giovedì 12 giugno 2014

BRICIOLE

A volte qualcuno mi prende in giro, altre volte sbuffano ad un mio accenno di disapprovazione, altre volte ancora sorvolano sul comprendere il perchè di quello che vado dicendo riguardo il pane.
Mi viene detto "guarda che diventi paranoico con questa tua fissazione sul pane, sul suo uso e sul suo spreco".
Ebbene io conservo ancora oggi un ricordo molto amaro circa questo alimento.
A gennaio del 1940 cinque mesi prima dell'entrata in guerra dell'Italia il governo fascista dette il via alla distribuzione della carta annonaria per il razionamento di molti prodotti alimentari tra i quali appunto il pane.
Alcuni di tali prodotti tipo caffè, carne, zucchero e altro o erano introvabili oppure appannaggio soltanto di persone agiate e "borsari neri" che potevano permetterselo insieme ai contadini con i quali nostro padre barattava minuscoli oggetti d'oro di proprietà di nostra madre per patate, cicerchie, carrube etc.
Qui a Roma come tipo di pane era di largo consumo la ciriola o "cirioletta" ognuna del peso di circa 100 grammi che era poi la razione giornaliera pro capite di ogni componente della famiglia.
Il nostro panettiere di fiducia a due passi da casa era il Sor Giggetto che, come testimone, figura tra l'altro nel mio estratto di nascita – 1930.
Ogni mattina si andava da lui , si esibiva la carta annonaria dalla quale prelevava i bollini relativi e si tornava a casa con i 600 grammi spettanti alla nostra famiglia composta dai genitori e da quattro figli.
Con il procedere della guerra le scorte di farina andavano esaurendosi e di conseguenza anche il pane diventava quasi un genere di lusso.
A volte capitava che il Sor Giggetto riusciva a rimediare non so come un po' di pane extra e allora ci avvisava di tornare il pomeriggio, fare la fila e sperare di ottenere qualche cirioletta in più di quella del razionamento.
Quelle volte in cui riuscivamo a rimediarne un paio anche noi naturalmente eravamo contenti ma tra noi fratelli sorgevano sempre delle discussioni perché nostra madre doveva dividere le ciriolette esattamente in parti uguali e non sempre le riusciva.
Noi fratelli litigavamo persino per un pezzetto di mollica di pane in più o in meno. I primi due anni eravamo io e mio fratello più grande i partecipanti al dibattito poi si aggiunsero gli altri due, nel frattempo cresciuti.
Mio padre si stancò di quelle discussoni piuttosto animate e allora un giorno portò a casa una bilancia da farmacista o da orafo, che poteva pesare soltanto cose leggerissime. Briciole appunto.
Rammento ancora oggi la scena mentre, seduti intorno al tavolo in cucina, guardavamo con occhi attenti nostra madre che cercava di pesare e suddividere con precisione le due ciriolette.
Un ricordo che m'è rimasto impresso nella mente e che non ho mai dimenticato.


lunedì 9 giugno 2014

CURIOSITA' IN GIRO PER ROMA

Basta osservare.
Certo poi uno si fa delle domande ma le risposte? Non importa, la vita va avanti ugualmente.
-1) La settimana scorsa ero all'ufficio postale e stavo aspettando il mio turno ormai da una buona mezz'ora quando entra uno strano personaggio. Alto, magro, intorno ai quaranta anni, bardato dalla testa ai piedi con una completa tenuta da ciclista: casco regolamentare sulla testa, maglietta, pantaloncini aderenti, scarpette sportive. Senza bicicletta. Forse l'ha lasciata fuori la porta. Non ritira il numeretto dall'apposito apparecchio e va direttamente ad uno sportello. Qualcuno strepita, lui si guarda intorno, non capisce o fa finta, acquista una ventina di francobolli e viene a posizionarsi proprio vicino dove sono seduto in attesa. Poggia su un ripiano di marmo un bel numero di cartoline di Roma ed inizia ad attaccare francobolli sulle medesime previa leccatina. Poi fa una cosa curiosa: stacca alcuni francobolli precedentemente attaccati su alcune cartoline e poi cerca di riattaccarli su altre. Sgrano un po' gli occhi, ma viene il mio turno, vado allo sportello, compio le operazioni che dovevo fare ed esco dall'ufficio postale.
Fuori dalla porta e nei dintorni nessuna traccia di bicicletta,di tandem o di triciclo.
-2) Due giorni fa di buon mattino stavo camminando verso un bar-latteria quando vengo sorpassato da quattro persone, due uomini e due donne, forse coppie, con tanto di zaini sulle spalle. Di una certa età, sicuramente turisti stranieri considerato il loro discorrere in una lingua a me sconosciuta. Ad un certo punto si fermano, si tolgono le scarpe da ginnastica che calzavano e mettono al loro posto delle infradito di gomma. Tutti e quattro. Incuranti di chi passava loro accanto e della scia di un olezzo che non era certamente di verbena. Hanno poi ripreso il loro peregrinare ciascuno con le proprie scarpe in mano. -3) L'impulso a mettere giù questo scritto mi è arrivato ieri mattina dopo aver assistito ad un incontro ravvicinato non so neppure io di quale tipo. Due signore attempatelle, grassottelle e acciaccatelle, sicuramente tedesche dato che ho alcuni parenti germanici e semi-germanici, si sono fermate quasi accanto a me e, nella loro lingua, hanno fatto dei gesti a un giovane cinese di passaggio, occhialuto, magrissimo, alto almeno trenta centimetri più delle due fraulein e gli hanno chiesto, credo, qualche indicazione stradale. Il bello è che il cinese nella sua lingua e le signore nella loro sembra che si siano intesi perfettamente tanto che si sono poi divisi sorridendo ed annuendo tutti in maniera evidente.
Si sono salutati facendo un inchino il cinese e ciao ciao con le manine le tedesche.





