averlo fatto di proposito per vedere come andava a finire. Comunque è meglio che da adesso in poi mi ricordi di questo piccolo particolare. Faccio subito rifornimento di benzina anche perché qui costa meno e, seguendo le istruzioni del “navigatore”, imbocco la strada per Londra. Appena vi arriviamo, riusciamo a trovare facilmente il piccolo albergo che ho contattato prima di partire perché si trova in una zona abbastanza centrale: nei pressi di Hyde Park al vertice del quale è lo Speaker's Corner il famoso angolo dei liberi oratori domenicali e Marble Arch . Parcheggio davanti l’albergo, trasloco famiglia e bagagli nella camera senza bagno che ci hanno assegnato e ci mettiamo subito in moto, a piedi, per visitare la città e dare inizio alla nostra vacanza. Il vialetto dove si trova l’albergo è piacevole, con delle panchine lungo il suo percorso personalizzate, nel senso che su ognuna di esse c’è una targhetta con nome, cognome e una data: devono essere state donate dalle persone che vi sono indicate. Ci troviamo subito in Oxford Street dove noto una fermata dell’”underground”, un negozio che vende anche giornali italiani, una banca: insomma sono, cioè siamo soddisfatti. Dobbiamo trovare qualche locale dove si può mangiare qualcosa senza incidere troppo sulle nostre sostanze, sia a pranzo che a cena, poiché l’albergo dove soggiorniamo offre soltanto il “breakfast” al mattino. Passeggiando notiamo però che ci sono in giro dei banchetti-carretto che vendono “hot-dog” caldi e alcuni piccoli locali dove si possono acquistare “fish and chips”, oltre a numerosi “pub”,naturalmente. Una mattina siamo andati in uno di questi per prendere un caffè ma hanno impedito al rampollo di entrare perché non aveva l’età e lui è rimasto fuori con un muso così lungo che toccava terra. Avremmo fatto meglio anche noi a non entrarci dato che il “coffee english”somiglia più ad una purga allungata che ad un qualsiasi caffè all’italiana. Quel caffè che continuiamo a chiedere ogni giorno. La prima giornata londinese termina alle 21 circa, ora in cui io decido che è meglio rientrare in albergo per il meritato riposo: nessuno si oppone perché siamo stremati. Il giorno seguente consumiamo la prima “breakfast” e decidiamo subito che per noi quello non è da considerare come una prima colazione, ma è da paragonare ad un pranzo: tè, milk, bacon, butter, corn-flakes, eggs, orange juice, per di più serviti al tavolo dal proprietario o gestore dell’albergo. Con la pancia piena ci dirigiamo verso la macchina che avevo parcheggiato poco distante il giorno prima e trovo sul parabrezza un foglietto avvolto nella plastica, probabilmente per evitare che si rovinasse in caso di pioggia, nel quale sono riuscito a tradurre che mi è stata appioppata una sostanziosa multa per divieto di sosta. Vado dal proprietario dell’albergo e gli chiedo se mi può indicare un garage vicino per poter posteggiare la macchina per qualche giorno. Mi reco al locale indicatomi e due robusti africaner mi accolgono ben volentieri e mi indicano dove far riposare Celestina, anche ad un costo abbastanza conveniente.
Prima di iniziare la visita turistica dei principali luoghi e monumenti londinesi cerchiamo di imparare bene i numerosi percorsi dell’underground distinguibili perché tratteggiati con colori diversi. L’unico che li sa distinguere a meraviglia e rapidamente chi è se non il rampollo? Il quale soltanto due o tre giorni dopo il nostro arrivo, approfittando di un mio momento di debolezza, mi strappa il permesso di andarsene da solo a farsi un giro per la metro di Londra con grande disapprovazione della mammina. Eccoci quindi pronti a trascorrere la nostra vacanza visitando tutti i posti più famosi della città, vediamo inoltre il cambio della guardia davanti Buckingham Palace, il passaggio del battello sul Tamigi e incrociamo spesse volte i caratteristici taxi e bus londinesi a due piani di colore rosso. Non manchiamo anche di fare una capatina – ahimè - all’immenso magazzino “Selfridge” sulla Oxford Street. Tutto ciò implacabilmente immortalato da un’ossessionante sequela di scatti fotografici tra i quali quello in cui io e la mammina veniamo inquadrati dal rampollo ai piedi della statua di Riccardo Cuor di Leone. Questa fotografia è particolare perché, oltre a noi due, il rampollo ha fissato in modo inequivocabile il “corpo del reato” da lui commesso. Gli ho sempre raccomandato di badare a dove appoggiare la custodia della macchinetta fotografica ogni volta che avesse sentito la bramosia di scattare foto, ma quella volta la mise sul tetto di una macchina in sosta nei pressi della statua e lì fu dimenticata, non da me. Starà ancora lì ad aspettare il suo proprietario?
