giovedì 31 gennaio 2013

DILEMMA

L'essere o non essere di Amleto, mi scuso per l'accostamento, è niente in confonto al mio di dilemma.
Sì perché da un po' di tempo mi frulla nella mente, a corto di fantasia, memoria e ricordi, l'idea di voler prendere o non prendere una decisione, quella cioé di ritirarmi dalla blogosfera.
Come se fosse calata una saracinesca s'è fatto buio. Provo a più riprese a cercare un po' di luce ma, appena inizio a scrivere qualcosa, dopo un paio di righe mi blocco. Senza volerlo ho
shiacciato un interruttore che non riesco a sollevare e pertanto il buio rimane
Vero è che, barricato in casa dalle intemperie, non faccio da tempo le mie solite passeggiate dove, vuoi o non vuoi, si prospettano davanti gli occhi accadimenti, atteggiamenti, situazioni che potrebbero dare lo spunto di ricamarci un po' sopra e quindi scrivere qualcosa.
Intendiamoci, ritirarmi può essere anche un bene per chi passa da queste parti, ma non lo è per me dal momento che a volte mi tiene – o meglio mi teneva - occupato e non mi faceva sentire del tutto inoperoso.
Poi ci sono blogger che cercano di dissuadermi di porre la parola fine per non parlare del mio unico fratello rimasto dei quattro che eravamo, il quale dalla Germania dove vive mi telefona e mi dice che sono tot giorni che non trova niente di scritto e, scherzosamente, mi pianta una filippica che levati. Eppure lui non è neanche un blogger ma mi legge sin dal dicembre del 2008. Inoltre ci sono blogger della prima ora che, pur assentandosi per notevoli periodi ogni tanto si riaffacciano forse come presi da nostalgia chi può dirlo.
C'è anche da dire che ho un debito di riconoscenza verso i blogger e di chi, oltre quattro anni fa, mi convinse ad iniziare questo percorso.
In definitiva ho pensato di sfogarmi con queste poche parole al fine di cercare di riprendere confidenza con Pasquale il mio pc.
Spero di riuscirci.

mercoledì 16 gennaio 2013

A ROMA DAL LUGLIO DEL '43 AL GIUGNO DEL '44

I bombardamenti a Roma avvennero nel periodo che andava dal luglio del ’43 al 14 agosto dello stesso anno quando Roma fu dichiarata Città aperta. Proseguirono però nei paesi intorno alla città, specialmente ai Castelli Romani. Tre anni di guerra avevano lasciato un brutto segno sugli italiani specialmente su chi viveva, o meglio cercava di sopravvivere, nelle piccole e grandi città. C’era molta insicurezza e insofferenza in giro: fame, paura e povertà regnavano sovrane. Quello era l’anno in cui dovevo ultimare la scuola media inferiore ma quasi per l’intera durata di quel periodo scolastico io e tre miei compagni di classe dei quali ricordo ancora il cognome pensammo, male e da incoscienti, di dedicarci ad altro. Non frequentammo più la scuola dove eravamo stati iscritti dato che trascorrevamo il tempo libero rubato agli studi trastullandoci nei luoghi dell’antica Roma sul colle Palatino. Fummo tutti regolarmente bocciati. I bombardamenti a Roma sui quartieri Tiburtino, Prenestino, Casilino, Tuscolano e Nomentano, culminarono il 19 luglio ’43 nel tragico bombardamento del quartiere San Lorenzo dove ci furono migliaia di morti e feriti. Io e la mia famiglia abitavamo nei pressi del Colosseo, rione Monti, e non ricordo di aver sentito fragori di esplosioni probabilmente perché nostra madre ogni volta che suonava la sirena dell’allarme ci conduceva di corsa al ricovero antiaereo. Un giorno, verso l’ora di pranzo, l’allarme risuonò almeno sei o sette volte tanto che invece di andare al vicino ricovero, scendemmo nella cantina del nostro fabbricato che a tutto poteva servire meno che a ripararci neppure da un semplice mortaretto. Il pensiero, quello mio e penso anche quello dei miei fratelli, andava però al piatto di pasta e legumi che avevamo lasciato fumante sul tavolo nella stanza da pranzo nell’attesa di essere divorato, ma per nostra madre la priorità era andare a rifugiarci. Finalmente nel primo pomeriggio gli allarmi cessarono e per me il ricordo di quel 19 luglio fu sempre legato oltre che all’episodio della pasta e legumi anche al fatto che quando dovetti uscire da casa, credo per acquistare qualcosa dal vicino