mercoledì 16 gennaio 2013

A ROMA DAL LUGLIO DEL '43 AL GIUGNO DEL '44

I bombardamenti a Roma avvennero nel periodo che andava dal luglio del ’43 al 14 agosto dello stesso anno quando Roma fu dichiarata Città aperta. Proseguirono però nei paesi intorno alla città, specialmente ai Castelli Romani. Tre anni di guerra avevano lasciato un brutto segno sugli italiani specialmente su chi viveva, o meglio cercava di sopravvivere, nelle piccole e grandi città. C’era molta insicurezza e insofferenza in giro: fame, paura e povertà regnavano sovrane. Quello era l’anno in cui dovevo ultimare la scuola media inferiore ma quasi per l’intera durata di quel periodo scolastico io e tre miei compagni di classe dei quali ricordo ancora il cognome pensammo, male e da incoscienti, di dedicarci ad altro. Non frequentammo più la scuola dove eravamo stati iscritti dato che trascorrevamo il tempo libero rubato agli studi trastullandoci nei luoghi dell’antica Roma sul colle Palatino. Fummo tutti regolarmente bocciati. I bombardamenti a Roma sui quartieri Tiburtino, Prenestino, Casilino, Tuscolano e Nomentano, culminarono il 19 luglio ’43 nel tragico bombardamento del quartiere San Lorenzo dove ci furono migliaia di morti e feriti. Io e la mia famiglia abitavamo nei pressi del Colosseo, rione Monti, e non ricordo di aver sentito fragori di esplosioni probabilmente perché nostra madre ogni volta che suonava la sirena dell’allarme ci conduceva di corsa al ricovero antiaereo. Un giorno, verso l’ora di pranzo, l’allarme risuonò almeno sei o sette volte tanto che invece di andare al vicino ricovero, scendemmo nella cantina del nostro fabbricato che a tutto poteva servire meno che a ripararci neppure da un semplice mortaretto. Il pensiero, quello mio e penso anche quello dei miei fratelli, andava però al piatto di pasta e legumi che avevamo lasciato fumante sul tavolo nella stanza da pranzo nell’attesa di essere divorato, ma per nostra madre la priorità era andare a rifugiarci. Finalmente nel primo pomeriggio gli allarmi cessarono e per me il ricordo di quel 19 luglio fu sempre legato oltre che all’episodio della pasta e legumi anche al fatto che quando dovetti uscire da casa, credo per acquistare qualcosa dal vicino fornaio, assistetti al passaggio di un tram proveniente da San Lorenzo dal quale esalava un pessimo odore di bruciato di qualcosa poco gradevole che non seppi definire e che per molto tempo mi rimase nelle narici. Credo che quel bombardamento sia stato, oltre allo sbarco degli anglo-americani in Sicilia avvenuto una quindicina di giorni prima, un altro dei motivi per il quale il 25 luglio, sempre del ’43, si verificò la “caduta del fascismo”. Se non ricordo male la notizia fu diramata per radio il giorno dopo ed il giorno dopo ancora, 27 luglio, mentre di primo mattino ero intento a fare colazione in cucina con mia madre vicino sentii rientrare a casa mio padre che sventolava con la mano la prima pagina del principale quotidiano di Roma annunciante a titoli cubitali il festoso evento. Io presi la palla al balzo e, senza capire esattamente il significato di quell’avvenimento, sgaiattolai da casa e m’intrufolai in uno dei numerosi cortei di persone che festeggiavano sbandierando il vessillo tricolore recante al centro lo stemma di casa Savoia e gridando “viva il re e abbasso il duce” mentre a forza di picconate smantellavano ogni sia pur piccolo simbolo del fascismo che fu. Un episodio di quel tempo fece comprendere a molti che i fascisti non fossero del tutto rassegnati né scomparsi. Me ne resi conto personalmente perché vi assistetti affacciato alla finestra di casa. Alcuni