mercoledì 4 giugno 2014

BETTY

Lei si chiamava Betty e nei primi anni cinquanta conobbe Paolo in occasione di un pomeriggio danzante in casa di una propria parente. Avevano entrambi tra i diciannove e i venti anni ed erano fidanzati con amici comuni. Lei con un giovane coetaneo in procinto di essere assunto presso una grossa ditta, invece Paolo, in attesa di occupazione, con un'amica di Betty. Loro quattro facevano parte di una comitiva piuttosto numerosa e quasi tutte le sere si incontravano in una sorta di osteria-trattoria situata nei pressi delle loro abitazioni per scambiare quattro chiacchiere. L'oste era il padre di uno di loro e quindi si potevano trattenere senza alcun ostacolo dalle tre alle quattro ore ogni volta. Colei o colui che se lo potevano permettere ordinavano una bibita e mangiavano un "cappone". Non era il noto gallo castrato bensì mezzo sfilatino di pane leggermente scottato sulla griglia, condito con una goccia d'olio e un pizzico di sale. Come si usa dire i tempi erano magri e quello era ciò che passava il convento. Nel corso di tali incontri si rideva, si scherzava e si passava il tempo discutendo di vari argomenti. Una di quelle sere, Betty e Paolo, seduti insieme agli altri amici, si accorsero reciprocamente che stavano guardandosi con intensità senza che nessuno di loro ne conoscesse il perché. Non dissero una parola, appena qualche secondo e volsero altrove i loro sguardi. Entrambi cercarono di evitarsi per il resto della serata. Due giorni dopo, quando insieme agli altri si ritrovarono all'ingresso della solita osteria, Betty prese da parte Paolo e rapidamente gli sussurrò
=Devo parlarti da solo
=Anch'io.
Senza che nessuno se ne accorgesse riuscirono a concordare un appuntamento per il tardo pomeriggio del sabato successivo. Quando si videro nel giorno e nel luogo concordati si salutarono non senza imbarazzo poi Paolo chiese:
=Va bene per te se prendiamo il bus e scendiamo al capolinea che si trova all'inizio dell'Appia Antica?
=Sì, va benissimo.
Saliti sul bus e lungo tutto il percorso scambiarono tra loro poche parole. Si stavano chiedendo entrambi come affrontare la situazione che si era venuta a creare. Giunti a destinazione si diressero camminando lentamente verso il prato antistante il Mausoleo di Cecilia Metella, non c'erano panchine e quindi si sedettero sopra i resti di una colonna marmorea proveniente da vecchi scavi archeologici della zona
=Paolo...te l'ho chiesto io quest'incontro
=Lo so Betty e sentivo anch'io la necessità di vederci da soli
=Sai anche il perche?
=Sì. Vedi Betty a volte certi sguardi sono più espliciti delle parole e di certi comportamenti
=Sono così trasparente per cui si nota subito quello che sento dentro di me?
=Dal momento che siamo qui, insieme, noi due soli, non credi che lo sia anch'io?
=Vero. Il fatto è che non dovremmo esserci qui e tu conosci benissimo il motivo
=Perché ti sposi a fine mese
=Giusto. E non è corretto e neppure onesto questo mio comportamento, ma...
=Ma?
=Penso che abbiamo sbagliato i tempi dei nostri reciproci fidanzamenti. Te lo dico con sincerità
=Che intendi fare
=Nulla. Anche se vorrei dirti quello che provo per te. Ho fatto una promessa e intendo mantenerla.
=Ti vuole bene come...
=Come?
=Come e quanto te ne voglio io?
=Credo di sì, a modo suo. E poi io e te non abbiamo fatto mai trapelare quello che sentivamo l'uno per l'altro
=Abbiamo commesso un grosso errore
=Già. Torniamo adesso, ti prego.
Paolo prese per mano Betty gliela strinse con delicatezza e si avviarono lentamente verso il bus. Si stava facendo buio, ma giunti a pochi passi si fermarono si guardarono e si scambiarono un lungo ed appassionato bacio, incuranti di tutto. Poi, senza dire una parola, salirono sul bus e tornarono nelle loro rispettive case.
Il dolce intenso sapore di quel bacio e di quelle labbra rimase a lungo nei ricordi di Paolo. Non lo dimenticò mai..