fornaio, assistetti al passaggio di un tram proveniente da San Lorenzo dal quale esalava un pessimo odore di bruciato di qualcosa poco gradevole che non seppi definire e che per molto tempo mi rimase nelle narici. Credo che quel bombardamento sia stato, oltre allo sbarco degli anglo-americani in Sicilia avvenuto una quindicina di giorni prima, un altro dei motivi per il quale il 25 luglio, sempre del ’43, si verificò la “caduta del fascismo”. Se non ricordo male la notizia fu diramata per radio il giorno dopo ed il giorno dopo ancora, 27 luglio, mentre di primo mattino ero intento a fare colazione in cucina con mia madre vicino sentii rientrare a casa mio padre che sventolava con la mano la prima pagina del principale quotidiano di Roma annunciante a titoli cubitali il festoso evento. Io presi la palla al balzo e, senza capire esattamente il significato di quell’avvenimento, sgaiattolai da casa e m’intrufolai in uno dei numerosi cortei di persone che festeggiavano sbandierando il vessillo tricolore recante al centro lo stemma di casa Savoia e gridando “viva il re e abbasso il duce” mentre a forza di picconate smantellavano ogni sia pur piccolo simbolo del fascismo che fu. Un episodio di quel tempo fece comprendere a molti che i fascisti non fossero del tutto rassegnati né scomparsi. Me ne resi conto personalmente perché vi assistetti affacciato alla finestra di casa. Alcuni giorni dopo il 25 luglio due padri di famiglia inquilini nel fabbricato dove abitavamo anche noi, ingaggiarono uno scambio di revolverate contro un paio di fascisti rifugiatisi in una delle aule della facoltà d’ingegneria che confinava con la nostra strada. Per prima cosa non avevo mai saputo che quei due nostri coinquilini erano antifascisti e per di più in possesso di armi poi però mi domandai che cosa poteva significare quella piccola “battaglia”. Quando ad agosto del ’43 fu dichiarata Città Aperta a Roma si respirava una certa tranquillità. L’8 settembre di quell’anno fu firmato l’armistizio tra il governo italiano e l’esercito anglo-americano, ma il giorno dopo ci fu la fuga da Roma dei reali d’Italia. Tutti si dissero che la guerra era ormai terminata invece il 10 settembre ci furono aspri combattimenti, con morti e feriti tra i soldati e i civili italiani, i quali si opponevano all’ingresso delle truppe tedesche a Roma, sia a Porta S. Paolo, il più importante, che in altre località della periferia cittadina. Invece la guerra purtroppo continuava, era cambiato il nemico. A tanti anni di distanza da quel periodo ricordo, per fortuna, soltanto poche cose. Intanto a volte mi sono chiesto e mi chiedo ancora, ma…i miei tre fratelli che facevano? I due più piccoli rispettivamente di 6 e 9 anni probabilmente erano tenuti a bada da mamma mentre il più grande, 15 anni, dove s’era andato a cacciare? Il tredicenne, vale a dire io, si squagliò dal nido, sia pure ad intervalli e per brevi periodi. Mi ricordo un altro episodio verificatosi il 9 settembre, guarda un po’ il giorno del mio 13° compleanno. L’edificio nel quale abitavamo sin dal giorno della nascita di mio fratello più grande – 1928, confinava ad una distanza di pochi metri con un altro edificio abbastanza moderno per quell’epoca abitato quasi esclusivamente da gerarchi fascisti e loro sottoposti che aveva persino un nome: “palazzo Balbo” quadrunviro della marcia dei fascisti su Roma nel 1922. Ad un certo punto di quella giornata, se non ricordo male primo pomeriggio, sentimmo il rumore forte e continuo di numerosi colpi d’arma da fuoco. Prima che nostra madre ci facesse correre al riparo riuscimmo a capire che si trattava di spari provenienti dall’ultimo piano del vicino “palazzo balbo” e diretti verso la piazza antistante il Colosseo dove s’era fermato un piccolo carro armato leggero, italiano, dal quale un soldato, sempre italiano, si capiva dall’elmetto, rispondeva al fuoco con l’aiuto di un piccolo cannoncino. Anche questa battaglia non durò molto perché il carrista riuscì a centrare le finestre dalle quali erano stati sparati i colpi iniziali. Un passo indietro. Nostra madre ci fece sì riparare ma anziché scendere in cantina, considerata