E venne il giorno...
- 1)del primo imprevisto: nel leggere un quotidiano italiano apprendo che il “dollaro sta calando”; mi precipito in banca e nell’effettuare il cambio constato che effettivamente ci sto rimettendo un bel po’. E così nei giorni a seguire. Alla faccia dei preziosi consigli della gentile milady di Roma. In fondo però come poteva saperlo?;
- 2)di un “e-vento” anch’esso non previsto. Una mattina, dopo aver fatto colazione, stiamo per uscire, attraversiamo la piccola hall dell’hotel dove scorgiamo, seduto di spalle su un divano, uno sceicco arabo - lo desumo dal suo abbigliamento - che sembra assopito. Improvvisamente - io sono innocente, lo giuro- si sente un”peto” talmente sonoro che lo sceicco si volta bruscamente e ci guarda spaventato. I due, rampollo e mammina, dopo avermi rimproverato ad alta voce chiamandomi pure per nome, se la danno a gambe, come se fosse colpa mia. Che potevo fare? Sono arrossito ed ho detto umilmente “sorry”;
- 3)della piacevole vista, nei pressi della Victoria Station, di un locale: un grill-room gestito da italiani dai quali ci facciamo servire qualche piatto di cui avevamo nostalgia. C’è però un problema: tutto viene servito col butter. Alla mia richiesta di un po’ d’olio d’oliva si guardano in faccia ma non si perdono d’animo: lo vanno ad acquistare in farmacia!;
-4)del guaio da me combinato quando ho lasciato Celestina al garage: i due africaner appena mi vedono cominciano a sbraitare talmente inca…ti che soltanto dopo un bel po’ riesco a capire quello che ho mal-fatto. Non solo non ho lasciato chiavi ma ho addirittura messo il bloccasterzo. La qual cosa, come si può immaginare, ha impedito a chiunque di spostare Celestina da lì dove, parecchi giorni prima l’avevo posteggiata, cioè dietro a due macchine alle quali è stato impedito ogni più piccolo movimento, sia “avanti sia indrè”;
- 5)dell’imperdibile - dice il rampollo- partecipazione ad un evento calcistico: una partita del campionato inglese tra due squadre londinesi di notevole qualità dove peraltro giocavano alcuni famosi calciatori che avevano preso parte ai campionati mondiali dell’anno precedente. Benché lo stadio si trovi a Londra, la strada per arrivarci è piuttosto lunga, ma la sa altrettanto lunga il rampollo-navigatore che con la sua cartina in mano mi dirige autorevolmente. Faccio una sosta accostando a sinistra davanti un negozio per acquistare non rammento cosa. Appena entrato la signora che è al bancone mi dice in inglese che io sono italiano. Incuriosito, le chiedo, cercando di farmi capire, come fa a saperlo e lei mi indica il borsello che ho sul braccio: un segnale preciso della italica moda di quegli anni. Quando usciamo dal negozio io e il rampollo vediamo che un bobby tutto sorridente sta scrivendo qualcosa su un blocchetto davanti a Celestina ed alla mammina che, anche lei sorridente, se ne sta placidamente seduta al posto del passeggero. Col mio famigerato slang cerco di spiegare al bobby come stanno le cose e lui, sempre sorridendo, mi fa capire che possiamo andare: la multa potrà essere pagata successivamente. Giunti allo stadio, comodamente seduti tra i placidi tifosi delle due squadre, assistiamo all’incontro ma dopo poco l’inizio del secondo tempo qualcuno di noi ha urgente bisogno del bagno. Ci alziamo tutti per andare a cercarlo, ma ci accorgiamo presto che non è né il momento né il posto più indicato.. Quel poco di trambusto creato da noi che andiamo alla ricerca del bagno è qualcosa di comico. Gli spettatori inglesi seduti vicini a noi ci lanciano appena un piccolo sguardo: la classica flemma britannica.
