giovedì 13 maggio 2010

AMLETICO DILEMMA

Con l'appropinquarsi della bella stagione – secondo me ne sono rimaste solo due e non so quali siano – in giro per Roma si notano turisti singoli o in gruppo col naso all'insù ad ammirare le bellezze che questa città offre, con le mani impegnate a tenere una carta toponomastica e con gli occhi rivolti alla ricerca di qualcosa.
Durante il mio quotidiano peregrinare qui nel mio Rione, ne incontro a frotte e a me questo fa piacere anche perchè mi sembra di intravedere nelle loro espressioni un interesse estatico.
Come detto più volte sono stato fermato spesso e con molta cortesia per informazioni circa vari luoghi, monumenti e percorsi.
Quando ho potuto e saputo interpretare le richieste ho risposto molto volentieri.
L'altro ieri però mi è accaduto un fatto che mi fatto nascere l'amletico dilemma.
Mi sono chiesto: per caso le guide turistiche hanno un aspetto particolare e io somiglio loro?
Perché se è così devo prendere accordi con il Comune affinché io venga dotato di cappello con visiera simile a quello dei vigili urbani nonché di targhetta plastificata con su scritto a caratteri cubitali TU DOMANDA E IO RISPONDO almeno in cinque lingue: francese, inglese, spagnolo, tedesco e italiano.
Quanto alla retribuzione per tale mia opera, che ritengo meritoria e che penso dia lustro alla città credo che l'accordo sia facilmente raggiungibile trattandosi di lavoro a tempo determinato co.co.pro. oppure, a scelta, co.co.tas: a tassametro, un tot l'ora.
Tutto questo naturalmente dopo aver frequentato un regolare e accelerato corso di mimica facciale e gestuale non conoscendo io le sopraelencate cinque lingue, forse un po' l'ultima.
La soluzione mi è venuta in mente a seguito di quanto accadutomi ieri.
A metà strada tra dove abito e la centrale Stazione Termini vengo molto gentilmente fermato da una giovane ragazza asiatica la quale reca con sé una enorme valigia a rotelle, uno zainetto e un borsone a tracolla.
Evidentemente stanchissima prende fiato, mi fa un inchino cerimonioso e a me sorge spontaneo farle la domanda "Japan?". Lei, come se le avessi detto di aver vinto il primo premio di non so quale lotteria, con uno splendido sorriso mi conferma "yes!". Poi in un inglese giapponesizzato o in giapponese inglesizzato mi chiede qualcosa. Naturalmente stento a capire cosa vuol sapere ma in quello che dice riesco ad acciuffare una parola molto storpiata "Termini" e allora tiro un sospiro di sollievo – per la verità, vedendo scomparire dalla faccia la mia espressione interrogativa , anche lei lo fa – ed ha inizio l'opera ardua di farle capire come arrivarci.
Facendole notare un certo punto del percorso che deve fare, tra l'altro in salita, le indico un semaforo e non sapendo tradurre questa parola alzo la mano destra, apro e chiudo le dita a becco d'anatra per cercare di mostrarle l'alternanza dei colori e le dico, in inglese, i loro nomi: red=rosso, yellow =giallo, green=verde.
Lei, che sembra aver capito, mi fa un bel sorriso. E fino a qui ci siamo.
Poi tentando di farmi capire con i gesti le dico che arrivata al semaforo deve girare a destra. "Right"?, mi fa lei e io, che questa parola la conosco, annuisco sorridendo due o tre volte. Quando però mi chiede qualche altra cosa guardandosi intorno io non riesco a capire e le mormoro a testa bassa "I am sorry" che, se non ricordo male vuole dire "sono dispiaciuto".
Le mie reminiscenze per quanto riguarda la lingua inglese si fermano qui e risalgono al giugno del 1944 quando Roma, durante la seconda guerra mondiale, venne "liberata" dagli angloamericani.
Terminato il dialogo, se così si può chiamare, ci salutiamo: lei chinando la testa, io facendo altrettanto per la qual cosa abbiamo corso il rischio di darci una reciproca testata. La vedo arrancare su per l'erta mentre io prendo la strada certamente più agevole per rientrare a casa.
Percorsi un centinaio di metri mi blocco quasi fulminato da due pensieri:
1° pensiero doloroso: credo che Madama Butterfly voleva che le dicessi se nelle vicinanze c'erano bus o tram per arrivare a Termini e io, non avendo saputo tradurre, non ho risposto mentre invece so benissimo che a due passi c'è la fermata di almeno tre linee tramviarie che portano per l'appunto proprio alla Stazione centrale;
2° pensiero doloroso: in quel tratto di strada da percorrere per arrivare a destinazione mi sono ricordato, dopo, che ci sono due semafori. Risultato? Mentre girando a destra del primo, così come le ho detto, non si va da nessuna parte, per arrivare alla Stazione Termini occorre invece girare a destra dopo il secondo.
Ripensandoci mi sono chiesto più volte se Butterflfly sia poi riuscita a fare rientro nel Paese del Sol levante.

sabato 8 maggio 2010

MONTICIANO AT BLOGNAUTI AMICI TUTTI

GRATO VOSTRO AFFETTUOSO INTERESSAMENTO stop CORRE OBBLIGO PRECISARE MIA ATTUALE SITUAZIONE stop "ARRESTI DOMICILIARI" IN CASA MAI ACQUISTATA PER MANCANZA CRONICA DENARO "PROVENIENZA IGNOTA" stop OSPEDALI NON ripeto NON HANNO ET NON AVRANNO MIA PRESENZA FINO AT TERMINE ACCERTAMENTI ET CONTROLLI stop ME RICCOMANNO STATEVE BENE stop SALUTI ET ABBRACCI stop ALDO.

martedì 4 maggio 2010

LA LATITANZA DI ALDO IL MONTICIANO...