la rapidità dell’accaduto, si attaccò alle mani di noi quattro fratelli e ci fece fermare, lei compresa, sotto una specie di muro maestro che divideva un corridoio di casa dalla cucina solo che la finestra di questa cucina affacciava sul cortile interno del nostro fabbricato confinante con altri di questi tra i quali anche “palazzo balbo” e quindi abbiamo potuto veder sfrecciare numerosi proiettili che non riuscendo inizialmente a centrare le finestre in questione colpivano quelle di un altro edificio. Insomma l’importante fu che, centrato l’obiettivo, gli spari terminarono con l’esito finale delle “due finestre colpevoli” distrutte rimanendo tali per molti anni.Venimmo a sapere dopo qualche tempo che quasi tutti gli abitanti di quel palazzo se la diedero a gambe lasciando campo libero a gran parte dei cittadini confinanti i quali trafugarono tutto il possibile. La severità o il timore, dei nostri genitori c’impedì di partecipare. Quelli dopo il 10 settembre furono giorni tremendi sia per l’occupazione nazista e le malefatte dei fascisti sia per le numerose questioni legate alla sopravvivenza.
Dovevo ancora compiere 14 anni ed ora, a distanza di 68 anni, torno a dirmi che quella, nonostante la spensieratezza dovuta all’età non fu per me una bella primavera. Ma non soltanto per me. Tre episodi di cui ho ancora memoria sono parte di quel periodo: Via Rasella e dintorni, Stazione Ostiense, Colosseo. In ordine cronologico,dal 23 marzo al 4 giugno del ’44, liberazione di Roma da parte degli alleati, vissi quei 74 giorni in un modo particolare. Nel marzo del ’44, durante il periodo della seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio chiesto agli anglo-americani nel settembre del ’43 Roma, dichiarata “città aperta”, insieme a gran parte dell’Italia si trovava sotto l’occupazione dei tedeschi con i quali collaboravano attivamente i fascisti. Quasi ogni giorno, inventando chissà quali scuse, riuscivo a sfuggire alla sorveglianza di nostra madre, ad uscire da casa e a bighellonare in giro per la città. A quei tempi io e i miei tre fratelli abitavamo sin dalla nascita, insieme ai nostri genitori, a meno di duecento metri dal Colosseo. Questa posizione centrale mi consentiva pertanto di girare per Roma, soprattutto verso il centro storico della città, senza alcuna necessità di dover usare mezzi pubblici, anche perché ne circolavano pochissimi e io neppure avevo soldi per poterne usufruire. Alcune volte in realtà presi qualche filobus ma soltanto perché mi attaccavo pericolosamente ai due avvolgifili in metallo posti dietro i filobus stessi. Per pura combinazione il 23 marzo del ’44, giorno dell’attacco dei partigiani del GAP, in Via Rasella dove morirono 33 militari delle SS , altoatesini volontari e due civili italiani, intorno alle 17 gironzolavo nei pressi della centralissima Piazza Colonna e stavo percorrendo Via del Tritone per girare poi in Via del Traforo e fare ritorno a casa. Ma, appena arrivato al Largo del Tritone vicino al palazzo del quotidiano romano “Il Messaggero”, trovai la strada bloccata da un cordone di militari italiani e tedeschi. Gli italiani, guardie di finanza e i tedeschi, SS, stretti l’uno all’altro, avevano formato una barriera invalicabile circondando tutta l’intera zona intorno a via Rasella, Via del Tritone, Piazza Barberini, Via Quattro Fontane e Via del Traforo. Dovevo necessariamente passare di là, percorrere tutto il traforo - o tunnel - che collegava e collega tuttora Via del Tritone con Via Nazionale e quindi procedere per Via dei Serpenti, Via degli Annibaldi e arrivare infine a casa. Sebbene per tutta la durata della guerra, ma anche oltre, il traforo fosse stato adattato a rifugio antiaereo, era ugualmente percorribile sistemato in modo opportuno con murature sia all’entrata che all’uscita e dotato di condotti per l’aerazione. Con l’ingenuità derivante dalla mia giovanissima età, non conoscendo i motivi di quello sbarramento dato che l’attacco alla compagnia di polizia delle SS era avvenuto oltre un’ora prima e io non ne sapevo niente, mi avvicinai tranquillamente al cordone di militari e chiesi di poter passare.