giovedì 29 maggio 2014

L'ATTESA

Io e Maurizio ci sposammo il 10 giugno 1940, avevo 25 anni e lui 31.
Dopo la cerimonia mattutina del matrimonio, solo a pomeriggio inoltrato terminammo il pranzo nuziale insieme, naturalmente, a parenti e amici. Nel rientrare a casa per cambiarsi d'abito e poi recarsi alla stazione ferroviaria per prendere il treno e iniziare il viaggio di nozze, apprendemmo con sgomento che l'Italia era entrata in guerra. La cosa ci sconvolse non poco giacché Maurizio era comandante di una motovedetta della Capitaneria di Porto a Napoli, aveva poco più di cinque giorni di licenza e soltanto al termine di questa avrebbe dovuto riprendere il lavoro.Mentre eravamo intenti a preparare i bagagli squillò il telefono. Maurizio andò a rispondere e poi m'informò che aveva ricevuto l'ordine da un ufficiale del Ministero della Marina di presentarsi immediatamente a Napoli perché era stato richiamato in servizio. Avevamo progettato di fare il nostro viaggio di nozze prima a Firenze, poi a Venezia e infine a Trieste e invece decidemmo di andare a Napoli e di fermarci a dormire in un albergo per dar modo a Maurizio di presentarsi il mattino dopo alla Capitaneria. Almeno così avremmo potuto trascorrere insieme la prima notte di nozze. L'indomani, alle otto in punto, Maurizio era già pronto e fece per svegliarmi ma io lo ero già da oltre un'ora e avevo preferito starmene ancora un po' a letto mentre lui si preparava per uscire. Ci salutammo con passione e non riuscivo a smettere di piangere per il troppo breve tempo in cui eravamo stati insieme. Avevamo concordato che io mi sarei dovuta mettere subito in cerca di un'abitazione possibilmente vicino al porto. Fui fortunata e la trovai, anche se piccola, con due finestre che davano proprio sul molo per l'attracco e l'ormeggio delle motovedette. Ogni giorno facevo in modo di stare affacciata alla finestra per vedere la partenza ed il rientro della motovedetta sulla quale Maurizio si trovava imbarcato. Se il rientro veniva differito e la navigazione doveva durare più a lungo venivo puntualmente avvisata dalla Capitaneria senza sapere però verso quale destinazione era salpato. A me, che avevo studiato flauto al Conservatorio ed ero appassionata di lirica,, onde far trascorrere il tempo libero più velocemente, sarebbe piaciuto assistere al Teatro San Carlo di Napoli alla rappresentazione di alcune opere ma, dato il periodo di guerra, il Teatro era stato chiuso per precauzione e chissà quando sarebbe stato riaperto. A maggio del 1941 nacque nostra figlia e Maurizio, che era riuscito ad ottenere una brevissima licenza, volle chiamarla Azzurra, come il nome della propria motovedetta. La guerra intanto andava avanti a fasi alterne ma verso la fine del 1942 e l'inizio del 1943 le sorti della guerra andarono sempre peggio per l'Italia e proprio per questo motivo Maurizio si doveva assentare da casa più spesso e più a lungo. Intanto a Napoli i bombardamenti non ci davano tregua. Tutti provammo gran sollievo quando l'8 settembre del 1943 l'Italia chiese ed ottenne l'armistizio e quindi pensavamo che la guerra fosse finita. In realtà i nazisti cominciarono a farla da padroni in città, ma quando venti giorni dopo gli stessi fucilarono alcuni marinai italiani il popolo napoletano scese in strada e si ribellò riuscendo a liberare Napoli dopo quattro giornate terribili di scontri con morti e feriti. Sin dalla liberazione di Napoli e malgrado la guerra non fosse ancora terminata io speravo sempre che Maurizio tornasse a casa il più presto possibile mentre invece era già da troppo tempo che io e Azzurra non lo vedevamo e non ricevevo neppure sue notizie. Era inutile rivolgersi alla Capitaneria perchè nessuno poteva darmene di precise. Passarono giorni e mesi invano ma di Maurizio e della sua motovedetta non si riusciva a sapere nulla. Infine un giorno, lo ricordo ancora poiché avevo cercato di festeggiare il terzo compleanno della nostra bambina, si presentarono in casa due ufficiali di Marina i quali, anche se con molta precauzione, mi comunicarono che Maurizio e l'intero equipaggio della sua motovedetta erano ormai da considerare dispersi. Fu un colpo tremendo per me, non riuscivo a rassegnarmi perciò seguitavo a sperare ancora. Quando possibile mi mettevo in finestra con Azzurra accanto e allora le canticchiavo sottovoce l'inizio della romanza dal secondo atto di Madama Butterfly di G.Puccini "E poi la nave appare. È venuto. Io non gli scendo incontro, io no. Mi metto qui......e aspetto. Aspetto gran tempo e non mi pesa la lunga attesa".
Maurizio non fece più ritorno a casa.