...dal suo blog inizia oggi e terminerà quando, "amministiato", conoscerà gli esiti di accertamenti, controlli e visite mediche in corso.

sabato 1 maggio 2010

RICORDI BUFFI DA DISOCCUPATO

Oltre mezzo secolo fa ho vissuto anch'io vari periodi di disoccupazione dovuti ad un bel po' di motivi, ma quello che si provava in tali frangenti era un misto di indignazione e di umiliazione.
Ecco perché mi immedesimo in tutti coloro che attualmente sono disoccupati o, purtroppo, in via di diventarlo.
Nel rammentare la mia situazione di quegli anni lontani mi tornano in mente episodi poco gradevoli ma nello stesso tempo buffi, tanto che allora ci scappò anche qualche sorriso forzato. Intorno ai vent'anni a seguito della morte del mio datore di lavoro rimasi a spasso e mi misi subito
alla ricerca di un'occupazione qualsiasi.
La prima difficoltà che incontravo era dovuta al fatto che non avevo ancora effettuato il servizio militare. Ricordo le parole che mi venivano rivolte nel corso dei primi colloqui che facevo con chi, forse, avrebbe potuto assumermi e che suonavano pressapoco così:
= "Carissimo, non discuto sulle sue ottime referenze, ma lei capisce che per la nostra attività non possiamo permetterci il lusso della sua assenza di oltre un anno a causa dei suoi obblighi verso il servizio di leva. Lei sa che per legge noi dovremmo conservarle il posto per tutto il periodo."
Dopo altri due o tre tentativi falliti, andai a fare il servizio militare terminato il quale di nuovo alla ricerca di un lavoro qualsiasi.
Nel frattempo lavori saltuari e in nero.
Mi presentati anche dinanzi alla proprietaria di un grande negozio vicino dove abitavo a quei tempi, la quale preso atto di quanto le stavo dicendo circa i miei precedenti mi disse:
="Bene, lei sarebbe disponibile da subito per questo lavoro?"
="Certamente signora"
="Principalmente lei si dovrebbe occupare di consegne a domicilio presso i nostri abituali clienti dentro e fuori Roma. Abbiamo il nostro furgone adatto al trasporto di cose voluminose. Lei che tipo di patente ha?"
="Veramente non ho patente di nessun tipo."
La signora, dispiaciuta, mi salutò dichiarandosi disposta ad un eventuale secondo colloquio se fossi riuscito a patentarmi.
Un giorno mi ricordai che un cliente del mio precedente posto di lavoro mi aveva preso in simpatia e mi aveva anche detto che era capo-ufficio del personale di una azienda comunale. Lo andai a trovare e mi chiese di fargli avere un curriculum che lui avrebbe esaminato e proposto a chi di dovere. Neppure ventiquattr'ore dopo tornai da lui con quanto richiestomi e attesi circa una settimana prima di ritornarci per sapere qualcosa.
Mi ricevette molto cordialmente e mi disse:
="Sai, andrebbe tutto molto bene, però manca qualcosa"
="Cioè?"
="Non conosci un monsignore, un vescovo che possa farti una raccomandazione scritta da allegare..."
Lo interruppi, gli dissi che poteva restituirmi quello che avevo scritto e me ne andai piuttosto incavolato.
Decisi allora di mettere un annuncio di ricerca di lavoro sul quotidiano più diffuso di Roma nel quale avviso precisavo che, come dattilografo, avrei accettato di lavorare anche non in pianta stabile.
Il giorno dopo la pubblicazione di tale mia ricerca di lavoro ricevetti una telefonata e una voce femminile mi chiese:
="Scusi è lei che ha messo quell'annuncio sul giornale per un lavoro da dattilografo?"
="Sì, certo, mi dica"
="Ecco, io sono una scrittrice e vorrei sapere se lei può dattilografare sotto dettatura il testo di un mio libro di prossima pubblicazione"
="Certamente, mi dica che devo fare"
="Può venire oggi pomeriggio a casa mia così prendiamo gli opportuni accordi?"
="Va bene, mi dia per favore il suo indirizzo."
Ottenuto l'indirizzo e le relative istruzioni presi nota e mi preparai per questa nuova opportunità di lavoro.
La scrittrice abitava in una lussuosa zona residenziale di Roma, piuttosto lontana da dove abitavo io ma, servendomi di tram e bus, arrivai ugualmente a destinazione con circa quindici minuti di anticipo riguardo l'ora fissata per l'appuntamento.
Entrai nel portone ed un omone in divisa da custode mi chiese da chi dovevo andare, lui si assicurò del fatto tramite telefono interno, mi indicò l'ascensore e salii al terzo piano. Suonai al campanello della porta indicatami in precedenza e, dopo qualche attimo, mi venne ad aprire un cinquantenne, mingherlino, piuttosto scarso di capelli, con indosso una giacca avana, bottoni e spalline dorate. Sarà il maggiordomo pensai. Mi disse di attendere un attimo perché mi doveva annunciare alla signora.
Quando di lì a poco entrai dove presumibilmente avrei incontraro la scrittrice rimasi senza fiato.
Un enorme salone, grande quasi come l'atrio di una stazione ferroviaria, strapieno di poltrone e divani su uno dei quali era comodamente seduta una bella signora, ben attrezzata fisicamente, capelli rosso acceso, di un'età che non riuscivo a definire, profumatissima come se fosse uscita in quel momento da una vasca colma di Chanel n.5. Mi fece segno di avvicinarmi, m'invitò a sedermi ed iniziammo a fare reciproca conoscenza. Confesso che ero affascinato da quella signora, ma nello stesso tempo mi chiedevo quando si sarebbe cominciato a parlare del lavoro che dovevo fare. Ad un certo punto lei si alzò, andò verso una grande finestra che aveva i vetri aperti, si affacciò e mi chiese di andarle vicino poiché aveva qualcosa da farmi vedere giù in strada. Quando, un poco stordito dal profumo che emanava, mi misi accanto a lei, m'indicò un luogo poco distante e mi disse:
="Vede quell'edificio?"
="Sì, sì..."
="È l'Hotel du Soleil. Mi dovrebbe fare la cortesia di andare lì e dire all'addetto alla reception che stasera ho necessità di avere a mia disposizione una stanza matrimoniale..."
="Ma signora per quel lavoro che..."
="Non si preoccupi, oggi non sono in vena, cominceremo domani. Si scriva le mie generalità e vada per favore a prenotarmi una camera per questa sera."
Mezzo imbambolato, presi l'appunto, salutai il maggiordomo-mingherlino comparso improvviamente dal nulla il quale mi accompagnò alla porta e quindi uscii.
Nello scendere le scale cominciai a pensare a quello che era successo. Via via che camminavo verso l'Hotel mi posi alcune domande: perché non prenotava la camera via telefono? Perché non ci mandava il maggiordiomo-mingherlino? Perchè voleva che facessi io quella prenotazione? Mille ipotesi mi ballavano nella testa, ma presi subito una decisione: ridussi il biglietto con il nome della scrittrice in mille pezzettini e me ne tornai a casa. Lei non telefonò né quel giorno e neppure in seguito, io non ci tornai più.
Qualche tempo dopo mi chiamò un architetto conosciuto ai tempi del mio primo impiego, il quale aveva fatto il progetto e assunto la direzione dei lavori riguardo un edificio di civile abitazione di proprietà di una cooperativa. La costruzione doveva sorgere in una zona di Roma, nei pressi dell'EUR, su di un terreno tipo prateria, un po' acquitrinoso, con cavalli, mucche e pecore allo stato brado che pascolavano tranquillamente. La mia mansione consisteva nel dover andare nel cantiere
che si stava aprendo, tutti i giorni feriali, esclusi sabato e domenica, dalle otto del mattino fino alle diciassette del pomeriggio con un'ora di pausa per il pranzo e lì controllare che i lavori procedessero secondo il contratto d'appalto. Dissi all'architetto che io non ne sapevo nulla di lavori edilizi, ma lui mi tranquillizzò dicendomi che ogni giorno gli dovevo telefonare così lui mi poteva fornire tutte le indicazioni necessarie perchè i lavori procedessero secondo quanto stabilito nel contratto. Lui non poteva presenziare perché occupato in altre attività. Lavorai – per modo di dire – in quel cantiere dove vidi sorgere quell'edificio dalle fondamenta fino a quasi l'ultimazione delle rifiniture di tutti gli appartamenti. Poi il 15 dicembre 1956, leggendo una inserzione sul quotidiano di Roma, sempre quello della volta scorsa, trovai il mio impiego definitivo presso uno studio notarile.
Dopo circa sette infiniti anni l'avevo fatta finita con la disoccupazione.