giorni dopo il 25 luglio due padri di famiglia inquilini nel fabbricato dove abitavamo anche noi, ingaggiarono uno scambio di revolverate contro un paio di fascisti rifugiatisi in una delle aule della facoltà d’ingegneria che confinava con la nostra strada. Per prima cosa non avevo mai saputo che quei due nostri coinquilini erano antifascisti e per di più in possesso di armi poi però mi domandai che cosa poteva significare quella piccola “battaglia”. Quando ad agosto del ’43 fu dichiarata Città Aperta a Roma si respirava una certa tranquillità. L’8 settembre di quell’anno fu firmato l’armistizio tra il governo italiano e l’esercito anglo-americano, ma il giorno dopo ci fu la fuga da Roma dei reali d’Italia. Tutti si dissero che la guerra era ormai terminata invece il 10 settembre ci furono aspri combattimenti, con morti e feriti tra i soldati e i civili italiani, i quali si opponevano all’ingresso delle truppe tedesche a Roma, sia a Porta S. Paolo, il più importante, che in altre località della periferia cittadina. Invece la guerra purtroppo continuava, era cambiato il nemico. A tanti anni di distanza da quel periodo ricordo, per fortuna, soltanto poche cose. Intanto a volte mi sono chiesto e mi chiedo ancora, ma…i miei tre fratelli che facevano? I due più piccoli rispettivamente di 6 e 9 anni probabilmente erano tenuti a bada da mamma mentre il più grande, 15 anni, dove s’era andato a cacciare? Il tredicenne, vale a dire io, si squagliò dal nido, sia pure ad intervalli e per brevi periodi. Mi ricordo un altro episodio verificatosi il 9 settembre, guarda un po’ il giorno del mio 13° compleanno. L’edificio nel quale abitavamo sin dal giorno della nascita di mio fratello più grande – 1928, confinava ad una distanza di pochi metri con un altro edificio abbastanza moderno per quell’epoca abitato quasi esclusivamente da gerarchi fascisti e loro sottoposti che aveva persino un nome: “palazzo Balbo” quadrunviro della marcia dei fascisti su Roma nel 1922. Ad un certo punto di quella giornata, se non ricordo male primo pomeriggio, sentimmo il rumore forte e continuo di numerosi colpi d’arma da fuoco. Prima che nostra madre ci facesse correre al riparo riuscimmo a capire che si trattava di spari provenienti dall’ultimo piano del vicino “palazzo balbo” e diretti verso la piazza antistante il Colosseo dove s’era fermato un piccolo carro armato leggero, italiano, dal quale un soldato, sempre italiano, si capiva dall’elmetto, rispondeva al fuoco con l’aiuto di un piccolo cannoncino. Anche questa battaglia non durò molto perché il carrista riuscì a centrare le finestre dalle quali erano stati sparati i colpi iniziali. Un passo indietro. Nostra madre ci fece sì riparare ma anziché scendere in cantina, considerata la rapidità dell’accaduto, si attaccò alle mani di noi quattro fratelli e ci fece fermare, lei compresa, sotto una specie di muro maestro che divideva un corridoio di casa dalla cucina solo che la finestra di questa cucina affacciava sul cortile interno del nostro fabbricato confinante con altri di questi tra i quali anche “palazzo balbo” e quindi abbiamo potuto veder sfrecciare numerosi proiettili che non riuscendo inizialmente a centrare le finestre in questione colpivano quelle di un altro edificio. Insomma l’importante fu che, centrato l’obiettivo, gli spari terminarono con l’esito finale delle “due finestre colpevoli” distrutte rimanendo tali per molti anni.Venimmo a sapere dopo qualche tempo che quasi tutti gli abitanti di quel palazzo se la diedero a gambe lasciando campo libero a gran parte dei cittadini confinanti i quali trafugarono tutto il possibile. La severità o il timore, dei nostri genitori c’impedì di partecipare. Quelli dopo il 10 settembre furono giorni tremendi sia per l’occupazione nazista e le malefatte dei fascisti sia per le numerose questioni legate alla sopravvivenza.