Naturalmente mi ero rivolto al militare italiano ma lui rispose che era impossibile. Io insistetti affermandogli che se non fossi rientrato presto a casa le avrei sicuramente buscate dai miei. Lui mi squadrò da capo a piedi poi rivolse lo sguardo verso le due SS che gli stavano ai lati, entrambe gli fecero un segno d’approvazione e lo sbarramento si aprì lasciandomi passare. Soltanto tempo dopo venni a sapere di quello che era successo lì in Via Rasella e del successivo eccidio delle Fosse Ardeatine avvenuto il giorno seguente. Molte vicende di quel tremendo periodo erano poco conosciute da me e dai miei fratelli, un po’ per l’età, nel 1940 il più piccolo di noi quattro aveva tre anni, il più grande dodici, e un po’ perché i nostri genitori preferivano tenerci nascoste le brutture della guerra. Ma soprattutto perché avevamo come primaria necessità quella di sopperire alla penuria di cibo. La fame era qualcosa che non sono riuscito ancora a dimenticare.
A proposito di fame. In una giornata di quel periodo io con un gruppo di miei coetanei abitanti nella mia stessa strada, eravamo venuti a sapere che alla stazione Ostiense, più volte bombardata dagli aerei americani – le famose fortezze volanti - c’erano dei treni semidistrutti stracolmi di ogni sorta di cibo. Non ci pensammo due volte, tutti baldanzosi ci recammo a piedi, alla detta stazione che era ridotta in macerie e completamente deserta e vedemmo che c’erano veramente alcuni vagoni-merci delle ferrovie con i portelli scorrevoli spalancati. Come si usa dire, ci tuffammo a pesce ma, anziché generi alimentari trovammo, in quello che restava dei vagoni, soltanto materiale militare: giberne da soldato, munizioni per le armi, gavette e altre cose dello stesso genere. Arraffammo lo stesso quel che ritenevamo poterci ricavare qualcosa e ci accingemmo a riprendere la strada verso casa. Quando, improvvisamente, dal recinto semidistrutto della stazione, lentamente e silenziosamente fece il suo ingresso un‘autovettura scoperta con dentro quattro militari tedeschi tra i quali un ufficiale. Fermatasi l’auto ad un centinaio di passi da noi, l’ufficiale tedesco, a voce alta e tono autoritario, ci fece capire che dovevamo avvicinarci a lui. Il tratto del percorso era tutto allo scoperto e noi eravamo totalmente in preda alla paura. Quasi tutti del gruppo riuscirono ad estrarre dalle tasche quanto prelevato dai vagoni-merci e a farlo cadere in terra man mano che ci si avvicinava ai militari tedeschi, io invece, che avevo avuto la bella idea di portarmi via una sciabola da carabiniere con l’elsa sull’impugnatura che sembrava d’oro, dovetti far finta di camminare zoppicando perché l’arma in questione ero riuscito a nasconderla sotto la maglietta e la gamba del pantalone, dalla parte sinistra. L’ufficiale, dai gesti che riuscimmo ad interpretare, ci fece una forte ramanzina e ci ordinò, a gesti, di uscire subito dalla stazione, cosa che ci affrettammo a fare e pure di corsa, eccetto me che seguitavo a zoppicare. Ci andò bene. Tenni quell’arma per parecchi anni, ad imperitura memoria del mio scriteriato “gesto eroico”, però sempre ben tenuta nascosta da mia madre. Poi, dopo sposato e andato via da casa, ho perso le sue tracce. Chissà dov’è andata a finire.