mercoledì 28 aprile 2010

CI RISIAMO

A volte mi chiedo se c'è qualcosa in me – non riesco a definire cosa – che mi fa stringere amicizia con alcuni caratteristici personaggi.
Potrà sembrare persino inventato ma qualche tempo fa mi sono rivisto con un amico poco più grande di me che sembra essere il fratello gemello dell'altro mio amico, quello di "pe' fatte breve er discorso" del quale ho scritto qualche tempo fa.
Intendiamoci non per i tratti somatici o per l'aspetto fisico, ma per il modo di dialogare. Lo stesso,identico.
Sarà forse perché ci siamo frequentati tutti abbastanza a lungo e abbiamo quindi assimilato l'uno qualcosa dell'altro
Sta di fatto che quando c'incontriamo, io e questo quasi-gemello del precedente amico, ci ritroviamo a parlare delle stesse cose, come se le avessimo imparate a memoria e ormai stampate nella nostra zucca.
Sembriamo dei replicanti e penso che dobbiamo tutto ciò al nostro progressivo rimbambimento derivante dall'essere giunti alla terza e magari anche quarta età.
Nei primi venti-trenta minuti dei nostri incontri ci mettiamo a parlare di questo, di quello e di quell'altro ancora.
Poi passiamo inevitabilmente alla conta dei superstiti ancora in vita con frasi del tipo "ah, lo sai chi è morto?" - "no" – "coso, come si chiama? Mi sfugge il nome adesso" – "vabbe' me lo dici quando te lo ricordi" – "eppure ce l'ho sulla punta della lingua. Lo conosci anche te...coso ... mi sembra Albe', Umbe'...qualcosa del genere" - "non fa niente, ne parliamo in un'altra occasione".
Così ogni volta che ci vediamo mi parla anche di tale argomento tanto c'è sempre un "coso" che ci lascia.
Quindi arriva il momento di parlare degli acciacchi nostri e di quelli delle nostre rispettive consorti: un elenco lungo quanto mezza enciclopedia medica.
Infine passiamo al suo argomento preferito.
A dire la verità è anche il mio ma per lui è come un'ossessione.
Non può fare a meno di tirare fuori dal suo armadio dei ricordi tutto quello che riguarda gli spettacoli teatrali.
Lui è nato a Roma come me però cinque o sei anni prima e ha quindi potuto frequentare con un certo anticipo i teatri di questa nostra città.
Afferma convinto di averli visti tutti e io ci credo poichè in molti ci sono entrato anch'io, ma lui riesce a precisare le loro ubicazioni, i loro nomi e le successive trasformazioni prima in sale cinematografiche poi, purtroppo, in centri commerciali o destinati a tutt'altro uso. Quindi attacca con le compagnie teatrali iniziando da quelle di sessanta anni prima ed elenca di ciascuna di esse nome e cognome del comico, della spalla, della soubrette, del cantante, del presentatore, etc. Soltanto però del cosiddetto teatro leggero: avanspettacolo, commedie musicali, riviste. Ne parla estasiato ed io, ricordando il precedente amico, ascolto in silenzio tanto è perfettamente inutile che dica qualcosa. Sono certo che in quei momenti non sta parlando con me, ma forse si rivede nei palcoscenici e nelle platee di quei teatri e gli brillano anche gli occhi.
Ciò che mi meraviglia, ma col passare del tempo non me ne sono meravigliato più poichè si dice che sia abbastanza normale, è che lui si rammenti perfettamente di quei tempi trascorsi in teatro, ma se gli chiedo cosa ha mangiato a pranzo seraficamente mi risponde che non se lo ricorda.
Poichè ho assistito anch'io a non pochi spettacoli teatrali di quell'epoca i nomi di coloro che partecipavano tornano in mente anche a me e pertanto cerco di dirgli questo o quel nominativo, ma lui non si accorge neppure che io sia lì e che siamo seduti in quella stanza l'uno accanto all'altro.
A volte cerco di approfittare dei momenti in cui deve tirare un po' il fiato per dire anch'io qualcosa sullo stesso tema di cui si sta dialogando – per modo di dire poiché è soltanto un suo monologo – ma lui mi blocca subito con queste parole: "aspetta, aspetta se no me ne scordo" e riattacca imperterrito.
È molto curioso che tutto ciò non m'infastidisca per niente, anzi mentre lui continua il suo soliloquio io torno a riflettere sui fatti miei.
Una coppia di amici un poco strana la nostra