Dovevo ancora compiere 14 anni ed ora, a distanza di 68 anni, torno a dirmi che quella, nonostante la spensieratezza dovuta all’età non fu per me una bella primavera. Ma non soltanto per me. Tre episodi di cui ho ancora memoria sono parte di quel periodo: Via Rasella e dintorni, Stazione Ostiense, Colosseo. In ordine cronologico,dal 23 marzo al 4 giugno del ’44, liberazione di Roma da parte degli alleati, vissi quei 74 giorni in un modo particolare. Nel marzo del ’44, durante il periodo della seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio chiesto agli anglo-americani nel settembre del ’43 Roma, dichiarata “città aperta”, insieme a gran parte dell’Italia si trovava sotto l’occupazione dei tedeschi con i quali collaboravano attivamente i fascisti. Quasi ogni giorno, inventando chissà quali scuse, riuscivo a sfuggire alla sorveglianza di nostra madre, ad uscire da casa e a bighellonare in giro per la città. A quei tempi io e i miei tre fratelli abitavamo sin dalla nascita, insieme ai nostri genitori, a meno di duecento metri dal Colosseo. Questa posizione centrale mi consentiva pertanto di girare per Roma, soprattutto verso il centro storico della città, senza alcuna necessità di dover usare mezzi pubblici, anche perché ne circolavano pochissimi e io neppure avevo soldi per poterne usufruire. Alcune volte in realtà presi qualche filobus ma soltanto perché mi attaccavo pericolosamente ai due avvolgifili in metallo posti dietro i filobus stessi. Per pura combinazione il 23 marzo del ’44, giorno dell’attacco dei partigiani del GAP, in Via Rasella dove morirono 33 militari delle SS , altoatesini volontari e due civili italiani, intorno alle 17 gironzolavo nei pressi della centralissima Piazza Colonna e stavo percorrendo Via del Tritone per girare poi in Via del Traforo e fare ritorno a casa. Ma, appena arrivato al Largo del Tritone vicino al palazzo del quotidiano romano “Il Messaggero”, trovai la strada bloccata da un cordone di militari italiani e tedeschi. Gli italiani, guardie di finanza e i tedeschi, SS, stretti l’uno all’altro, avevano formato una barriera invalicabile circondando tutta l’intera zona intorno a via Rasella, Via del Tritone, Piazza Barberini, Via Quattro Fontane e Via del Traforo. Dovevo necessariamente passare di là, percorrere tutto il traforo - o tunnel - che collegava e collega tuttora Via del Tritone con Via Nazionale e quindi procedere per Via dei Serpenti, Via degli Annibaldi e arrivare infine a casa. Sebbene per tutta la durata della guerra, ma anche oltre, il traforo fosse stato adattato a rifugio antiaereo, era ugualmente percorribile sistemato in modo opportuno con murature sia all’entrata che all’uscita e dotato di condotti per l’aerazione. Con l’ingenuità derivante dalla mia giovanissima età, non conoscendo i motivi di quello sbarramento dato che l’attacco alla compagnia di polizia delle SS era avvenuto oltre un’ora prima e io non ne sapevo niente, mi avvicinai tranquillamente al cordone di militari e chiesi di poter passare.