Il 4 giugno del ’44 era una bella giornata di sole. Sentimmo sin dal mattino un rumore di autocarri, carri armati leggeri, moto che transitavano proprio vicino casa nostra. Incuriosito uscii abbastanza presto e vidi una lunga fiumana di uomini e mezzi tedeschi piuttosto male in arnese che si avviavano verso Via dei Fori, Piazza Venezia e da lì verso l’uscita della città. Era la ritirata delle truppe tedesche che andavano verso il Nord dell’Italia incalzati dagli alleati che ormai si trovavano alle porte di Roma. Verso metà della mattinata un discreto numero di soldati tedeschi, per concedersi un po’ di riposo, si accamparono intorno al Colosseo. Introdussero persino alcuni carri leggeri nelle piccole cavità ad arco poste alla base del grande anfiteatro, forse per ripararsi dal sole o da chissà che cosa. L’intera area circostante il grande monumento era gremita di soldati ma anche di gente delle case vicine e si fraternizzava volentieri. Fra loro c’ero anch’io che curiosavo qua e là. Guardandomi intorno vidi che in una di quelle cavità era stato fatto entrare un carro armato leggero ai piedi del quale, seduto in terra, senza elmetto, sudato e dal volto stanco, biondo, giovane, sostava uno di quei soldati che stava mangiando qualcosa. Mi avvicinai e, senza dire una parola, mi misi a guardarlo. Lui che evidentemente si era accorto di me, altrettanto silenziosamente mi porse una grossa fetta di pane bianchissimo ricoperto di burro o margarina, non ricordo bene. Non stetti lì a sottilizzare. Afferrai quello che mi veniva offerto e lo divorai. Feci appena in tempo perché sentii, io e tutti gli altri, il rumore di un aereo,forse un ricognitore, che si stava avvicinando e che, appena vide la scena cominciò a mitragliare in lungo e in largo. Fu un fuggi fuggi generale, ma non tutti se la cavarono. Tornai dopo più di un’ora per rendermi conto di quello che era successo e vidi che quel carro leggero al quale mi ero accostato in precedenza era andato completamente distrutto ed ancora bruciava, mentre non c’era nessuna traccia del soldato tedesco. Mi augurai si fosse salvato.
Ancora oggi, quella piccola cavità lì al Colosseo reca i segni del carro che aveva preso fuoco.
Il 4 giugno 1944, dopo l'occupazione da parte dei nazisti, Roma venne liberata dagli anglo-americani i quali poi la "tennero occupata" per un bel po' di tempo. Dall'inizio del 1945 io avrò cambiato almeno tre volte il tipo di lavoro, ma per un periodo abbastanza lungo svolsi l'aiuto di qualcuno presso il Teatro Galleria, dentro la Galleria Alberto Sordi già Colonna: una volta del guardaporta, un'altra del macchinista e un'altra ancora dell'aiuto elettricista. Tutte le sere rientravo a casa dopo la mezzanotte, facendomi la strada a piedi da Piazza Colonna passando per Fontana di Trevi, Largo Tritone, il Traforo sotto il Quirinale, via Nazionale, via dei Serpenti, via degli Annibaldi, via del Fagutale fino a via della Polveriera. Numerosi sono gli episodi di quel periodo che, se riuscissi a ricordandomeli tutti, potrei raccontarne un notevole numero, però mi limito a parlarne soltanto di tre aventi come protagonisti altrettanti soldati americani.
L'AMERICANO N.1, che conobbi fu un sergente maggiore dell'esercito, nativo di Derby nel Connecticut, del quale ricordo ancora nome e cognome. Ci siamo tenuti in contatto tramite posta per molti anni, almeno una decina. Adesso che ci penso mi rammarico di una cosa. Lui m'informò che a Derby aveva una moglie e un figlio, che era proprietario di un'impresa, non ricordo di che tipo, e che lavorava con lui, oltre ad un gruppo di dipendenti, anche una giovane segretaria italo-americana. Malgrado io abbia dovuto affrontare lunghi periodi di disoccupazione, non mi venne mai in mente di dirgli se potevo andare a lavorare nella sua impresa lì in America. Forse molte cose sarebbero cambiate per me. In meglio o in peggio non lo so. Tornando a quel sergente, una sera, all'ingresso del teatro, sia all'inizio dello spettacolo di varietà in programma, sia al termine m'interpellò chiedendomi se a Roma c'erano dei reparti di boy-scout. Malgrado lui parlasse pochissimo l'italiano, altrettanto io l'inglese riuscimmo però a capirci e al mio diniego mi disse che lui in America era un capo degli scout e che avrebbe avuto piacere incontrare qualcuno per formarne un reparto qui da noi. L'indomani mattina ne parlai agli amici, anche a quelli più grandi di noi, i quali quasi tutti aderirono. In breve, grazie a questo soldato del Connecticut formammo uno dei primi reparti di scout laici del C.N.G.E.I. - Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani.