domenica 25 aprile 2010

UN DUBBIO DIFFICILE DA DISSOLVERE

La loro convalescenza sarebbe finalmente terminata al massimo entro un paio di mesi. Giovani com’erano Bruno e un gruppo di coetanei con i quali aveva stretto una vera amicizia, non vedevano l’ora di lasciare quel posto. Ultimamente gli era stata concessa ogni più ampia libertà ma alle 22 di ogni sera dovevano rientrare, gli sembrava quasi di vivere in una caserma, ma non lo era. No perché chi li controllava erano due suore, le cosiddette “cappellone” per via di quella specie di cappello di un bianco abbagliante, enorme, inamidato e con due grandi falde che sembravano ali di cigno. La loro testa era completamente coperta tanto che non era possibile sapere se avevano o no i capelli. La più anzianotta delle due, la caposala, aveva un volto marcatamente maschile, forse si radeva anche la peluria che s’intravedeva sopra il labbro superiore. I suoi lineamenti erano talmente duri da sembrare scolpiti con martello e scalpello. E’ vero invece che a volte l’apparenza inganna. Caratterialmente era di una dolcezza e di una tale tenerezza che, agli occhi di Bruno ed amici, lei appariva più gradevole anche perché si mostrava molto comprensiva nei confronti della loro condizione passata ed attuale. Al contrario, la suora più giovane che non doveva avere più di 22 o 23 anni, era piccola, rotonda, con un viso così fresco e colorito che sembrava una pesca matura. Era lei quella alla quale erano rivolti gli sguardi più famelici da parte di tutti ma la stessa si sapeva ben destreggiare anche quando inavvertitamente le giungevano i loro salaci commenti. A quel punto il suo pudico viso diventava ancora più rosso, ma le sue poche rotondità che si intravedevano erano miele per gli occhi, i pensieri e i sogni di tutti. Dopo la cena, verso le 20, entrambe le suore si ritiravano nel loro alloggio che si trovava nell’altra metà dello stesso edificio che attualmente li ospitava: un enorme fabbricato di tre o quattro piani con alte guglie gotiche ornamentali che si dipartivano dal tetto. Il fatto singolare era che l’edificio, suddiviso a metà soltanto da una sottile parete di legno, confinava appunto con l’alloggio delle due suore destinate alla cura e sorveglianza nostra. Lo stesso ospitava anche altre loro consorelle oltre ad un bel gruppo di giovani ragazze-madri. La lunga permanenza in quel luogo aveva permesso a questi giovani di conoscere bene quei particolari che però non consentirono loro di andare mai oltre le proprie aspirazioni.
Il gruppetto di amici di cui faceva parte Bruno era composto da quattro o cinque persone, tutte o quasi della stessa età, ma lui era legato da vincoli più stretti soltanto con due di loro: Luigino “il nasone” e Alberto “il pacioccone”. A distanza di tanti anni li ricordava ancora, per molte ragioni.. Luigino si sposò alcuni anni dopo, ebbe due figli, poi morì investito da un’auto: aveva appena 48 anni. Alberto, il più istruito, era diventato un funzionario del Ministero del Lavoro, si era sposato e aveva messo su famiglia anche lui. Si incontrarono un paio di volte poi si persero di vista e non seppero più niente l’uno dell’altro. Col “nasone” la vita era tutta uno spasso. Allegro, estroverso, generoso e premuroso sebbene, orfano di madre, aveva vissuto l’intera sua infanzia e parte dell’adolescenza in un orfanotrofio. Il “pacioccone” invece aveva tutto un altro carattere: buono sì ma introverso, triste. Bruno il “compagnone” doveva fare dei grossi sforzi per farlo sorridere,ma lui, grande appassionato di musica classica e lirica stava quasi tutto il giorno a seguire i programmi di quel genere che ascoltava da una sua radiolina. La mattinata si passava giocando a carte fino all’ora di pranzo. Questo era servito in un gran salone adibito a mensa,vicino l’androne d’ingresso mentre il pomeriggio e parte della sera erano riservati a lunghe passeggiate e ad altri svaghi. Ma Alberto “il pacioccone” non vi partecipò mai. Rimaneva in “camerata” tutti i giorni seduto vicino al suo letto. Non da solo, però. Infatti Suor Severina, la caposala “cappellona”, gli faceva compagnia come…una madre (o un padre?): erano legatissimi mentre gli altri erano più legati a Suor Adele “la pesca”.
A volte tutti trascorrevano qualche ora a parlare dei loro problemi sia di famiglia che personali e cercavano di immaginarsi il loro futuro. L’unico che non partecipava e che si rintanava vicino il suo letto ad ascoltare musica era “il pacioccone”, senza alcuna scortesia da parte sua e pertanto lo si lasciava in pace. Un giorno Bruno e Alberto lessero su un quotidiano, che era stato indetto da un ente pubblico un concorso per l’assunzione di alcuni giovani. Occorreva fare un’apposita domanda e farsi autenticare la firma da un pubblico ufficiale. Bruno e il “pacioccone” avevano i requisiti richiesti perciò decisero di tentare la sorte. Compilarono la domanda e, per l’autentica delle firme, si recarono in una vicina Delegazione Comunale . Arrivati sul posto si trovarono a dover fare una piccola fila dinanzi ad uno sportello dove erano in attesa, per lo stesso motivo, altri giovani come loro tra i quali una ragazza dalla corporatura minuta ma ben fatta nei punti opportuni, capelli biondo-cenere, occhi celeste-chiaro, molto graziosa e socievole. Entrambi rimasero colpiti dalla sua affabilità e dalla sua piacevolissima cordialità tanto che si intrattennero subito con lei come se fossero amici da chissà quanto tempo. Disse di chiamarsi Luisa e Bruno ed Alberto le dissero i propri nomi. Appena usciti dalla Delegazione si recarono insieme al vicino ufficio postale dove spedirono le raccomandate con le domande di partecipazione a quel concorso. Durante il cammino conversarono amichevolmente con Luisa la quale ad un certo punto si mise sottobraccio ad entrambi e chiese loro se fossero dispiaciuti ad accompagnarla a casa. Aderirono di buon grado e, dopo una breve chiacchierata, si scambiarono i rispettivi recapiti telefonici. Quando le spiegarono il perché, pur non essendo parenti, avevano in comune lo stesso numero di telefono lei disse con molta franchezza che non c’era alcun motivo di cui preoccuparsi in quanto anche lei, qualche anno prima, aveva sofferto della loro stessa malattia dalla quale in seguito era guarita completamente. Luisa abitava in una piccola via all’incrocio con Via Appia e, quando arrivarono davanti il suo portone di casa, si salutarono con molto calore e si scambiarono la reciproca promessa di volersi rivedere ancora. Ogni volta però che a Bruno veniva l’idea di incontrare di nuovo Luisa, Alberto diceva che lui preferiva non muoversi da lì e lo invitava ad andarci da solo. Bruno insisteva ma era inutile: gentile come sempre diceva che non se la sentiva di andare. L’aveva visto così ben disposto verso di lei, contento di aver fatto questa conoscenza come Bruno lo era altrettanto visto l’immediato affiatamento che s’era creato tra loro tre. Il DUBBIO assaliva Bruno: perché Alberto non voleva mai uscire da quel luogo? Che cosa lo tratteneva lì? Eppure era uscito per andare in Delegazione e alla posta; era stato brillantissimo in occasione dell’incontro con Luisa, aveva persino promesso che si sarebbero rivisti loro tre insieme, e allora?