Naturalmente mi ero rivolto al militare italiano ma lui rispose che era impossibile. Io insistetti affermandogli che se non fossi rientrato presto a casa le avrei sicuramente buscate dai miei. Lui mi squadrò da capo a piedi poi rivolse lo sguardo verso le due SS che gli stavano ai lati, entrambe gli fecero un segno d’approvazione e lo sbarramento si aprì lasciandomi passare. Soltanto tempo dopo venni a sapere di quello che era successo lì in Via Rasella e del successivo eccidio delle Fosse Ardeatine avvenuto il giorno seguente. Molte vicende di quel tremendo periodo erano poco conosciute da me e dai miei fratelli, un po’ per l’età, nel 1940 il più piccolo di noi quattro aveva tre anni, il più grande dodici, e un po’ perché i nostri genitori preferivano tenerci nascoste le brutture della guerra. Ma soprattutto perché avevamo come primaria necessità quella di sopperire alla penuria di cibo. La fame era qualcosa che non sono riuscito ancora a dimenticare.
A proposito di fame. In una giornata di quel periodo io con un gruppo di miei coetanei abitanti nella mia stessa strada, eravamo venuti a sapere che alla stazione Ostiense, più volte bombardata dagli aerei americani – le famose fortezze volanti - c’erano dei treni semidistrutti stracolmi di ogni sorta di cibo. Non ci pensammo due volte, tutti baldanzosi ci recammo a piedi, alla detta stazione che era ridotta in macerie e completamente deserta e vedemmo che c’erano veramente alcuni vagoni-merci delle ferrovie con i portelli scorrevoli spalancati. Come si usa dire, ci tuffammo a pesce ma, anziché generi alimentari trovammo, in quello che restava dei vagoni, soltanto materiale militare: giberne da soldato, munizioni per le armi, gavette e altre cose dello stesso genere. Arraffammo lo stesso quel che ritenevamo poterci ricavare qualcosa e ci accingemmo a riprendere la strada verso casa. Quando, improvvisamente, dal recinto semidistrutto della stazione, lentamente e silenziosamente fece il suo ingresso un‘autovettura scoperta con dentro quattro militari tedeschi tra i quali un ufficiale. Fermatasi l’auto ad un centinaio di passi da noi, l’ufficiale tedesco, a voce alta e tono autoritario, ci fece capire che dovevamo avvicinarci a lui. Il tratto del percorso era tutto allo scoperto e noi eravamo totalmente in preda alla paura. Quasi tutti del gruppo riuscirono ad estrarre dalle tasche quanto prelevato dai vagoni-merci e a farlo cadere in terra man mano che ci si avvicinava ai militari tedeschi, io invece, che avevo avuto la bella idea di portarmi via una sciabola da carabiniere con l’elsa sull’impugnatura che sembrava d’oro, dovetti far finta di camminare zoppicando perché l’arma in questione ero riuscito a nasconderla sotto la maglietta e la gamba del pantalone, dalla parte sinistra. L’ufficiale, dai gesti che riuscimmo ad interpretare, ci fece una forte ramanzina e ci ordinò, a gesti, di uscire subito dalla stazione, cosa che ci affrettammo a fare e pure di corsa, eccetto me che seguitavo a zoppicare. Ci andò bene. Tenni quell’arma per parecchi anni, ad imperitura memoria del mio scriteriato “gesto eroico”, però sempre ben tenuta nascosta da mia madre. Poi, dopo sposato e andato via da casa, ho perso le sue tracce. Chissà dov’è andata a finire.
Il 4 giugno del ’44 era una bella giornata di sole. Sentimmo sin dal mattino un rumore di autocarri, carri armati leggeri, moto che transitavano proprio vicino casa nostra. Incuriosito uscii abbastanza presto e vidi una lunga fiumana di uomini e mezzi tedeschi piuttosto male in arnese che si avviavano verso Via dei Fori, Piazza Venezia e da lì verso l’uscita della città. Era la ritirata delle truppe tedesche che andavano verso il Nord dell’Italia incalzati dagli alleati che ormai si trovavano alle porte di Roma. Verso metà della mattinata un discreto numero di soldati tedeschi, per concedersi un po’ di riposo, si accamparono intorno al Colosseo. Introdussero persino alcuni carri leggeri nelle piccole cavità ad