L'AMERICANO N.2, mi capitò di conoscerlo una delle sere o meglio delle notti in cui rientravo a casa dal lavoro. Arrivato a via degli Annibaldi successe un fatto incredibile.
Per chi non la conosce devo fare necessariamente una descrizione un po' noiosa di questa via perché si possa raffigurare meglio l'accaduto. La via di cui parlo inizia da via Nicola Salvi di fronte al Colosseo e, scendendo, termina in via Cavour. Lungo entrambi i lati vi sono due muraglioni: all'inizio bassi fino metà dell'altezza di un uomo poi alti una quindicina di metri quando si arriva in via Cavour. Quella notte io che provenivo da via dei Serpenti e avevo attraversato via Cavour stavo iniziando il percorso di via degli Annibaldi quando da uno dei due muri più alti piombò dinanzi ai miei piedi qualcosa di voluminoso e pesante. Per un pelo non mi aveva sotterrato. Una coppia che camminava davanti a me, udito quel forte colpo si era voltata e si era avvicinata per vedere cosa era successo. Ad un certo punto sentimmo dei flebili lamenti che provenivano dal "coso caduto". Malgrado la strada fosse semibuia io e la coppia ci chinammo per capire di cosa si trattava. Ci guardammo in faccia increduli: era un militare americano di colore, completamente sbronzo. Farfugliando non so cosa cominciò a muoversi per tentare di alzarsi, noi lo aiutammo, cercammo di fargli capire che volevamo chiamare "l'ambulance della Red Cross" ma lui invece faceva gesti di diniego e si svincolava da noi. Come se fosse atterrato col paracadute anche se un po' barcollante, si avviò, imboccò via Cavour e se ne andò verso via dei Fori. Mi parve addirittura di sentirlo fischiettare. Ad ogni modo, contento perché era vivo,gli gridai dietro "piacere d'averti conosciuto Joe".
L'AMERICANO N.3, forse si chiamava John o chissà come quando lo vidi ma non riuscii a capirlo. Sempre una delle volte in cui, tornando a casa dopo mezzanotte camminavo lungo via dei Serpenti, a metà della stessa via mi accorsi che un militare americano, bianco, capelli nerissimi, stava seduto su alcuni gradini di un piccolo negozio chiuso e si lamentava. Mi avvicinai, mi accorsi che era ubriaco, gli chiesi se c'era qualcosa che non andava e lui, con un filo di voce e un linguaggio mezzo italiano condito dal dialetto siciliano mi rispose:
"picciutteddu...u vedesti chi minchiata fecero a mia?" (ragazzino, hai visto che cavolata mi hanno fatto?)
"cu fu?" (chi era?)
"e che ne saccio, scuru era...talia chista banna" (e che ne so, era buio, guarda qui)
"minchia! Cuteddata fu? (cavolo! È stata una coltellata?)
"no, vasata di fimmina fu, ma che minchia vai dicenno?" (no, è stato bacio di donna, ma che cavolo vai dicendo) ...e svenne mentre dalla ferita usciva sangue.
Feci cenno ad un signore che fortunatamente stava passando nei pressi, in fretta gli spiegai la faccenda ed insieme ci recammo in una vicina uscita laterale della sede centrale della Banca d'Italia e a una guardia di finanza lì in servizio gli raccontammo tutto. Fece un paio di telefonate dopo le quali arrivò la Polizia Militare Americana e un'ambulanza. Spiegai nuovamente come stavano le cose e, dopo alcuni accertamenti, mi lasciarono tornare a casa tranquillamente.