Bruno non voleva insistere perché pensava che Alberto avesse le sue buone ragioni. Continuò da solo nel suo amichevole ed ottimo rapporto con Luisa. Si rividero tre o quattro volte per brevi passeggiate durante le quali anche lei cercava di sapere qualcosa circa lo strano comportamento di Alberto ma lui non sapeva spiegarle il perché.
Un giorno, erano tutti a pranzo nella mensa quando dall’altoparlante si sentì che veniva fatto il nome di Alberto perché era stato chiamato al telefono. Strano…Durante tutto il periodo trascorso in quel luogo non si era mai visto né sentito qualcuno che lo avesse cercato. Lui si alzò dal tavolo che entrambi dividevano anche con altri, andò verso la stanza dove c’era il telefono, fuori dalla mensa, fece ritorno dopo una ventina di minuti e si sedette senza dire una parola. Poiché lui non disse nulla e riprese in silenzio a mangiare, nessuno, discretamente, gli fece domande circa quella telefonata.
Nel primo pomeriggio di quello stesso giorno Alberto, vestito di tutto punto, si diresse verso la porta ed uscì. Da solo e senza dire una parola né alla caposala, né agli altri amici e neppure a Bruno. Non era mai accaduto. Come mai? Bruno si pose questa domanda parecchie volte e come risposta si diceva che Alberto non doveva spiegazioni a nessuno anche perché poteva trattarsi di una seria questione familiare che preferiva tenere per sé. Queste sortite di Alberto si ripeterono per oltre un mese al ritmo di due o tre volte per ogni settimana. Poi improvvisamente cessarono del tutto. Nello stesso periodo Bruno aveva smesso di incontrare Luisa perché ogni volta che le telefonava gli diceva che aveva degli impegni e quindi non potevano vedersi. Allora cominciò a collegare questi episodi ed il DUBBIO iniziò a divenire quasi certezza. Però si chiedeva: se Luisa ed Alberto per quel periodo si erano visti, incontrati ed erano stati insieme perché non dirglielo? Avrebbe compreso benissimo e ne sarebbe stato contentissimo soprattutto per Alberto ma anche per Luisa. Secondo lui formavano una bella coppia. Per qualche giorno non domandò nulla al “pacioccone”, poi una mattina decise di telefonare a Luisa. Voleva sentire da lei che cos’era accaduto. Lei non solo si dimostrò felicissima della telefonata ma gli chiese se potevano vedersi il pomeriggio dell’indomani. Avevano fissato l’appuntamento, di comune accordo, a Largo Brancaccio davanti l’ingresso di un teatro. La stagione già permetteva spettacoli all’aperto perciò, dopo aver preso posto ed in attesa che lo spettacolo di varietà iniziasse conversarono per oltre mezz’ora. Luisa lo mise al corrente di tutto; gli confermò che aveva visto giusto e che lei e Alberto avevano avuto una sorta di flirt che poi però avevano deciso, reciprocamente, di interrompere amichevolmente e serenamente. Bruno non volle sapere alcun dettaglio e lei gliene fu grata. Si gustarono lo spettacolo e al termine gli chiese di accompagnarla a casa anche se per farlo dovevano fare una discreta passeggiata. Avviandosi verso casa sua costeggiarono il Colle Oppio, scesero tramite un’ampia scalinata verso l’incrocio di Via Merulana con Via Labicana. Arrivando nei pressi di una breve strada privata Luisa prese Bruno per mano, fecero qualche passo e giunti a metà della strada privata gli fece capire che voleva fermarsi. Si appoggiò al muro di un edificio, lo fece avvicinare a lei, prese il viso di Bruno fra le sue mani e, guardandolo negli occhi, lo baciò leggermente e castamente sulle labbra. Lui rimase perplesso e lei accorgendosi che la guardava con un’aria interrogativa e sbalordita nello stesso tempo, tornò nuovamente a baciarlo ma questa volta con molta più intensità: lui non fu da meno. Benché protetti dalla solitudine della via e dall’imbrunire che li rendeva quasi invisibili non andarono oltre. Teneramente abbracciati ripresero il cammino verso casa di lei senza parlare stringendosi soltanto l’uno verso l’altra. Bruno si sentiva felice ma allora perché il DUBBIO faceva ancora capolino nella sua mente? I loro incontri si ripeterono per più giorni poi però, quando Bruno iniziò a rendersi conto che le cose stavano prendendo una certa piega, disse a Luisa che da qualche anno era impegnato con un’altra ragazza la quale, malgrado tutto, non aveva mai voluto interrompere il loro rapporto. Era un passo che sentiva di dover fare. Si sarebbe aspettato una reazione sdegnosa e sprezzante di Luisa ed invece lei si mostrò molto comprensiva. Disse che si era calata nei panni dell’altra persona alla quale lui aveva fatto un torto sia pure ingenuamente. Volle comunque ringraziarlo per essere stato onesto e sincero con lei e per essersi comportato sempre più che correttamente. Rimasero amici e per un po’ di tempo seguitarono a telefonarsi. Poi, col tempo, più nulla. Bruno, dopo aver chiarito la situazione con Luisa, volle raccontare tutto ad Alberto il quale si complimentò per l’intera vicenda ma non disse nulla su di lui e su Luisa. Perché?. Anche quella volta il DUBBIO si rifece vivo!
Bruno passò varie volte nei pressi dell’abitazione di Luisa e, magari involontariamente, il suo sguardo andava sempre verso il portone di lei. Una di quelle volte, erano trascorsi oltre dieci anni da allora, gli capitò di vederla uscire dal portone di casa sua, sorridente, sottobraccio ad un uomo di bell’aspetto e con due bambini che davano la loro manina ad entrambi. I ricordi gli riaffiorarono nella mente insieme però al DUBBIO. Non si è mai dissolto.