lunedì 26 maggio 2014

EPPURE ANDO' COSI'

Forse se ne parlo riuscirò una volta per tutte a dimenticare una mia brevissima storia quando avevo poco più di trentanove anni.
Dove lavoravo prestava saltuariamente la sua opera un mio coetaneo il quale ci aveva presentato una mezza parente di appena quindici anni anche se ne mostrava qualcuno di più. Lei aveva una sorella più grande ma erano orfane di entrambi i genitori, di qui la necessità e la voglia di lavorare. Le avevo affidato un compito non difficile, ma lei, molto intelligente, sin dai primi giorni dimostrò di apprendere facilmente e quindi nel breve arco di un mese riuscì a cavarsela da sola senza che io o chiunque altro dovesse fornirle ulteriori istruzioni. Ogni giorno poi dovevamo svolgere insieme una certa pratica per cui era molto semplice verificare come procedeva il compito che le avevo assegnato. Con l'avanzare del tempo la ragazza mostrava dei miglioramenti notevoli ed inoltre, il suo carattere sereno e socievole l'aiutava molto nei contatti con le altre ragazze, anche con quelle molto più grandi. Era la mascotte dell'ufficio benvoluta da tutti. Piuttosto bene in carne aveva un viso tondo con due occhi azzurri che brillavano e sempre un lieve sorriso sulle labbra. Sin dai primi giorni le dissi di usare con me lo stesso tono confidenziale così come faceva con le altre ragazze. D'altronde eravamo tutti colleghi e dipendenti, non c'era nessun caporeparto, c'era soltanto il nostro comune datore di lavoro. In breve lei diventò molto pratica del suo incarico tanto che si era resa quasi indispensabile. Si lavorava tutti insieme con molta cordialità e, tra di noi, si scherzava continuamente. Sembrava che la ventata di gioventù che quella ragazzina aveva con se avesse fatto diventare tutti noi quasi come suoi coetanei. I giorni, le settimane, i mesi passavano in questa atmosfera di fatica affrontata con giovialità.Trascorso un anno, forse anche di più, iniziai ad accorgermi che la giovanissima collega quando veniva da me per il quotidiano incontro di lavoro, arrossiva fin sopra i capelli e la vedevo emozionarsi. Rimanevo molto sconcertato e non riuscivo a capire da cosa era causato questo suo strano comportamento. Lei indugiava più del dovuto e io sentivo il suo sguardo che mi fissava pur senza osservarne il volto. Nessuna parola, nessuna frase fuori dal contesto del lavoro d'ufficio. Non volli mai chiederle il perché di questo modo di comportarsi e repressi più volte la mia voglia di conoscerne i motivi. Dopo due mesi decisi di comunicare al mio nuovo datore di lavoro che era subentrato al precedente, la mia volontà di licenziarmi da quell'impiego in quanto non mi riusciva andare d'accordo con lui. Aveva un atteggiamente padronale verso me e le ragazze. Con i clienti dialogava con frasi infarcite di politica nostalgica del vecchio regime – aveva peraltro il cranio pelato – e, cosa che non digerivo assolutamente, mi rinfacciava il fatto che io avevo uno stipendio più alto di sua moglie professoressa di liceo. E allora? In pratica lavoravo in quell'ufficio almeno dodici ore al giorno, per sei giorni, esclusa la domenica e come ferie, benché mi spettassero venticinque giorni, ne utilizzavo la metà. Quando informai le ragazze delle mie dimissioni rimasero molto dispiaciute. Tutte meno la giovanissima la quale se ne tornò nella sua stanza senza dire una parola. La sera stessa, al momento di uscire, mi chiese se potevo accompagnarla a casa. In ufficio si sapeva che venivo al lavoro con la mia 1100 celestina che parcheggiavo nelle vicinanze. Non ebbi i riflessi pronti per dirle che non avrei potuto farlo in quanto dovevo recarmi di corsa in un qualsiasi altro posto e allora le dissi di sì. Entrammo in macchina, lei prese posto sul sedile del passeggero accanto a me e stavo per mettere in moto quando mi poggiò la sua mano sulla mia e mi disse
= aspetta per favore
= perché?
Mi prese il viso fra le mani, poggiò le sue labbra sopra le mie e mi dette un bacio talmente lieve e casto che sentii appena il suo profumo e mi sussurrò...
= tu sai benissimo che ti voglio bene e sin dal primo giorno
Riuscii a farfugliare soltanto qualche parola di scarso significato, ma mi ripresi subito e le dissi
= e tu lo sai che è impossibile qualsiasi cosa fra di noi.
Le spuntarono piccole lacrime su quegli occhi splendenti ma non disse altro e così feci anch'io. L'accompagnai a casa e tutto finì lì. Circa cinque anni dopo le due sorelle vennero a trovarmi nel mio nuovo luogo di lavoro. Come avevavo fatto a sapere dove ero impiegato? Non glielo chiesi. La sorella più grande si era sposata ma LEI no ed era ancora più bella di prima. Prima di andarsene la sorella sposata mi prese da una parte e, fissandomi negli occhi, mi disse: "Grazie per il tuo comportamento", nient'altro.
Non mi sono mai pentito di aver agito come agii cinque anni prima.