Ripensando all'accaduto credo che quel militare americano non poteva chiamarsi John.
Scommetto che si chiamava Caliddru (Calogero), il mio secondo nome.

venerdì 11 gennaio 2013

LA IENA RIDENS

Ieri sera ho fatto una riflessione e mi sono chiesto se oggi, all'età che ho, la mia intelligenza si può anche trovare ad un livello molto basso anzi c'è rimasta giusto qualche briciola, però nel 1994 avevo quasi vent'anni in meno e credo che la mia intelligenza era ad un livello un tantinello più alto.
La domanda che mi sono fatto è stata questa: come mai non ho abboccato alle fanfaronate del caimano a differenza di almeno una dozzina di milioni di elettori?
Non mi sono dato una risposta ma ieri sera ho capito perché e ne ho avuto la conferma..
Sì. Ho avuto l'ennesima prova che decidere di non votare per "quello" né allora né mai era la più logica delle cose.
Uno spettacolo indegno dove si è esibito un clown, un pagliaccio, un soggetto che non troverebbe posto neppure in un avanspettacolo da rappresentare in una sala di teatro d'infimo ordine.
M'è venuta in mente la iena ridens perché per autoassolversi sghignazzava col sorriso perfido e se magari offendeva qualcuno allora affermava: non si può scherzare? Col ghigno sulla bocca.
Che vorrebbe cambiare la nostra costituzione perché il presidente del consiglio deve avere più poteri,. Cioé un dittatore? Grazie l'abbiamo già conosciuto e ci è bastato.
Che ciò che proclamava fino al termine del 2011 che non c'era la crisi ed altra baggianate erano la pura verità.
Che se veniva condannato nei processi era colpa dei giudici comunisti. Ma se veniva prosciolto allora è logico pensare che fossero giudici del pdl.
Che se versava soldi a destra e a manca – a donne ovviamente – era perché la sua generosità non ha limiti.
Che ha ritenuto opportuno alzarsi e andarsene quando stava iniziando Vauro. E se ne capisce il perché.
E tanto altro ancora ma per non ammorbare oltre questo mio scritto preferisco non citare.
Sono andato a dormire e, malgrado tutto, a farmi un bel sonno perché ho pensato che dopo questa esibizione del pagliaccio non lo avremo più tra i piedi.
Se i cittadini italiani rinsaviscono credo sia una certezza.

lunedì 7 gennaio 2013

GUENDALINA MON AMOUR

Guendalina – da me abbreviato in Guen – ha più di trent'anni eppure si comporta come se ne avesse chissà quanti. O forse sono io che non ricordo quando arrivò a casa mia. Comunque l'età che ha la porta benissimo e io le voglio bene.
Fino a quando lavoravo Guen stava con me in camera da letto, dopo no.
È brava, molto silenziosa, fa il suo dovere però a volte si comporta in modo strano.
Ad esempio qualche volta si spinge troppo avanti, altre invece al contrario.
Eppure ogni sera, sempre alla medesima ora, faccio quello che spetta a me fare ma a Guen sembra interessare poco e si comporta come meglio crede.
Questa storia dura da parecchio e a volte mi viene voglia di prendere una decisione drastica poi ci penso un po' sopra e mi dico "ma adesso che me ne importa? Una volta, quando lavoravo, era comprensibile ma ora che ragione c'è di prendersela tanto con lei?"
Ragionamento che a me sembra logico.
Anche se la faccenda aveva perso interesse per me, un giorno mi son detto "adesso le faccio vedere io come devono andare le cose in questa casa".
Mi sono ricordato che con il film "Ricomincio da tre" debuttò come attore, sceneggiatore e regista il grande Massimo Trosi il quale, in una delle scene, cerca di far smuovere un oggetto distante da lui soltanto fissandolo e chiedendo "avanti movete, che te costa, ven'accà...".
Grazie del suggerimento Massimo, userò lo stesso metodo.