mercoledì 21 aprile 2010

FRASI COLTE AL VOLO

Accade talvolta nei luoghi più impensati di captare, senza volerlo, alcune frasi dette ad alta voce da chiunque si trovi a camminare o sostare casualmente accanto a me.
Probabilmente è un difetto il mio poiché, come se usassi qualche marchingegno per intercettare - va tanto di moda adesso - registro anche brevissimi dialoghi oltre che brevissime frasi.
Soltanto mentalmente per fortuna.
Poi però dimentico tutto con facilità.
Mi stupiscono però alcune frasi che mi rimangono in mente.
Ne cito soltanto qualcuna.
L'altro giorno ero in un centro commerciale e accanto allo scaffale-frigo dove mi ero fermato per un litro di latte e un panino di burro che stavo scegliendo, sostavano tre persone che conversavano ad alta voce: una bella giovane abbastanza florida con tanto di camice d'ordinanza, una signora di mezza età ed un signore molto alto piuttosto anziano anche loro con camici dello stesso tipo. Senz'altro dipendenti di quel Centro.
-La florida: "...e poi sapete che c'è? Io lavoro perché col mio compagno andiamo a vivere da soli e quindi dovremo sostenere notevoli spese..."
-La mezza età: "...ma i genitori non vi aiutano?"
-L'anziano: "...specialmente i tuoi che mi hai fatto conoscere e che adori?"
-La florida: "...altroché, soprattutto loro. Da quando poi mi hanno detto che mi hanno adottato - io avevo appena due anni - il mio affetto è aumentato, ma..."
Per discrezione mi allontano rapidamente, ma queste poche frasi dette tranquillamente e senza alcun timore per la propria privacy averle ascoltate dalla voce della giovane mi ha fatto molto piacere. Stavo quasi congratulandomi con lei. Viva la faccia della sincerità.
*******
Un paio di giorni fa esco da casa piuttosto presto e per arrivare alla fermata del bus devo percorrere un breve tratto di marciapiede sul quale, per il momento, transito soltanto io.
Appena voltato l'angolo, sempre sul marciapiede, c'è uno di quei cassonetti piuttosto ingombranti, di colore giallo che vengono utilizzati per la raccolta di abiti, scarpe e accessori usati e c'è anche un albero per cui si crea soltanto un piccolo spazio per poter andare oltre. Sto per farlo quando sento dietro di me qualcuno che, mormorando chissà cosa, cerca di passare anche lui. Divincolandosi come un'anguilla, questo tale - si tratta di un uomo intorno ai sessanta, capelli bianchissimi, magro come un chiodo, ben vestito, senza nulla in mano e neppure a tracolla – dice a voce alta
-"Bell'anima, perché non stai sottoterra?"
Mi viene spontaneo voltarmi per sapere a chi è rivolta quella frase e incrocio lo sguardo del tale.
Su quel tratto di marciapiede ci siamo soltanto noi due.
Prudentemente allungo il passo senza voltarmi neppure per un attimo e, velocemente, per quello che mi consente l'età, mi allontano.
Chi era, che faceva, che voleva costui? E poi...ce l'aveva con me? Mah!
*******
La mia abitazione si trova al primo piano di un fabbricato confinante con una scuola comunale comprendente asilo, materna ed elementari frequentata per una gran parte da bambini cinesi, indiani, magrebini, pakistani e del bangladesh.
Ieri, alle 16:30, orario di uscita degli alunni, stavo aprendo la finestra della mia camera quando sento delle voci. Guardo in strada e vedo una giovane donna cinese che cammina con accanto un ragazzino di sette od otto anni pure lui cinese il quale, quasi gridando, dice
-"A ma' e mo m'hai rotto le scatole..."
-"ç#[#çç§#ç " (autentico dialetto cinese)
-"No, no e no...adesso devo d'anna' da Limang e..."
-"]ç§§##[" (autentico dialetto cinese)
-"Bonanotte ma'. Quante vorte t'ho devo da di' che li compiti li faccio stasera, dopo magnato?..."
Ho chiuso la finestra cercando di fare meno rumore possibile per non disturbare il colloquio.

sabato 17 aprile 2010

ENRICA

Questo era ed è il suo nome.
Nei primi anni cinquanta conobbe Paolo in occasione di un pomeriggio danzante in casa di una propria parente.
Avevano entrambi tra i diciannove e i venti anni ed erano fidanzati con amici comuni.
Enrica con un giovane coetaneo in procinto di essere assunto presso una grossa ditta, Paolo, in attesa di occupazione, con un'amica di Enrica.
Loro quattro facevano parte di una comitiva piuttosto numerosa e quasi tutte le sere si incontravano in una sorta di osteria-trattoria situata nei pressi delle loro abitazioni per scambiare quattro chiacchiere. L'oste era il padre di uno di loro e quindi si potevano trattenere senza alcun ostacolo dalle tre alle quattro ore ogni volta. Colei o colui che se lo potevano permettere ordinavano una bibita e mangiavano un "cappone". Non era il noto gallo castrato bensì mezzo sfilatino di pane leggermente scottato sulla griglia, condito con una goccia d'olio e un pizzico di sale. Come si usa dire i tempi erano magri e quello era ciò che passava il convento.
Nel corso di questi incontri si rideva, si scherzava e si passava il tempo discutendo di vari argomenti .
Una di quelle sere, Enrica e Paolo, seduti insieme agli altri amici, si accorsero reciprocamente chestavano guardandosi con intensità senza che nessuno di loro ne conoscesse il perché. Non dissero una parola, appena qualche secondo e rivolsero altrove i loro sguardi. Entrambi cercarono di evitarsi per il resto della serata.
Due giorni dopo, quando insieme agli altri si ritrovarono all'ingresso della solita osteria, Enrica prese da parte Paolo e rapidamente gli sussurrò
=Devo parlarti da solo
=Anch'io.
Senza che nessuno se ne accorgesse riuscirono a concordare un appuntamento per il tardo pomeriggio del sabato successivo.
Quando si videro nel giorno e nel luogo concordati si salutarono non senza imbarazzo poi Paolo chiese:
=Va bene per te se prendiamo il bus e scendiamo al capolinea che si trova all'inizio dell'Appia Antica?
=Sì, va benissimo.
Saliti sul bus e lungo tutto il percorso scambiarono tra loro poche parole. Si stavano chiedendo entrambi come affrontare la situazione che si era venuta a creare.
Giunti a destinazione si diressero camminando lentamente verso il prato antistante il Mausoleo di Cecilia Metella, non c'erano panchine e quindi si sedettero sopra i resti di una colonna marmorea proveniente da vecchi scavi archeologici della zona.
=Paolo...te l'ho chiesto io quest'incontro
=Lo so Enrica e sentivo anch'io la necessità di vederci da soli
=Sai anche il perche?
=Sì. Vedi Enrica, a volte certi sguardi sono più espliciti delle parole e di certi comportamenti
=Sono troppo trasparente per cui si nota subito quello che sento dentro di me?
=Dal momento che siamo qui, insieme, noi due soli, non credi che lo sia anch'io?
=Vero. Il fatto è che non dovremmo esserci qui e tu conosci benissimo il motivo
=Perché ti sposi a fine mese
=Giusto. E non è corretto e neppure onesto questo mio comportamento, ma...
=Ma?
=Penso che abbiamo sbagliato i tempi dei nostri reciproci fidanzamenti. Te lo dico con sincerità
=Che intendi fare
=Nulla. Anche se vorrei dirti quello che provo per te. Ho fatto una promessa e intendo mantenerla.
=Ti vuole bene come...
=Come?
=Come e quanto te ne voglio io?
=Credo di sì, a modo suo. E poi io e te non abbiamo fatto mai trapelare quello che sentivamo l'uno per l'altro
=Abbiamo commesso un grosso errore
=Già. Torniamo adesso, ti prego.
Paolo prese per mano Enrica, gliela strinse con delicatezza e si avviarono lentamente verso il bus.
Si stava facendo buio, ma giunti a pochi passi si fermarono si guardarono e si scambiarono un lungo ed appassionato bacio, incuranti di tutto. Poi, senza dire una parola, salirono sul bus e tornarono nelle loro rispettive case.
Il dolce intenso sapore di quel bacio e di quelle labbra rimase a lungo nei ricordi di Paolo e...tuttora vi rimane...
Negli anni che seguirono pur risiedendo nello stesso Rione di Roma s'incontrarono raramente. Invece Enrica e la moglie di Paolo, entrambe con un figlio quasi coetanei, si vedevano spesso nel vicino Parco del Colle Oppio dato che i due bambini giocavano sempre insieme.
Enrica e Paolo evitarono comunque di coltivare la loro di amicizia e se qualche volta per puro caso s'incrociavano, si scambiavano appena qualche parola e si salutavano affettuosamente.
Non molto tempo fa, dopo tanti, troppi anni, accadde qualcosa.
Paolo, per sbrigare una commissione per conto del proprio figlio, si dovette recare presso l'Agenzia di una Banca vicino casa e quando entrò vide che davanti a uno sportello era ferma Enrica probabilmente anche lei per lo stesso motivo. Paolo si avvicinò ad un altro sportello dove non c'era nessuno in attesa e rivolse un cortese saluto ad Enrica poco distante. Lei si voltò, sorrise e subito si avvicinò a Paolo e, rivolto verso l'impiegato che evidentemente conosceva da molto tempo, disse
=Eugenio vuoi sapere una cosa? Vedi questo signore? Più di quaranta anni fa io mi ero innamorata di lui, poi invece...
L'impiegato allo sportello accennò un sorriso imbarazzato mentre Paolo cercava di dire qualcosa senza riuscirci.
Terminate le operazioni in banca, Enrica e Paolo si salutarono abbracciandosi calorosamente alla presenza di tutti gli astanti, impiegati e clienti.
Per poco non ci scappò l' applauso.
Nel riprendere il cammino per il ritorno a casa Paolo ripensò al dolce intenso sapore di quel bacio dei primi anni cinquanta che non aveva mai dimenticato