lunedì 19 maggio 2014

SAREBBE STATO MEJO SI NUN L'AVESSI VISTA

Giorni fa, era 'na bella giornata stracorma de sole, le mi nipoti me dissero si volevo anna co' la loro comitiva ar mare, alla spiaggia libera di Ostia, a du passi da Roma. Io dissi de sì perchè era da un ber po' de tempo che in fatto de salute me girava tutto storto e poi se trattava de sta lì giusto quarche ora, tre o quattro ar massimo. Arivati me dissero de metteme all'ombra, dentro un bareristorante co' tanto de veranda coperta. M'ero portato un libbro da legge, ma appena seduto la comitiva intera sparì de botto. Me misi a guardamme un po' intorno poi presi er libbro in mano ma nun l'aprii subbito perchè 'na coppia giovane, una lei e un lui, forse venticinquenni e co' l'accappatoio addosso, se misero a sede ar tavolo vicino ar mio.
Lei 'na sventola mora co' due occhi accalappiamaschi, lui un fusto che nun finiva mai, du' vorte più arto de me.
Lui nun se mise a sede subbito, susurò quarcosa all'orecchio de lei, se levò l'accappatoio, lo lasciò su la sedia e se ne anno' drento ar locale. Du seconni doppo anche lei s'arzò da la sedia, se levò l'accappatoio e io...quasi quasi svenni.
Sognavo oppure ero svejo? Prima era 'na sventola , ma me so' dovuto ricrede perché invece era 'na bomba atomica!
A 'n certo punto me so' fatto coraggio, me so'avvicinato alla sventola e j'ho detto
"scusa me sa c'hai lassato er bikini lì alla doccia" e lei "grazie caro, ti sbagli, non vedi che l'indosso" e io "indosso te vedo solo du fazzolettini che copreno a malappena li giojelli de famija, come se l'avessi messi in vetrina dar gioielliere" e lei "nonnetto sei un vero simpaticone. Grazie. Perchè non ti siedi un attimo qui accanto a me,tra poco viene il mio ragazzo e ci beviamo un bel caffé o quello che ti va" e io "è mejo de no perché se er tu regazzo è svejo come te me legge nella capoccia tutto quello che me sta a girà compresi li pensieri passati, presenti e futuri Vado a cercamme un posto meno agitato. Ciao bellezza" e lei "grazie di cuore".
Me so' annato a nisconne sotto 'na tettoia de canne secche che in caso de pioggia avrebbe dovuto protegge le machine che sostaveno lì.
Me misi su 'na sdraia ad aspetta' l'artri ma nun presi er libbro in mano, avevo da pensa' a quarch'artra cosa.

lunedì 12 maggio 2014

LA CENA, IL CAFFE' E L'AMMAZZACAFFE'