arco poste alla base del grande anfiteatro, forse per ripararsi dal sole o da chissà che cosa. L’intera area circostante il grande monumento era gremita di soldati ma anche di gente delle case vicine e si fraternizzava volentieri. Fra loro c’ero anch’io che curiosavo qua e là. Guardandomi intorno vidi che in una di quelle cavità era stato fatto entrare un carro armato leggero ai piedi del quale, seduto in terra, senza elmetto, sudato e dal volto stanco, biondo, giovane, sostava uno di quei soldati che stava mangiando qualcosa. Mi avvicinai e, senza dire una parola, mi misi a guardarlo. Lui che evidentemente si era accorto di me, altrettanto silenziosamente mi porse una grossa fetta di pane bianchissimo ricoperto di burro o margarina, non ricordo bene. Non stetti lì a sottilizzare. Afferrai quello che mi veniva offerto e lo divorai. Feci appena in tempo perché sentii, io e tutti gli altri, il rumore di un aereo,forse un ricognitore, che si stava avvicinando e che, appena vide la scena cominciò a mitragliare in lungo e in largo. Fu un fuggi fuggi generale, ma non tutti se la cavarono. Tornai dopo più di un’ora per rendermi conto di quello che era successo e vidi che quel carro leggero al quale mi ero accostato in precedenza era andato completamente distrutto ed ancora bruciava, mentre non c’era nessuna traccia del soldato tedesco. Mi augurai si fosse salvato.
Ancora oggi, quella piccola cavità lì al Colosseo reca i segni del carro che aveva preso fuoco.
Il 4 giugno 1944, dopo l'occupazione da parte dei nazisti, Roma venne liberata dagli anglo-americani i quali poi la "tennero occupata" per un bel po' di tempo. Dall'inizio del 1945 io avrò cambiato almeno tre volte il tipo di lavoro, ma per un periodo abbastanza lungo svolsi l'aiuto di qualcuno presso il Teatro Galleria, dentro la Galleria Alberto Sordi già Colonna: una volta del guardaporta, un'altra del macchinista e un'altra ancora dell'aiuto elettricista. Tutte le sere rientravo a casa dopo la mezzanotte, facendomi la strada a piedi da Piazza Colonna passando per Fontana di Trevi, Largo Tritone, il Traforo sotto il Quirinale, via Nazionale, via dei Serpenti, via degli Annibaldi, via del Fagutale fino a via della Polveriera. Numerosi sono gli episodi di quel periodo che, se riuscissi a ricordandomeli tutti, potrei raccontarne un notevole numero, però mi limito a parlarne soltanto di tre aventi come protagonisti altrettanti soldati americani.
L'AMERICANO N.1, che conobbi fu un sergente maggiore dell'esercito, nativo di Derby nel Connecticut, del quale ricordo ancora nome e cognome. Ci siamo tenuti in contatto tramite posta per molti anni, almeno una decina. Adesso che ci penso mi rammarico di una cosa. Lui m'informò che a Derby aveva una moglie e un figlio, che era proprietario di un'impresa, non ricordo di che tipo, e che lavorava con lui, oltre ad un gruppo di dipendenti, anche una giovane segretaria italo-americana. Malgrado io abbia dovuto affrontare lunghi periodi di disoccupazione, non mi venne mai in mente di dirgli se potevo andare a lavorare nella sua impresa lì in America. Forse molte cose sarebbero cambiate per me. In meglio o in peggio non lo so. Tornando a quel sergente, una sera, all'ingresso del teatro, sia all'inizio dello spettacolo di varietà in programma, sia al termine m'interpellò chiedendomi se a Roma c'erano dei reparti di boy-scout. Malgrado lui parlasse pochissimo l'italiano, altrettanto io l'inglese riuscimmo però a capirci e al mio diniego mi disse che lui in America era un capo degli scout e che avrebbe avuto piacere incontrare qualcuno per formarne un reparto qui da noi. L'indomani mattina ne parlai agli amici, anche a quelli più grandi di noi, i quali quasi tutti aderirono. In breve, grazie a questo soldato del Connecticut formammo uno dei primi reparti di scout laici del C.N.G.E.I. - Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani.