mercoledì 14 aprile 2010

LA CONFESSIONE

=Lei ha dichiarato esplicitamente, dinanzi a questa Corte, che vuole difendersi da solo…
=Sì Vostro Onore
=E’ informato che se non può permettersi un proprio avvocato le possiamo assegnare un difensore d’ufficio?
=Non è necessario, perché ho deciso di confessare di aver commesso il reato di cui sono accusato
=Si tratta di tentato omicidio, se ne rende conto?
=Sì Vostro Onore
=Il Pubblico Ministero ha nulla da obiettare?
=No Vostro Onore
=Allora procediamo…A lei la parola, ci dica innanzi tutto quando ha visto per la prima volta il…
=Scusi se la interrompo Vostro Onore…E’ successo circa quattro anni fa, ma oggi voglio confessare di avere pensato di fare, quello che poi ho tentato di fare, sin dai primi giorni, e lo confesso senza alcun timore, poiché so con certezza che non ci saranno amare conseguenze per nessuno anzi, al contrario, ci sarà senz’altro qualcuno che mi approverà e mi darà piena assoluzione.
=Ci spieghi il perché e cerchi di non divagare
=Va bene Vostro Onore
=Signor Pubblico Ministero, proceda pure con le sue domande
=Grazie Vostro Onore…Allora imputato, cerchi di raccontarci tutto dall’inizio, senza omettere nulla
=Ecco…Era già da parecchio tempo che uno dei miei fratelli ed altri parenti ed amici mi tormentavano per farmi entrare in casa il “Pasquale di nome, Casinaro di fatto”, ma io avevo sempre affermato che non c’era posto per lui. Un certo giorno, però, precisamente il 21 maggio 2006, suonano alla porta, apro e appare “Pasquale” il quale, in braccio a mio nipote ed alla di lui futura sposa, complice per aver pensato alla casella di posta e-mail, alla password e ad altre diavolerie, fa il suo ingresso trionfante in casa mia. Ora è vero che lui e i suoi annessi e connessi mi sono piovuti gratis in casa grazie ad un altro mio fratello, ma questo non deve assolvere nessuno dall’avermi quasi costretto a convivere con un simile soggetto…E che cavolo!
=Per ora moderi i termini e porti rispetto alla corte. In seguito si faranno accertamenti per vedere se lei potrà avvalersi delle attenuanti generiche
=Faccio appello alla sua bontà, Vostro Onore
=No, io non uso né bontà né cattiveria, io uso la legge. Avanti, proceda.
=Pasquale ed io abbiamo iniziato con lo studiarci vicendevolmente…
=Si spieghi meglio…
=Proprio così. I primi tempi io facevo una mossa e lui rispondeva docilmente, forse perché capiva che ero alle prime armi poi invece, col trascorrere dei giorni, le cose sono andate complicandosi sempre di più. E nonostante il continuo incitamento di parenti ed amici, fra noi due s’era creato un clima di continua ostilità
=Può fare qualche esempio?
=Altroché, ne ho a vagoni di esempi…
=Perché non ne cita qualcuno?
=Prima di tutto il linguaggio brusco e il tono che usa, e questo sin dal primo giorno che è entrato in casa mia. Perbacco, un po’ di rispetto, non sono più un giovincello…
=Ci vuol far credere che ha fatto quello che ha fatto soltanto per un pizzico, diciamo così, di maleducazione?
=Qui non si tratta di pizzichi e mozzichi, si tratta di ben altro…
=Vale a dire?
=Se commetto un errore, ma chi è che non li commette? Anche lei Vostro Onore può benissimo commetterne…
=Lasci perdere per adesso pensi al suo di errore e, mi creda, ne ha commesso uno davvero grosso
=Scusi, dicevo così, per modo di dire…
=Mi ascolti bene. Sono stufo del suo tergiversare, vada avanti altrimenti sospendo la seduta

Oddio!…Un rumore fortissimo. E’ lo sbattere di una porta che mi sveglia di soprassalto e che mi salva dall’incubo. Non c’è alcun dubbio: l’abbiocco post-pranzo, specialmente dopo una “trimalcionica caponata”, per tacere di tutte le altre leccornie, fa venire gli incubi. Naturalmente il personaggio principale che ho intravisto nell’incubo mentre dormivo è “Pasquale Casinaro”- alias PC – alias elaboratore elettronico - alias chissà che altro.