=Allora Nico' che te ne sembra?
=Ti dirò Peppi' sono stato veramente bene
=Seriamente?
=Ci mancherebbe altro. Ho passato una serata stupenda
=Hai visto? E tu che non volevi venire
=Peppi' ma lo dicevo per non darvi troppo disturbo sia a te che a tua moglie
=Ma quale disturbo. Con la tua presenza ci hai onorato
=Adesso non esagerare.
=Sei stato male qui da noi? Le cena non ti è piaciuta?
=Vuoi scherzare, è stata una cena meravigliosa
=Caro mio, mia moglie è bravissima. In cucina poi non ha avversari
=Effettivamente ho mangiato benissimo
=E dopo il caffé ci vuole l'ammazzacaffé
=Volentieri, però è passata mezzanotte e dovrei rientrare a casa
=Altri due minuti...Che ne dici di Dora?
=Sei stato veramente fortunato a sposarti con una donna così: giovane, bella, brava, affettuosa
=Ci sono arrivato tardi al matrimonio ma adesso sono veramente felice
=In effetti fino a poco tempo fa tu eri ancora scapolo poi improvvisamente...Hai fatto tutto di nascosto, nessuno ha saputo niente di quello che stavi per fare
=Abbiamo voluto fare una cosa discreta, senza dirlo ad estranei, soltanto ai parenti
=Non ti biasimo per questo anzi sono d'accordo con la decisione che avete preso...Ma dimmi Peppi' come mai tua moglie va a nanna così presto? Sono già due ore che è andata a dormire...
=Dora è fatta così, ogni sera verso le nove, le nove e mezza al massimo le viene un sonno tremendo ed è costretta ad andare subito a letto anche se abbiamo ospiti com'è accaduto questa volta con te
=Però che strano...E non avete provato a chiedere a qualche medico?...
=Certo che l'abbiamo fatto, ma non c'è nulla da fare. Mia moglie ha un piccolo difetto: è sonnambula
=Per la miseria...
=Sì, ma non è pericolosa
=Lo capisco ma può essere pericoloso per lei
=No, no, io poi sto molto attento...Zitto, zitto...Dora sta venendo qui...Tu stai calmo, non devi avere paura, stai fermo immobile dove sei...e parla piano...non bisogna svegliarla...
=Peppi' ma con un pigiamino così ridotto non prende freddo?
=Ssss...c'è abituata...
=Peppi' si è avvicinata a me e mi sta frugando in tasca...
= Sssss...fermo...non aver paura...
=Peppi' m' ha preso il portafoglio e se n'è andata...
=Nico' non preoccuparti, domattina alle otto te lo ridò..
=Peppi' è ritornata e m'ha preso l'orologio, è un Rolex...
=Nico' tranquillo, domattina alle otto te lo ridò...
=Peppi' mi ha preso pure l'accendino d'oro...
=Nico' anche quello domattina alle otto te lo rido'...
=Peppi' ...ma che sta facendo?... Dora mi ha preso per il braccio e mi porta con sé...
=Nico' ... adesso dove vai?...che fai?...sta attento...
=Peppi' calmo, vado di là per l'ammazzacaffé e non preoccuparti, domattina alle otto te la rido'.

lunedì 5 maggio 2014

MI SON MESSO A RIFLETTERE

Era il 1975, mese di giugno, due giorni prima o dopo di quello che si dice dia inizio all'estate. Ed era sabato pomeriggio.Libero dal lavoro decisi di andare con mia moglie a vedere un film che proiettavano in un cinema nei pressi di via Veneto, verso Villa Borghese. Che strano. Nebbia completa circa il titolo del film, il nome del cinema e quello della via. Tutto il resto invece mi è rimasto impresso. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo, mi alzai e andai a fumarmi una sigaretta all'ingresso del cinema dato che in sala era proibito. Quando rientrammo in casa, ora di cena, io mi misi seduto in una poltrona del soggiorno davanti la TV mangiando due panini con altrettante salsicce. Poco dopo le ventitre, stavo per mettermi a letto quando iniziai a sentire dei dolori al petto e al braccio sinistro che aumentavano rapidamente d'intensità. Svegliai mia moglie, chiamai mio figlio allora sedicenne e decisi di telefonare subito al 118. Spiegai la situazione a chi stava rispondendo al telefono e, dopo una ventina di minuti arrivò l'ambulanza. Il medico, preso atto dell'urgenza della cosa, disse subito agli ausiliari del pronto soccorso di caricarmi e portarmi al vicino Ospedale di San Giovanni. Il medico di turno, per fortuna cardiologo, ancora lo ricordo per varie ragioni. Intanto credo per avermi salvato la pelle in quanto diede subito il via alle manovre per questo tipo di ricovero. Iniziai a non vedere più niente e, credo, ad addormentarmi. Mi risvegliai a notte inoltrata del terzo giorno dopo il mio ingresso, in una camera a sei letti. Il mio letto era circondato da medici ed infermieri e mio figlio passeggiava su e giù nel corridoio in conpagnia di un suo coetaneo Mi informarono della diagnosi: infarto posteriore del miocardio al 3°-4° stadio; danno miocardico ischemico anteriore. Prognosi: trenta giorni immobile nel letto e una terapia buona per un cavallo.Nonostante tutto trascorsi un bel mesetto tra chiacchiere, risate e avvenimenti sia comici, sia tragici, sia preoccupanti. A prescindere dagli arrivi e partenze continui di un bel numero di "ospiti" chi sulle proprie gambe chi invece coperto da un lenzuolo in posizione orizzontale e in barella – lì ci voleva poco a passare da degente a deceduto - ho stretto una bella amicizia con due miei compagni di sventura e di stanza. Stavano entrambi nei loro letti alla parete opposta la mia quindi avevamo tutti una chiara visione di come eravamo. Quando nella nostra stanza arrivava qualche nuovo "inquilino" noi cercavamo subito d'inquadrarlo e gli facevamo "barba, capelli, shampoo, manicure e pedicure" sempre senza far capire nulla all'indagato di turno. Poi passavamo ai dottori, alle infermiere, ai parenti, nostri e quelli degli altri. Eravamo tre "ragazzi" terribili. Dopo quel primo infarto riflettei sulla mia situazione e scrissi:

 Puoi dire ad un cuore sia pure ferito di stare immobile di stare impassibile? Dovresti mio povero cuore ferito restare impassibile perchè io devo restare impassibile. Dovresti mio fragile cuore ferito restare lì immobile perché io devo restare sì immobile. Mi chiedi allora: sempre? Sempre rispondo, anche quando la donna da me tanto amata di me non s'appena e ride felice e beata in gaia brigata. Vorresti mio stupido cuore ferito gioire di cose giocose e di fatti felici, ma non puoi. Vorresti mio illuso cuore ferito godere dei sensi goduti e di notti tra amici, ma non puoi. Mi dici allora: ormai.. Ormai ti chiedo? Ormai rispondi l'hai capito povero fragile stupido illuso cuore ferito, per sempre ormai tu sei finito. 

           MA NONOSTANTE TUTTO INVECE ANCORA RESISTO

lunedì 21 aprile 2014

LE MIE PRIGIONI tra SALUTI, SCOPERTE, SOFFERENZE, SORRISI, SOSPETTI E SOSPIRI

Profittando della visita della mia cara nipote Lorenza, lei scrive e io dico:
*****
1^ prigione: il 24 Febbraio 2014 alle ore 9 e 20 circa, accompagnato da mio figlio, mi presento in ospedale. Il professore che mi dovrà operare, dopo una breve visita, mi consegna un foglio su carta intestata da portare al pronto soccorso, dove arrivo e dove vengo internato in uno stanzone con molti altri pazienti già presenti. Rimango in quella bolgia circa 12 ore su una barella, senza assistenza medica, terapia né vitto. La mattina dopo vengo trasferito alla
2^ prigione (altro pronto soccorso): mi introducono in una "cella" dove ci sono altri tre pazienti, qui però con vitto, dall'alba al tramonto. In tarda serata mio figlio per avere notizie circa il mio trasferimento, nel reparto dove fare l'intervento chirurgico, si rivolge ad una caposala, la quale gli suggerisce di chiederlo alla dottoressa caporeparto di turno. La dott.ssa in quel momento è impegnata al computer e proprio quando mio figlio le sta raccontando quanto sta accadendo, lei esclama di aver trovato un posto libero per me e chiama l'ambulanza interna per portarmi alla
3^ prigione (reparto): sono quasi le 22. Ci fanno entrare, me e mio figlio, in medicheria dove ci attendono due medici entrambi molto gentili, lui un po' calvo, lei una bella e giovane dott.ssa, ed inizia l'interrogatorio di terzo grado. Mi viene il sospetto che, oltre tutto quello che ho passato dalla mia nascita in poi, vogliano anche sapere se nel III e II secolo a.c. - guerre romano-puniche - io abbia subito qualche danno al cervello, il che può darsi anche se, se ben rammento, non ero ancora nato. Dopo questo interrogatorio, veniamo a sapere che, per motivi a noi sconosciuti, il letto in teoria a me assegnato ancora non è pronto. Mi metto a sedere nel corridoio, ma vengo colto da dolori addominali, da tremore e brividi di freddo. I dottori di cui prima intervengono e si accorgono della mia pressione che sta calando di molto. Decidono perciò di trasferirmi in un nuovo reparto, la
4^ prigione : che definirei un "4 stelle lusso", perché restaurata di recente, e mi "posteggiano" in una cella modernissima, per due persone con tanto di bagno in cella. I miei dolori proseguono per quasi tutta la notte e i dottori ogni tanto passano per misurarmi la pressione, mentre mio figlio cerca di non dormire sulla sedia al fianco del mio letto. All'alba del giorno dopo, quei dolori improvvisamente spariscono e quindi i dottori, sempre con l'ambulanza interna, mi ritrasferiscono alla 3^ prigione. Qui giunto, mi assegnano la cella: due pazienti, io il numero 12, e un giovane magro e baffuto di 30 anni, il numero 13. Ci salutiamo, ci presentiamo, vado nel bagno riservato a noi due e appena rientro in cella trovo mia nuora che ha dato il cambio a mio figlio, la quale mi avvolge il collo con una strana sciarpa molto leggera ma calda, lunga circa 5 metri. Accanto al giovane baffuto c'è la sua compagna-fidanzata-ragazza- sposa-non so, molto graziosa e sorridente. Improvvisamente entra nella cella una giovane infermiera belloccia, grassoccia, capelli neri corti, occhiali con la montatura nera e con, per lo meno, mezzo chilo di rossetto sulle labbra, la quale appena mi vede, a voce alta esclama: "Aldo! Sono Stefania tua! Di qualunque cosa hai bisogno basta che chiami me" e mi abbraccia. Mi volto tutto