L'AMERICANO N.2, mi capitò di conoscerlo una delle sere o meglio delle notti in cui rientravo a casa dal lavoro. Arrivato a via degli Annibaldi successe un fatto incredibile.
Per chi non la conosce devo fare necessariamente una descrizione un po' noiosa di questa via perché si possa raffigurare meglio l'accaduto. La via di cui parlo inizia da via Nicola Salvi di fronte al Colosseo e, scendendo, termina in via Cavour. Lungo entrambi i lati vi sono due muraglioni: all'inizio bassi fino metà dell'altezza di un uomo poi alti una quindicina di metri quando si arriva in via Cavour. Quella notte io che provenivo da via dei Serpenti e avevo attraversato via Cavour stavo iniziando il percorso di via degli Annibaldi quando da uno dei due muri più alti piombò dinanzi ai miei piedi qualcosa di voluminoso e pesante. Per un pelo non mi aveva sotterrato. Una coppia che camminava davanti a me, udito quel forte colpo si era voltata e si era avvicinata per vedere cosa era successo. Ad un certo punto sentimmo dei flebili lamenti che provenivano dal "coso caduto". Malgrado la strada fosse semibuia io e la coppia ci chinammo per capire di cosa si trattava. Ci guardammo in faccia increduli: era un militare americano di colore, completamente sbronzo. Farfugliando non so cosa cominciò a muoversi per tentare di alzarsi, noi lo aiutammo, cercammo di fargli capire che volevamo chiamare "l'ambulance della Red Cross" ma lui invece faceva gesti di diniego e si svincolava da noi. Come se fosse atterrato col paracadute anche se un po' barcollante, si avviò, imboccò via Cavour e se ne andò verso via dei Fori. Mi parve addirittura di sentirlo fischiettare. Ad ogni modo, contento perché era vivo,gli gridai dietro "piacere d'averti conosciuto Joe".
L'AMERICANO N.3, forse si chiamava John o chissà come quando lo vidi ma non riuscii a capirlo. Sempre una delle volte in cui, tornando a casa dopo mezzanotte camminavo lungo via dei Serpenti, a metà della stessa via mi accorsi che un militare americano, bianco, capelli nerissimi, stava seduto su alcuni gradini di un piccolo negozio chiuso e si lamentava. Mi avvicinai, mi accorsi che era ubriaco, gli chiesi se c'era qualcosa che non andava e lui, con un filo di voce e un linguaggio mezzo italiano condito dal dialetto siciliano mi rispose:
"picciutteddu...u vedesti chi minchiata fecero a mia?" (ragazzino, hai visto che cavolata mi hanno fatto?)
"cu fu?" (chi era?)
"e che ne saccio, scuru era...talia chista banna" (e che ne so, era buio, guarda qui)
"minchia! Cuteddata fu? (cavolo! È stata una coltellata?)
"no, vasata di fimmina fu, ma che minchia vai dicenno?" (no, è stato bacio di donna, ma che cavolo vai dicendo) ...e svenne mentre dalla ferita usciva sangue.
Feci cenno ad un signore che fortunatamente stava passando nei pressi, in fretta gli spiegai la faccenda ed insieme ci recammo in una vicina uscita laterale della sede centrale della Banca d'Italia e a una guardia di finanza lì in servizio gli raccontammo tutto. Fece un paio di telefonate dopo le quali arrivò la Polizia Militare Americana e un'ambulanza. Spiegai nuovamente come stavano le cose e, dopo alcuni accertamenti, mi lasciarono tornare a casa tranquillamente.
Ripensando all'accaduto credo che quel militare americano non poteva chiamarsi John.
Scommetto che si chiamava Caliddru (Calogero), il mio secondo nome.