Infatti a colazione, a pranzo e a cena quando, seduto in cucina, davanti al tavolo predisposto per l'occasione,guarderò Guen il mio orologio-sveglia che si trova su un ripiano della credenza distante circa tre metri da dove siedo io tutti i giorni, la fisserò e le chiederò con gentilezza "fammi il favore, metti al punto esatto le tue due lancette che segnano le ore, i minuti e i secondi, così mi fai contento".
Lo farà? Spero di sì.
Mi sorge un dubbio. Non è che non le è andato a genio il fatto che non ho più messo in funzione la sua suoneria da quando sono in pensione?
Perché, mi chiedo, ho il vezzo stravagante di dare un nome proprio di persona a degli oggetti immobili o semi-mobili?
Non lo so neppure io.
SITUAZIONE AGGIORNATA A GENNAIO 2013
Quello che so è che purtroppo adesso viaggia al ritmo di venti-venticinque minuti in avanti ogni santo giorno. Perché soltanto in avanti e mai al contrario? Perchè tanta fretta? Forse c'è una spegazione. Credo che lei non veda l'ora di andarsene in pensione.


martedì 1 gennaio 2013

Venerdì 21 dicembre 2012

L'appartamento in cui abito attualmente fa parte di un condominio di circa 92 unità immobiliari ed il cui amministratore, un pensionato di circa 70 anni, abita nel mio stesso piano, proprio di fronte a dove sto io. Oltre che amico è un ottima persona, onesta, ed è stato confermato nella sua carica da parecchi anni.
Circa dieci giorni fa aveva applicato un cartoncino sulla vetrata nell'androne d'ingresso del fabbricato dove avvisava che la sera del 21 dicembre alle ore 19.30, nel locale comune solitamente adibito alle riunioni delle assemblee condominiali, ci sarebbe stato un brindisi offerto dal condominio e che tutti i condomini erano invitati. Niente cibo e solo alcolici.
Anche se sono inquilino e non condomino mi sarebbe piaciuto andarci ma il fatto del solo alcolici mi preoccupava un po', quindi parlai con lui e gli chiesi se poteva scapparci una mezza coca cola. Lui ribadì che ci sarebbero stati solo alcolici.
La sera del 21 ero ancora indeciso se partecipare oppure no. Ormai l'ora dell'appuntamento si stava avvicinando, attesi di vedere il TG delle 19 su Raitre al termine del quale, visto l'andazzo delle cose
qui in Italia, presi la decisione: mi vestii, dico meglio m'imbacuccai come un esquimese, mi recai al locale condominiale e, mentre scendevo due brevi rampe di scale piuttosto ripide iniziai a sentire un allegro chiacchericcio. Appena entrai mi vennero incontro sei o sette condomini salutandomi con affetto "ecco, è venuto anche Aldo" e l'amministratore mi volle offrire per forza un bicchiere di spumante che assaggiai appena.
Vidi però che oltre a varie bottiglie di spumante c'erano anche pizzette, mandorle salate, patatine fritte, insomma un brindisi coi fiocchi e che è durato oltre un'ora in quanto man mano sono giunti altri condomini. Notai, per la precisione, che io ero il più vecchio.
Tutto ciò accompagnato da canzoni cantate a squarciagola, tipo 'Roma nun fa la stupida stasera' ,
'Tanto pe' canta', 'La società' dei magnaccioni' ecc.
Al termine ci siamo salutati e, con mio grande stupore, alcune condomine che mi conoscono da anni in quanto abito lì dal 1969, mi hanno salutato abbracciandomi e facendomi gli auguri.
Sin dalla nascita, nei vari fabbricati dove ho abitato, sempre come inquilino, non ho mai visto il
verificarsi di tale insolito ma piacevole 'brindisi', per nessuna occasione.
Rientrato a casa ho cominciato a chiedermi come mai ad un amministratore di condominio sia venuto in mente di organizzare tale evento.
Poi mi sono detto "stai a vedere che ha organizzato questo brindisi non solo per le festività di Natale, primo dell'anno ed Epifania ma anche per la storiella della profezia Maya prevista per di più di venerdì. Non si può mai sapere avrà pensato il bravo amministratore."
Spontaneo m'è sorto il dubbio circa il motivo per cui l'amministratore si è dato tanto da fare anche perché sul cartoncino non aveva specificato che il brindisi veniva offerto per scambiarci gli auguri.