spaventato verso i due giovani, facendo capire loro che io questa "Stefania" non l'ho mai vista né conosciuta. Stefania poi, insieme a mia nuora, si diverte a mettermi la sciarpa di cui prima intorno al collo, alla testa e agli occhi, come un burqa, e si mettono a ridere, ovviamente insieme ai due giovani. Io a quel punto non so che pesci prendere e, quindi, accenno a un amaro sorriso insieme a loro. L'indomani mattina, l'equipe medica di questa prigione mi interroga di nuovo, mi visita usando, come al solito, i loro stetoscopi gelati, al che suggerisco di inventarne almeno uno caldo. Il secondo giorno del mio internamento in questa prigione, vengono a trovare il giovane baffuto, mio compagno di cella, alcuni suoi parenti da fuori Roma. Poiché dal mio letto all'angolo della cella, attraverso una finestra del corridoio riesco a vedere degli alberi, chiedo alla mamma del giovane baffuto il nome di questi. Lei mi risponde "Sono pini marini", io allora aggiungo "Meno male che non sono cipressi". Tutti sbottano a ridere e io mi chiedo che cosa possa aver detto di tanto comico. La mattina del 1° Marzo 2014, dopo essere stato abbracciato da "Stefania tua, mia, o di chi sa chi", vengo trasferito nella
5^ prigione (reparto): mi assegnano una cella enorme, dove trovo altri tre pazienti. Ognuno di noi ha un numero ed il mio è il 17. Chiedo subito alle infermiere se si può modificare in 16 bis, ma pare che non sia possibile. In questa cella ci sono tre Garibaldi e un Nino Bixio, in quanto io, il 18 e il 19 abbiamo tutti la stessa identica barba, mentre Nino Bixio, oltre a essere il più giovane di tutti noi, non ha la barba ed è parzialmente muto. Il Garibaldi 19 dorme tutto il giorno, lo svegliano la sera tardi per cambiarlo, ma lui litiga con tutto il personale medico, poi si mette seduto nel letto e non dice una parola (evidentemente riflette sullo sbarco dei Mille a Marsala, ritenendolo sbagliato). Il Garibaldi 18 è in continuo alzarsi dal letto, infilarsi i pantaloni e farsi un giro, dove non so (forse fra i Due Mondi). Il Garibaldi 16 bis (alias 17, cioè io) pensa ad Anita. Il giorno 10 Marzo 2014 arriva l'esecuzione della pena: tre ore in sala operatoria per l'espianto del vecchio defibrillatore a sinistra del torace e l'impianto del nuovo a destra.
Mio figlio, sempre presente, fa la nottata insieme a me.
Improvvisamente, tra il 27 e 28 Marzo, alle 7 del mattino avvertono tutti che saremo spostati di prigione e, quindi, chi in sedia a rotelle, chi sul letto, chi in barella, ci trasferiamo alla
6^ prigione (reparto): la mia cella è la 102, il numero del mio letto 203. Rimango in loco per altri pochi giorni, giusto il tempo di fare una TAC, controlli del defibrillatore, medicazioni ed esami vari, tra i quali numerosi prelievi e flebo di antibiotici e soluzioni fisiologiche. Il 3 Aprile 2014, due ore circa prima di essere rilasciato, altro controllo, ma qui succede il patatrac: per mettermi su di una barella alta, un infermiere mi prende in braccio e per poco non cadiamo entrambi a terra. Lui per non crearmi danni resiste, mi stringe talmente forte tra le sue braccia tanto da incrinarmi non so se costole, vertebre o quant'altro.
Le sofferenze continuano.
I sospiri sono per quattro speciali giovani donne dell'equipe del reparto e i loro splendidi sorrisi: una dottoressa, due specializzande e un'allieva infermiera all'ultimo anno della Facoltà di Scienza Infermieristica.
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Non potrò mai dimenticare la continua assitenza morale e materiale nonchè l'abnegazione e lo spirito di sacrificio di mio figlio, di mia nuora, delle loro due figlie,mie nipoti; le assidue e costanti telefonate di mio fratello dalla Germania; l'affetto dei nipoti Accardo e congiunti; dei nipoti Rossi, dei nipoti Giannotti, di Luigi Russo, di Emilia e Angelo e di tutti gli amici blogger's GRAZIE GRAZIE GRAZIE!!!
Chiedo scusa ai blogger's amici ma per impedimento fisico non potrò, per ora, dar segno concreto del mio giostrare nella blogosfera.

giovedì 3 aprile 2014

DOPO TIC TOC e TAC (chete) ore 18 circa...

...la fuga da Alcatraz è riuscita e al più presto possibile qualvhe ricordino e anche qualche ricordone.
Un caro satuto ed un abbraccio  a tutti..
aldo.