32 commenti:

Zio Scriba ha detto...

Chissà se per te sarebbe andata meglio, in America, a lavorare nella ditta del tuo Americano n°1...
Di certo sarebbe andata un po' peggio per il mondo dei blogger italiani... :)

Tiziano ha detto...

Certo che ne ai passate di avventure in quel periodo certamente se tu fosi andato in America a far fortuna
noi blogger non avremmo avuto la fortuna di poter leggere queste tue storie ciao aldo
buona serata.

Ambra ha detto...

Caro Caliddru,
ma sai che leggendo il tuo post ho visto, come in un film, svolgersi un pezzo della storia d'Italia? Vista nei suoi eventi concreti, nelle storie di ogni giorno della gente costretta a vivere, senza averlo scelto, le brutture della guerra.E l'incoscenza dei ragazzini uguale dappertutto, ma particolarmente pericolosa in tempi di guerra.

robi ciprax ha detto...

i tuoi racconti sono sempre appassionanti, ma la testimonianza di questi eventi, vissuti in uno dei periodi più difficili della nostra storia, è veramente una rarità coinvolgente.
Ho avuto la fortuna di cominciare i miei ricordi quando si avviava la ricostruzione di tutto quello che la guerra aveva distrutto.

Grazie Aldissimo. robi



Nou ha detto...

Caro Aldo,
ci hai fatto rivivere la storia vera di quegli anni, con il tuo racconto così ricco di particolari . Ho trovato corrispondenza nel romanzo di Elsa Morante, La Storia, sul bombardamento al quartire S.Lorenzo e la famiglia di Useppe con gli eroismi della madre e di tutti, perché come affermi, la fame era patita da tutti.
Meno male che ti hanno fatto passare il tunnel e tornare a casa.
Non so immaginare se tu avessi pensato di recarti nel Connecticut, magari ci scrivevi un blog tutto in americano :)
Un abbraccio Nou

Sandra M. ha detto...

Acci e poi denti...avevo lascito due commenti appena hai pubblicato....ma dove son finiti???? Mah.

Sandra M. ha detto...

Nel primo, più o meno (ma quanto è difficile-santa paletta- ripescare pensieri che ti erano venuti bene?!) dicevo che erano tempi davvero difficili soprattutto per le persone più fragili e indifese come voi che eravate ragazzini . E dicevo anche che, forse, in un certo senso vi ha "salvato" la sconsideratezza che si ha quando si è adolescenti. Ma, soprattutto, mi viene da pensare, leggendo il fluire impetuoso della tua narrazione , a tutte le paure e preoccupazioni che ha dovuto affrontare la vostra mamma.

Sandra M. ha detto...

E poi avevo anche scritto se, per favore , ingrandivi un po' il carattere del testo; vedo che l'hai fatto, GRAZIE.
e Mò VEDIAMO SE SPARISCONO ANCHE QUESTI....AH...AH...AH... FELICE NOTTE ALDO

Antonio ha detto...

Anch'io, come Nou, ho pensato al romanzo della Morante leggendo la tua testimonianza. Grazie caro Aldo, per la tua memoria.

Enly ha detto...

Il film? Un Capolavoro.

Punzy ha detto...

se fossi regista, vorrei dirigere questo film ;)

Nicolanondoc ha detto...

La tua memoria è preziosa per tutti gli amici che ti stimano. Un abbraccio Aldone!!

Susanna ha detto...

Che bei racconti, Aldo!

Tina ha detto...

E si, veru è, non si putia chi chiamari Calogero ;-))

Fallo ancora Aldo, racconta quello che la tua memoria riporta a galla.

Ha ragione Punzy, è la partitura di un film ;-))

Notte buona Aldo ;-))

Adriano Maini ha detto...

E' fatale che in questo tuo racconto, che tra me e me, conoscendoti un po', aspettavo da tempo, anche se potevo solo intuire, non certo immaginare tutti i pericoli che hai passato in quel tragico periodo, é fatale, dicevo, che vi si trovino le connessioni con tante degne opere dell'ingegno umano, tra le quali a me vengono prima di tutto in mente diversi film, di cui permettimi di citare almeno "Roma città aperta" di Rossellini e "Roma" di Fellini.

Unknown ha detto...

A parte il fatto che se hai vissuto quei momenti significa che hai una certa età, ricordare quei tragici avvenimenti, terminati poi con la ripresa della vita normale,deve essere molto bello, specialmente per chi, come te, ha un'ottima memoria, anche visiva.
E' fantastico leggerti!
Cristia'

Cri ha detto...