Sono un novellino nel campo dei PC e pertanto non riesco ancora ad apprezzarne tutti i vantaggi e le opportunità, lo ammetto, ma il fatto è che certe cose mi danno davvero fastidio.
Quando nell’usare Pasquale appaiono sul monitor alcune osservazioni, certi suggerimenti o addirittura dei rimproveri, allora m’incavolo un bel po’. Diventa lui il promotore di certe iniziative e in alcuni momenti si prende anche delle libertà. Ma dove si va finire così? E poi, chi lo autorizza? A volte mi chiedo se per caso dentro il PC non ci abiti qualcuno, che ne so: un nanetto, un robottino, un alieno, forse ET si è trasferito in quest’aggeggio. Devo intimargli lo sfratto, assolutamente, prima che lui intimi a me di dover fare alcune cose.
Per esempio, la frase “Fare clic per iniziare” mi dà fastidio.
Il momento più felice per me è quando ci parlo, o meglio io parlo e lui sta zitto. Certo che se avesse anche la possibilità d’interloquire verbalmente con me allora sì che ci sarebbe da ridere. Approfitto del fatto che lui non parla e non sente e mi tolgo le mie soddisfazioni.
Quando in pratica si permette qualche rimbrotto, lo prendo a male parole: lo mando qui, lo mando là, gli dico di farsi i…cosi suoi, gli intimo di non rompermi le cosiddette, etc…tanto lui che può farmi? Tutt’al più quando io faccio clic sulla tastiera, se vuole, fa finta di non aver capito oppure mi fa apparire sul monitor cose che non mi sono mai sognato di voler vedere. Una di queste, che mi fa andare in bestia, è quella in cui dopo aver scritto qualcosa, “clicco” su “Controllo ortografia e grammatica”: lui mi fa apparire una finestra dove mette in risalto quello che secondo la sua opinione è sbagliato e quindi si permette di dirmi che la “forma utilizzata è arcaica”!…E allora? Non siamo tutti discendenti di Noè?. Oppure: la “forma utilizzata è dialettale”…E allora. a lui che gliene importa? Il mio maggiore divertimento nell’usare lo strumento “Controllo…” arriva quando in un piccolo riquadro della stessa funzione lui, il Pasquale, pur facendo risaltare la parola che non gli garba, è costretto a dire “nessun suggerimento”.
Da qualche tempo poi mi diletto a trascorrere alcuni minuti, non molti, cliccando su “Programmi”-“Giochi” - “Solitario (versione classica)” e cerco di “farlo fesso” tentando di barare con le carte facendo l’indifferente, ma ”Pasquale” vede e provvede e mi mette subito in riga. Nel vero senso della parola, perché malgrado io muova la “freccetta” nella direzione che più mi conviene lui se ne strafotte e sistema le carte al loro giusto posto.
Ultimamente siamo proprio in guerra. Il punto è però che non combattiamo ad armi pari: lui è più giovane di me, è furbo, intelligente e scaltro, io invece un po’ tardo nei riflessi e quindi nei movimenti.
Ma deve cominciare a stare attento, perché le nuove generazioni, le ragazze ed i ragazzi, ma soprattutto le bambine e i bambini, sono talmente svegli che lo maneggiano come un flipper, ne fanno quello che vogliono. Loro sanno scoprire le sue enormi potenzialità, io ancora non ci riesco.
Malgrado tutto tuttavia, devo confessare che mi ci sono affezionato e adesso comincio a volergli bene anche se, e questa è la mia confessione finale, ho avuto varie volte la voglia di farlo fuori.
Chissà, potrebbe anche succedere e allora, anziché un incubo, diventerà un bel sogno!.
Ad ogni modo però sarà meglio che io stia più attento poiché ho l'impressione che Pasquale di notte, quando io dormo, si metta a scrivere in mio nome, vece e conto.

sabato 10 aprile 2010

UNA BREVE TELEFONATA

Pronto Carlo? Ciao... sì sono io...
xxxxxxxxxx ?
Perché telefono a quest'ora dici?
xx
Veramente un motivo c'è altrimenti avrei scelto un'ora più opportuna. Però se disturbo...
xxxxxxxxxxxxxxxxxx
Grazie. T'ho chiamato per avere la conferma da te se quello che ho predisposto è esattamente come m'hai detto tu di fare e...
xxxxxxxxxx ?
Sì, sì, tranquillo, adesso comunque ti dico più dettagliatamente. Ti ho anche chiamato per ringraziarti della magnifica notte che mi hai fatto trascorrere...
xxxxxx
Lo so, ho capito, anche tu l'hai trascorsa bene però c'è stato qualcosa in più rispetto le altre volte. È stato così anche per te vero?
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx
Adesso hai capito perché t'ho chiamato. Proprio questa è la ragione per cui...
xxxxxxxxxxxxxx ?
No, no, stai tranquillo, non ho cambiato idea...
xxxx
D'altra parte tu conosci benissimo la mia mansarda e quindi andrà tutto a gonfie vele...
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx ?
Ho cominciato dalla porta di casa, ovvio...
xxxxxxxxxxxxxxxxxxx ?
Certo. Ho chiuso a chiave le due serrature...
xxxxxxxxxxxxx ?
Sì, tre giri di chiave ognuna...
xxxxxxxxxxx ?
Il catenaccio è il primo che ho fatto scorrere...
xxxxx
Per entrare devono usare martelli pneumatici, tranquillo...
xxxx ?
Dopo sono passata a sigillare bene le finestre...
xxxxxxxxxxxxxxxx ?
Sì, sì, proprio con quel nastro adesivo bello largo che ti ho fatto vedere ieri...
xxxxx ?
Tutte certo, tanto sono soltanto cinque: due qui all'ingresso-soggiorno, una in camera da letto, una in bagno e una in cucina...
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx ?
Ti pare possibile che me lo dimenticavo? Tutte le porte sono sigillate in maniera perfetta. Manca soltanto quella della cucina. Adesso vado e porto il cellulare con me, aspettami eh? Appena qualche minuto...
xxxxxxxx
Sei ancora lì, vero Carlo?
xxxxx
Bene. Adesso sto sistemando anche la porta della cucina...Ecco fatto. Sai, ti volevo dire una cosa particolare...
xxxxx ?
Mentre stavo facendo tutte queste operazioni di cui ti ho detto, mi tornavano in mente le bellissime notti trascorse insieme in questi sette mesi, cioè da quando ci siamo conosciuti...
xxxxxxxx
Anche a te? Che bello e intenso il nostro amore, vero?
xx
Bene, sono contenta. Mi sembra di aver finito qui. Porta e finestra sono chiuse ermeticamente e...
xxxxxxxxxxxxx ?
Sì, il cellulare l'ho qui con me. Lo spengo dopo che ti ho salutato. Sto aprendo tutti i rubinetti della macchina del gas...
xxxxxxxxxxxx ?
Sì anche quello del forno. Comincio già a sentire l'odore del gas...Ecco, metto la testa dentro al forno, cellulare e accendino vicino alla mia testa...Allora ti saluto, un bacione grosso grosso... Adesso spengo il cellulare e accendo la fiamma. Ah! Dimenticavo, mi raccomando, salutami tua moglie. Ciao caro.
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ROMA
Questa mattina verso le 12:00 i vigili del fuoco sono dovuti intervenire in una palazzina al civico 21 di via del Gazometro per rispondere alla chiamata di alcuni abitanti del luogo.
Una mansarda al piano attico è andata completamente distrutta da un'esplosione forse a causa di una fuga di gas. Non si registrano ulteriori danni all'edificio. Sono in corso gli accertamenti da parte della Polizia Scientifica perchè sembra siano stati rinvenuti i resti di un corpo umano.
In un successivo servizio del nostro inviato forniremo ulteriori dettagli.