- 6)dell’incredibile giornata del 15 agosto: un freddo cane ed una pioggerellina fastidiosa, fortuna che abbiamo gli indumenti adatti. Il giorno dopo però, ci ritroviamo un sole meraviglioso tanto che Hyde Park è pieno di gente che si crogiola al sole seminuda. Indico alla mammina di accomodarsi su una sdraio, mentre io e il rampollo ci allontaniamo un attimo. Al nostro ritorno notiamo che la mammina sorride amabilmente ad un bobby che, anche lui sorridente, ha un blocchetto in mano e cerca di farsi capire dicendo che per occupare una sdraio occorre pagare qualcosa. Sistemo la questione e ce ne andiamo tutti a passeggio;
- 7)della “mazzata”: il giorno prima del nostro rientro in Italia mi viene l’idea di pranzare in un vero ristorante italiano. Lo troviamo rapidamente ed entriamo: notiamo subito che è un bellissimo locale. Mentre ci accomodiamo, ci viene incontro un distinto cameriere anche lui italiano il quale ci fa sedere ad un tavolo addobbato lussuosamente. Senza indugio, gli chiediamo di portarci del buon vino italiano ed i piatti del giorno, magari pesce, e non vogliamo leggere il menù. Ci viene servito un ottimo pranzo ed al termine, dopo un vero caffè italiano, mi viene consegnato discretamente il conto. Ho un lieve mancamento ma con signorilità pago, invito i miei ad uscire e, appena fuori, mi riempio la faccia di pugni. Loro non capiscono ma io ricorderò questo pranzo per l’eternità.
=Il giorno del ritorno è arrivato. Decido di non rifare la stessa strada del viaggio d’andata. Quindi da Dover, col traghetto, sbarchiamo a Ostenda, in Belgio, proseguiamo per la Germania dove arriviamo che è quasi notte. Stiamo percorrendo un’autostrada, senza pedaggio ma anche senza autogrill, motel o pompe di benzina dove poter chiedere asilo e informazioni. Ad un tratto il rampollo mi fa cenno che ho appena sorpassato un cartello indicatore. Rischiando di schiantarci verso alcune auto che stanno sopraggiungendo a forte velocità, a marcia indietro torno dove effettivamente c’è un cartello con la scritta “Ausgang”. Finalmente un qualche luogo dove poter sostare. Dobbiamo però fare parecchi chilometri prima di giungere ad una cittadina che non credo si chiami come indicava il cartello. Io però il tedesco non lo parlo e quindi si può chiamare come crede. Troviamo un albergo dove un omone che si presenta con un cane enorme, lupo, pastore, leone non so, comunque al guinzaglio e con la museruola, ci concede di entrare. Siamo stanchi, ma riusciamo a riposare bene. La mattina dopo, ingoiata un’abbondante colazione, riprendiamo l’autostrada verso l’Italia. Lungo il tragitto, pensando ad una breve sosta, ci fermiamo nei pressi di una bassa costruzione dove vedo fermarsi altra gente. Mentre ci avviciniamo, notiamo che si tratta di una specie di bar automatico nel senso che tutto ciò che desideri di commestibile si può avere infilando monete nelle apposite feritoie di alcuni scaffali ricolmi di cibi e bevande. Stiamo consumando quello che abbiamo scelto quando si avvicina un distinto signore, capelli bianchi, bel portamento il quale in un discreto italiano mi racconta che durante la guerra ha fatto il soldato proprio di stanza a Roma e quindi appena ha letto i dati della targa di Celestina ha voluto fare la nostra conoscenza e salutarci. Gentile però. Commentiamo il fatto ed intanto arriviamo in territorio italiano ma dopo un lunghissimo tunnel, appena ne usciamo, c’investe una specie di tempesta. Vento e pioggia a secchiate, buio da fare spavento tanto che non si riesce a vedere al di là del parabrezza di Celestina. Fortuna che ci troviamo sull’Autostrada del Sole! Appena intravedo una grossa stazione di servizio con tanto di area di sosta mi precipito e vedo che già altri hanno avuto la stessa idea, specialmente alcun grossi Tir. Visto che il temporale non smette decidiamo di
trascorrere la notte tra le braccia della nostra Celestina. L’indomani, appena spuntato il sole, ci affrettiamo a riprendere il cammino verso casa. Il che avviene in tarda serata. Tutto è andato bene? Credo di sì. Celestina non mi ha creato problemi e meno male perché ne avevo avuti già in abbondanza. La vacanza è terminata.
Arrivati a casa, parcheggio Celestina accanto il marciapiede, scendo, m’inginocchio e bacio la terra ove poggio i piedi.