Che post fiume, Aldo: sembra quasi che il racconto sia sgorgato ininterrotto dalla tua memoria, srotolandosi come un film ancora vivido... Vita vissuta che ha segnato la pelle e l'anima dei ragazzini di allora, te compreso, e compresa mia madre, che viveva a San Lorenzo e che il terribile 19 luglio corse a casa sotto il bombardamento, eludendo la vigilanza degli educatori della palestra dei Cavalieri di Colombo dove lei stava giocando, che trattennero dentro per proteggerli tutti i bambini che vi si trovavano quando la morte cominciò a cadere dal cielo (non era la prima volta che suonavano le sirene dell'allarme antiaereo; ma era la prima volta che a quelle sirene seguiva lo sterminio) causando involontariamente il ferimento e la morte di molti di loro quando la palestra venne colpita; e suo fratello, che si rifugiò nella casa del portiere a pianoterra (la casa del portiere, che rifugio!) insieme agli altri inquilini e che ebbe il conforto di vedersela correre incontro e stringersela al petto; e sua madre, che si trovava a piazza Bologna e che, all'annuncio del bombardamento, disperata per la sorte dei figli, si diede a correre come una pazza, ogni tanto acchiappata e nascosta da qualcuno sotto un portone, schivando le schegge ma anche i proiettili delle mitragliatrici degli americani che si abbassavano quasi fino a terra per sparare a chiunque si muovesse, e che quando arrivò miracolosamente incolume nel quartiere, e vide tutti i palazzi sventrati e distrutti meno il suo, crollò svenuta; e anche suo padre, che faceva servizio all'artiglieria contraerea a La Storta, richiamato, e che il giorno dopo tornò a piedi da lì, facendosi decine di chilometri, per vedere che fine aveva fatto la sua famiglia... Mai, mai dimenticare tutto questo. Mai.

zefirina ha detto...

mamma mia che racconto, quando senti questi racconti dalla voce di chi li ha vissuti ti fanno tutto un altro effetto

nina ha detto...

Caro Aldo La grande storia vista attraverso gli occhi dei protagonisti diventa un vero patrimonio di conoscenza e di crescita civile.
Quanta ricchezza di vita, esperienza e umanità.
Testimonianze come queste tue sono veramente importanti da far conoscere a chi di quegli avvenimenti ha solo sentito parlare.
Grazie di condividerle con noi.

Alberto ha detto...

Da film, sembra, questa scena di te che zoppichi per la sciabola. Da film neorealista.

Blogaventura ha detto...

"Cadevano le bombe come neve,

il diciannove luglio a San Lorenzo.

Sconquassato il Verano, dopo il bombardamento.

Tornano a galla i morti e sono più di cento..."
Son le parole della canzone di Francesco De Gregori che mi son tornate alla mente leggendo questo post importante per non perder la memoria del ventesimo secolo. Un caro saluto, Fabio

Enly ha detto...

Bisognerebbe fare un film su ciò che hai scritto sarebbe davvero un capolavoro.

upupa ha detto...

Che storia...è un incanto leggerti!!!!!
un abbraccio

@enio ha detto...

stavolta non ti sei risparmiato con i ricordi, son dovuto tornare due volte per finire di leggere. Comunque bravo le tue storie, i tuoi ricordi per noi sono dempre interessantissimi spaccati di vita.

Ernest ha detto...

si è decisamente un film, un saluto Aldo

Sandra M. ha detto...

CIAO ALDO, UN ABBRACCIO DI...QUASI FINE SETTIMANA.

Nicolanondoc ha detto...

E' bello leggere i tuoi ricordi, gli amici ti ringraziano. Un abbraccio Aldo. N & R.

Costantino ha detto...

Un racconto che è una importantissima pagina di storia!

L'angolo di raffaella ha detto...

Caro Aldo,racconti in modo splendido...come sempre... complimenti!!!
Quanti ricordi...
Chissà quanta ansia e paura per voi da parte di Tua madre...
Le Tue testimonianze sono preziose e cariche di emozioni.
A presto

Unknown ha detto...

un racconto mozza fiato, che vita vissuta, che paura i bombardamenti, i proiettili, nonostante l'incoscienza della giovane età sei stato davvero coraggioso, caro Aldarè. Solo chi ha provato la guerra sa cosa significa avere fame, lo diceva anche mia nonna. ti abbraccio Alessandra

Enly ha detto...

Ho fatto due post dedicati al giorno della memoria che ti invito a leggere e, se vuoi, a commentare.

Nicole ha detto...

L'ho letto tutto tutto...una pagina di storia vera, scritta da un vero uomo...la verità solo la verità. Mi hai appassionata.